mercoledì 7 ottobre 2020

minime anime

Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

martedì 6 ottobre 2020

l'immagine è quella

immagine è quella di un’applicazione che mette alla ricerca di coincidenze randomiche in punti randomici nello spazio attorno a te

O



nel silenzio del corpo, della parola scritta, brancicante e sfibrante come l’apparenza della vita e della morte

una teoria della distanza prima di ogni altra cosa



giovedì 1 ottobre 2020

The Filthiest Person Alive

 “Come sarebbe a dire che non c’è spazzatura nel Mondo? sono nato per essere a buon mercato! svenduto intrepidamente! Odio il Mondo che è marcia merda!”

Seriamente. Dispiace farvi notare che questo dove alloggio stanotte è lo stesso albergo in cui morì Divine, la sboccata. The Regency Hotel. In culo a tutti voi! Vi ho fregati! Io sto qui!

È come se la sua presenza aleggiasse ancora in questo ormai fetido posto. Il suo grasso e pesante e ingombrante corpo, come Marilyn ma elevata con un argano all’ennesima potenza. È lei stessa come rinata icona hollywoodiana, fatta cattiveria in persona, con la sua figura possente, fisicamente pesante, un pressante ostacolo al Mondo stesso che non morirà molto presto. Non riuscirà ad ammazzarlo, questo Mondo di sperma malato, non farà in tempo a sparargli con la sua Colt rosa.

È come vuota, la stanza, adesso, senza la sua sconcia presenza. Mi sorrido beffardo allo specchio del cesso, col bozzo sul cranio che mi sono procurato sbattendo contro la porta entrando in camera. È pura follia essere qui. Uno sforzo mentale immenso. Ma ormai ci sono e vi trascino per i capelli con me in questa farneticazione.

Quindi io ho guidato fino al passo carraio di questo hotel che mi ha aiutato a conservare un po’ del suo ricordo. E a raccontarvelo. Questo è l’hotel. Questo è l’ingresso. E questo è l’hotel. E questo è lo scrivere per scrivere. L’infinitamente riscrivere pezzi che si alternano alla realtà. Lo stendere parole e incanti nell’inutile gioco dell’affabulazione.

E insomma, tre giorni dopo che Divine è morta, il suo corpo è stato trasportato a Baltimora per il funerale. Pure io ho accompagnato il corpo di Divine, e all’arrivo, ho salutato Frances, madre di Divine. Notò l’orecchino di diamante che portavo all’orecchio e che tanto sarebbe piaciuto a Divine stessa, per sua stessa ammissione. Amava i diamanti perché sono i migliori amici delle donne.

La sua curiosità è come quella di un adolescente, Divine usa se stessa per gettare all’aria le carte della società e del buon senso, quasi a voler decorare la propria stanza con fiori rubati dal cimitero. Un mostro postpunk. In molti dicono che era una star, una drag queen. Questo non è vero.

Lei era la Star spettacolare, la Jayne Mansfield svaccata sotto la forma di “zio Otto”. Questo era uno dei motivi per cui ha accettato di farlo, quel personaggio. Voleva recitare come un uomo.

Su Divine la madre, Frances Milstead, ha pubblicato un libro intitolato Mio Figlio Divine. Se vi piace Divine, è necessario averlo. È molto toccante, pieno di fotografie glamrock. Una roba strafiga. Benedite, o Dei, l’arte corrotta e l’immondizia di Divine.

Circa un anno dopo la morte di Divine, il mio amico, quello coi capelli verdi, adesso non ricordo il nome ma poi magari mi torna in mente, è andato a vedere John Waters dal vivo, stava tenendo una lezione, una cosa che non ho capito bene che cosa fosse. Ha parlato per poco più di un’ora. Mi ha spiegato che cosa aveva detto ma non mi ricordo molto, se non che ha imparato a non vestirsi di bianco. O una stupidata del genere. Mah, mi ricordo una roba così, ma forse ricordo male. O queste sono le parole esatte che riportò il mio amico. In seguito, avevano aspettato tutti in fila per incontrarlo.

Di fronte a Waters c’erano queste drag mostruose che avevano deciso di fare un provino per John. Voglio dire, queste femmine avevano script e tutto, cioè, mossette, capelli cotonati, abiti sgargianti… e quei terribilissimi monologhi.

