Amarezza delle giostre: un rosario di carcasse sparse su un campo d’asfalto sbrecciato, il ferro delle travi che ormai sputa solo ossidi, una ruggine silenziosa, ma tenace, che le ha rosicchiate con la pazienza spietata degli elementi. Le panche cigolanti, i cavalli statici, ingessati nell’eternità di un movimento che non potrà mai più essere compiuto. Fu allora, tra quelle geometrie rattrappite, che il genio della gioventù emerse, come un fuoco fatuo, un guizzo, un’entità a metà tra il sacro e il dannato, pronta a consumarsi nella sua stessa fiamma. Eravamo divinità di cartapesta, marionette nelle mani di un amore che mordeva e bruciava, mentre sotto la pelle il teschio, invisibile e paziente, già limava i suoi contorni.
Era la promessa del nulla, la danza su un palco d’assi sconnesse, il respiro breve di chi vive senza conoscere la continuità, ignorando che ogni gioco della carne, ogni riso esploso, era già compromesso dalla legge della perdita. Gettarsi, dunque, sì, perché resistere era già cadere. Dall’alto del piano ultimo, dello strato supremo della propria esistenza, il salto non era fuga né vittoria, ma un rituale. La gravità come ultima compagna, una lama d’aria che separa il prima e il dopo, che abbatte ogni architettura mentale, ogni macchina del senso. La fine, infine, non era che un sigillo, il naturale compiersi di una vita che era morte fin dall’inizio: assassina per sua stessa natura, la vita che uccide ogni secondo che dona.
E tu, l’epicentro del mio cataclisma, l’anomalia che spezzava ogni regola: il tuo sguardo era un sisma, la vibrazione di tutte le mie certezze, il crollo delle mie strutture interne, già fragili, già incrinate. Guardarti era come osservare una frana inarrestabile, il terreno che cede sotto i piedi, un abisso che si spalanca, affamato e irresistibile. Noi, due fontane barocche, eccessive e ridondanti, gettavamo getti d’acqua nell’aria, un’acqua torbida, pesante, che cadeva su di noi come pioggia annerita, piena di residui, di detriti, di un passato mai realmente vissuto e di un futuro già andato.
E il futuro: un nodo di nebbia, un garbuglio senza capo né coda, un intreccio di vie che non portano in nessun luogo. Lo vedevamo da lontano come un’ombra informe che si agitava oltre l’orizzonte, una macchina arrugginita che avanzava senza rumore, ma con la certezza implacabile del destino. Non era il nostro futuro, era il futuro stesso, un’astrazione, un concetto che ci sovrastava come una mano enorme, pronta a schiacciarci. E noi? Noi ridevamo, o forse piangevamo, e non c’era differenza. Noi, creature del disordine, della frattura, eravamo il groviglio stesso, la ruota che cigola, la fune che si spezza, il dente del tempo che tutto lacera. Noi, rovine consapevoli, eravamo ciò che resta dopo il crollo. E bastava.