L’altro, il diverso, colui che si sottrae e non appartiene, avanza come una figura che si lascia intravedere appena, un’ombra che si consuma tra le ombre, un passo che non lascia traccia, come se fosse fatto d’aria più che di carne. Egli si distacca dagli altri non con un gesto improvviso, ma con una lenta, inesorabile ritirata: come una marea che si abbassa senza rumore, lasciando la spiaggia improvvisamente nuda e silenziosa. Le vie su cui cammina sono buie, scavate nel ventre della notte, sottratte perfino al respiro della città che pulsa altrove. Quelle vie gli sembrano non appartenere al tempo comune, ma a un’ora sospesa, un intervallo che nessuno abita se non lui. Sono vicoli stretti, quasi segreti, percorsi da un vento sottile che porta con sé il ricordo di voci spezzate, di vite che si sono consumate senza lasciar segno. Egli passa e ascolta, senza fermarsi, senza mai cedere al richiamo che pure, dietro di lui, continua a inseguirlo.
Dietro, infatti, restano i molti, i frenetici, quelli che non sanno tacere. Essi gridano il suo nome, lo intonano come fosse un coro, un appello collettivo lanciato contro il buio. Lo pronunciano con disperazione, quasi fosse un amuleto da brandire contro la perdita. Il nome vola tra le case, sbatte contro i muri, si sbriciola nell’aria e torna indietro come un’eco vuota. Eppure, quel grido non lo raggiunge, non riesce a trattenerlo. Egli non lo ascolta. Non vuole più ascoltarlo. Perché quel nome non gli appartiene, non è più cosa sua. È un suono che gli fu imposto, una catena che non vuole più portare. È un marchio che lo riduce, lo inchioda a un’identità che non sente, e che per questo ora lascia cadere a terra come si lascia cadere un abito vecchio, consunto, inadatto. Egli non è più quel nome, non è più la voce che gli altri credono di conoscere. È, piuttosto, un silenzio che si sposta, un respiro che si sottrae.
Avanza e scivola via, oltre la folla che lo bracca, oltre gli sguardi che non comprendono. Si ritira in uno spazio segreto, nel riflesso intangibile dei suoi pensieri, là dove le immagini emergono come fantasmi luminosi. In quello specchio interiore, improvvisamente, prendono forma giardini sconosciuti, mai visti da occhio umano, mai calpestati da piede mortale. Sono giardini che appaiono come apparizioni, appena intraviste, simili a memorie di un sogno svanito. Gli alberi si piegano in curve impossibili, i fiori aprono corolle che sembrano fatte di luce e di respiro. Non appartengono al mondo, ma a un tempo diverso: un’eternità smarrita, un tempo sospeso che non è mai stato. Giardini di silenzio, avvolti in nebbia evanescente, che velano e proteggono, come se fossero il parto di un desiderio antico, mai espresso, mai realizzabile. Sono giardini che esistono soltanto nel segreto di chi cammina, come promesse che non si compiono.
E in quell’angolo remoto della mente, dove nessuno osa entrare, ecco spuntare le violette. Viole tremanti, piccole, oscure e fragili. Viole bagnate dalla rugiada, piegate dal peso della loro stessa grazia. Sono fiori che vivono un istante soltanto, eppure in quell’istante dicono tutta la malinconia del mondo. Giacciono abbandonate, disperse come note di un canto mai finito, un canto che nessuna voce osa intonare. Eppure, proprio per questo, esse restano pure, incontaminate, sospese in un silenzio che è più vero di qualunque suono. Lì, in quell’ombra segreta, egli trova rifugio. È un rifugio senza nome, senza voce, senza appigli, eppure infinitamente reale. In quell’ombra risuona soltanto un’eco: un’eco che non risponde a nessuno, ma che si rivolge soltanto a lui, fragile e insistente, come un segnale che proviene da un altrove inconoscibile. È una verità che vibra, ma che non si lascia mai catturare.
La sera, intanto, scende su di lui come un manto inevitabile. Non una sera serena, ma una sera stanca, greve, che cala come un sipario e lo avvolge. È una sera che porta con sé l’abbandono, che lo avvolge di fatica e di estraneità. I contorni del mondo si sfaldano, le ombre si allungano, e persino la sua stessa ombra gli appare distante, irriconoscibile. È come se fosse seguito da un doppio che non gli appartiene, un’ombra che lo tradisce. E allora egli si sente straniero persino a se stesso, disabitato dal proprio corpo. Cammina e intanto guarda la casa: quella casa che pure dovrebbe essere il suo approdo, il suo rifugio. La vede, ma come si vede un miraggio: tremolante, distante, mai raggiungibile. È una casa che si dissolve man mano che egli avanza, un’illusione che non concede tregua. Attorno a lui, intanto, tutto si deforma, tutto si piega. Gli oggetti, i muri, persino l’aria, sembrano ridere di lui con un ghigno ambiguo, con un sorriso maligno. È come se il mondo intero si fosse trasformato in un teatro che lo prende in giro, che lo accerchia e lo avvolge. Egli cammina dentro un sogno fragile, un sogno che vacilla, che si spezza al primo barlume dell’alba.
Eppure, tutto questo — e qui la ferita diventa più acuta — non è reale. Nulla è reale. Non lo è il dolore che gli rode dentro, non lo è l’illusione che lo seduce e lo inganna, non lo è la stanchezza che grava sulle sue spalle come una croce, non lo è la voce che a tratti gli sembra di udire, ma che subito si dissolve. Tutto non è che fantasma. Ombre sottili, fuggevoli come la fiamma di una candela che trema al minimo soffio. Eppure, proprio quei fantasmi che non hanno consistenza possiedono il potere di ferire. Sono irreali, e tuttavia incidono. Lo tormentano con la forza di una lama invisibile, lo perseguitano con il peso di un ricordo che non si dissolve. Quei fantasmi tracciano linee segrete dentro la sua anima, incisioni che nessuno può vedere ma che lui sente bruciare. Sono marchi invisibili che si portano dentro, segni che non si cancellano mai. E così, il diverso continua a camminare, portando in sé il peso di quel marchio che non si vede, ma che lo divora. È un segno che nessun tempo potrà mai cancellare, che nessuna fuga potrà dissolvere. È un marchio silenzioso e inesorabile, che lo accompagna sempre, che lo tiene stretto in un abbraccio oscuro. Un marchio che non promette riscatto, ma che diventa la sola, immobile verità del suo esistere.