È stato orribile, racconta il mio amico. Infine, John le interruppe bruscamente. [Mi piaceva che il mio amico mi raccontasse tutto. Poi quei capelli verdi gli donavano un tocco di non so che permettendogli di inventare la narrazione oltre ogni limite.] Dopo di che urlò “fucked off”, e firmò il mio manifesto di Hairspray che il verdecrinuto aveva portato con sé. Caro.

Divine è stato esposto nel suo “cofanetto” con addosso un abito Tommy Nutter, camicia dal collo nero, e un gioiello progettato da Andrew Logan. Una figata. Le sue mani sono state poste sul suo stomaco. Prima che la bara venisse chiusa, qualcuno [non son sicuro se Bernard J, ma forse sì] volle mettere il contratto di lavoro originale nel box con lui. Naturalmente, questo è quello che dice il mio amico che stava lì vicino a guardare. Io non c’ero. Forse che sì, forse che no. Sarà, non sarà, suona dubbia per me ’sta cosa.

Divine si specializzò in ruoli estremamente camp, quando non era deliberatamente trash, che fecero di lui una icona gay molto prima che diventasse famosa anche fra il pubblico generale.

Divine, pseudonimo di Harris Glenn Milstead. Nato a Towson il 19 ottobre1945, stato del Maryland, da Bernard e Diana Frances Milstead.

A dodici anni si trasferì con la famiglia a Lutherville, un quartiere di Baltimora. Il suo futuro regista, “scopa secca” John Waters, viveva poco distante, nella stessa strada ed è stato un suo amico d’infanzia.


Divine era noto per essere sempre puntuale. Così si lavora e così si comporta ogni vera attrice.

Quando non si presentò la mattina seguente per il suo turno, cominciarono a preoccuparsi.

Il suo manager Bernard Jay andò in albergo a mezzogiorno per controllare, usò la sua chiave di accesso per entrare. Lo trovò. Morto, nudo, e coperto con una coperta. Morì nel sonno di insufficienza cardiaca. Dicono. Aveva 42 anni. 43 non ancora compiuti.

[Si prega di perdonare il mio uso del genere indefinito (cioè lui / lei indifferentemente) ma non posso fare altrimenti.]

È seppellito a Towson, sua città natale.

Era soprannominato “Divine” dal regista e amico d’infanzia, John Waters. Hanno fatto film meravigliosi insieme, in particolare Female Trouble [uno dei miei preferiti] e Pink Flamingos.

È stato proprio Fenicotteri Rosache l’ha fatta diventare una celebrità, perché ha mangiato merda di cane per davvero. La scena più iconoclasta e punk che sia mai stata girata in un film. È stato scioccante per molti, e divenne la cosa che lo lanciò nelle leggende. Perché le leggende sono fatte di sterco che ingrassa il terreno delle merdose fantasie.

Ho avuto con la Star Divine un rapporto molto strano nel tempo. Per me era diventata una grande cantante Hi-NRG subito dopo i primi film di Waters grazie ai quali aveva avuto notorietà. Ho sentito la sua musica, e sono stato agganciato. Di pietra. Come soltanto mi era successo anni prima per Sylvester.

Mai veramente mi era interessato a seguirlo come attore/attrice. Poi ho visto Female Truoble da un amico, una copia sgangherata, piratissima e di recupero che non so nemmeno come facesse a possedere. E badaboooom.

Ho visto Divine in concerto molte volte. La prima volta che la vidi fu al Ballroom Nettarina a Ann Arbor, Michigan. Si presentò splendidamente in ritardo, ma un grande spettacolo. La volta dopo era al Liedernacht a Detroit. Insomma, per farla breve, durante lo show, le ho consegnato la mia copia di I’m So Beautiful, e lo ha firmato per me [elegantemente, in diagonale, sull’angolo, proprio in cima]. Poi, più tardi, quella stessa sera, Divine ha gettato il suo asciugamano madido di sudore a me, proprio a me. Ce l’ho ancora. Tesoro. Dopo di che, l’ho vista al Limelight di Chicago. Apertamente Divine mi piaceva. Il suo modo di stare in scena. Mi ha scelto fra il pubblico, e ho ballato sul palco con lei, e lei mi ha spinto in petto. Ha anche firmato il mio poster. Cioè il suo poster, mi sto incasinando.

Lui era in città per girare il suo primo episodio di Married… With Children. La notte prima era dovuta andare sul set, ha cenato con gli amici. In seguito, è tornato in albergo. Prima di entrare in camera numero 261 si sporge dal balcone e canta “Arrivederci Roma” per gli amici.

Questo accadeva alle 06:00.

Il carro funebre di Divine ha una scorta di polizia.

La maggior parte delle cose di Divine finirono poi per essere vendute all’asta da Christies, per coprire i debiti. Pure da morti, si risarciscono i debitori. Non c’è pace. No.

Non denaro devoluto in beneficenza a suo nome, ma che le persone le comprassero tanti fiori. Perché li amava così tanto. Elton John ha inviato tantissimi fiori, come hanno fatto Tab Hunter e Whoopi Goldberg – insieme con un biglietto che dice tipo: “Guarda che cosa può fare una buona recensione”.

Negli anni80 i dischi dance di Milstead (prodotti, composti e suonati da Bobby Orlando), furono famosi in America, Europa ed Australia. A quelli prodotti da Orlando fecero seguito pezzi di produzione inglese (Stock, Aitken e Waterman), tra cui il celeberrimo You Think You’re A Man, che salì in testa alle classifiche inglesi ed europee.

Pensi d’essere un uomo, ma sei soltanto un ragazzo, sei soltanto un giocattolo per la mia soddisfazione.

Nel 1988, Divine era praticamente entrato nel biz del Cinema. Hairspray era appena uscito. È stato veramente il primo film main stream di John Waters. Ed è stato super. Aveva ancora il fascino dei suoi vecchi film. Le recensioni erano fantastiche e, sulla scia di questo, a Divine venne offerto un ruolo semi-ricorrente nella serie Sposati… con figli, una serie televisiva FOX in prima serata.

Polyester, il primo film di Divine in odorama con Tab Hunter. Odori inclusi di rose, scoreggia, colla, pizza, benzina, puzzola, cuoio, scarpe sporche e deodorante.

E quanti froci freaky l’hanno amata questa qua? Molti oggi non sanno nemmeno chi fosse.

La notte in cui Divine è morto ho fatto tutto quello che poteva essere appropriato a renderle onore. Sono andato in un cinemino porno con il mio amico, la TicoTico che di giorno faceva la guardia giurata e la notte andava a battere in calze a rete nelle aree parcheggio dell’autostrada per farsi i camionisti, quelli più grassi. È stato come un doppio disegno, un’inversione di marcia. Non volevo pensare alla morte. Insomma, davano Faster Pussycat Uccidi! Uccidi! interpretato da Tura Satana e un’altra roba subito dopo dal titolo tipo La valle delle bambole o qualcosa del genere, non ricordo bene. Quando siamo arrivati ​​a casa tardi quella sera, c’erano circa 4 messaggi di cordoglio sulla mia segreteria telefonica. Il giorno dopo ce ne sono stati molti di più. Io non rispondevo alle chiamate. No mi andava. Mi piace aver visto quei film il giorno in cui Divine morì.

Comunque ora sono qui, ll’hotel. Siamo entrati dall’ingresso principale e fatto il nostro giro dentro alla zona piscina. Puzzo intensissimo di cloro. Odioso.

Alzo gli occhi a quel balcone dove Divine ha cantato la canzone per le ultime persone che l’hanno visto in vita. Diobò mi piglia la tristezza. E racconto lo stesso. La mente è la stanza dei souvenir, che sono piuttosto scarsi, a basso costo. Il cesso dove vado a vomitare è un relitto. Sbatto con il cranio contro la porta. E vomito ancora. La mia missione è stata quella porta. Sbatterci contro.

Ho avuto, in ogni caso, il modo di vedere il numero della porta che Divine toccò e carezzò prima di morire.

Il 7 marzo, 1988, Divine era a Los Angeles, soggiornava al Regency Hotel, situato al 7940 di Hollywood Boulevard. Si è trasformato in un condominio ora, si può vivere lì.

In realtà il Regency Hotel è andato. Non esiste più. Il luogo in cui Divine ha respirato il suo ultimo respiro, è stato raso al suolo. Nel luogo in cui morì Divine, ora, è tutto andato, tranne forse il segno molto cool che è rimasto nella mia testa di cazzo che ha sbattuto su quella porta che nemmeno esiste più. Non c’è più quella stanza, zio Bo! Sta solo nel tuo cervello malato! Ma viaggiare indietro nel tempo.. mi rende felice, mi fa star bene e ancora mi fa sentire vivo. Se possibile.

Poi le ruote del mio cervello, si sa, come sempre cominciano la loro filatura di narrazione emozionale. L’affabulazione dello stolto e del mentecatto. Del mendico di trame e misfatti e d’orrori amorosi. Come sia morta davvero Divine, sono anni che me lo chiedo.



mercoledì 30 settembre 2020

Mario Merz

 INFORMARE


“Ma si può fare informazione sull’arte, e però né arte, né informazione sull’arte esistono senza aggettivi.” – Mario Merz


1. già da qualche anno queste forme vengono messe in discussione nella linearità stessa dei loro procedimenti (“Non basterebbero decine di pagine a riassumere e riepiogare i tanti tentativi che […] sono stati messi in atto per cercare di far coincidere, o almeno assimilare, certe strutture artistiche e certe strutture scientifiche: ho già ossevato, più di una volta, che le elucubrazioni attorno al Numero Aureo, alla serie fibonacciana, alle regola armoniche si erano rivelate come deludenti e inattendibili” – Gillo Dorfles, in “L’Arte, la Scienza”)


2. c’è da dire, invece, che in alcuni artisti.. per Merz, piuttosto, si dovrebbe parlare di una risemantizzazione, a vari livelli, di questo spazio che alcuni sperimentalismi avevano lasciato vuoto. Lo spazio di Merz è spazio di produzione di spazio. Tautologia, invero: la sapienza dello spazio, la sapienza dell’Arte


3. pensiamo a “sentiero per qui”, Triennale di Milano, 1986. Tutto nella sua opera – e ogni opera d’artista è summa dell’opera intiera dell’artista – attraverso tautologie concettuali (cfr Luciano Fabro per il senso di Tautologia) al movimento dinamico quasi a indicazione che ogni opera d’arte è fulcro di creazione energetica: costituisce il centro del mondo. L’igloo non è che assoluto spazio delimitato da materiale non trasparente (legno) come volontà d’isolamento e pure da materiale trasparente (vetro) che è relazione visuale con l’interno


ENERGIA


“i numeri vivi danno delle visioni” – Mario Merz


1. il numero come eccitante, rivelazione d’energia, quantità dinamica che induce verso una creazione di realtà, il numero come un atto di evoluzione che dia realtà a qualcosa altrimenti inconsistente: “i numeri sono un determinato e quindi conoscibile grado di organizzazione di energia”


2. Merz, sostanziato da una simile conoscenza, ha nel numero (nel suo accrescimento esploso, naturale e viscerale) la sua peculiarità, disegnando immagini e pensieri in un continuum abilmente orchestrato in sequenze naturali col risultato di produrre un lavoro mimeticamente esposto “per un maggior potenziale di energia”


3. materiali fragili e micidiali: immagini esposte. Merz li manovra con disinvoltura, sorprendendosi nel loro pericoloso fascino ma pure senza lasciarsi irretire nelle loro secche o esporsi a un canto ambiguo, affidandosi a un canto senza meraviglie e senza favole ma nella piena coscienza di natura


LA GERMINAZIONE DELLA COSA


“il cartello di foglie è un’architettura ideale” – Mario Merz


1. occorre riconoscere che la “casa tra gli alberi” è una tesi intrigante. Merz ci offre un referente se non addirittura il luogo fisico seppure sconosciuto e decentrato ma perfettamente rintracciabile. Non è poco. È un atto qualificato quanto coraggioso, quello dell’artista, che si produce già in sede di prefazione, di composizione poi

2.  ci si accorge del vuoto dell’igloo-casa: vuoto mobile, secondo Fibonacci (numerazione naturale) che apre la misura dell’interesse: l’alloggio, con sapienza e documento dell’artefice, pone all’interno e interpreta quel vuoto come silenzio in cui chiamare, a dispetto, le voci a tutto campo. Pertanto inizia, a tutto campo, il percorso


3. c’è altro: “la sua è un’arte dell’abitare e dell’insediamento antropometrico? Così parrebbe” (Tommaso Trini). Ma pure la figura di casa genera la novità – quasi un gesto etico e forse proprio quello – del pensiero quale “oggetto” che significa e dona aurea all’odissea del percorso: la puntualità dell’evento. La casa di foglie germina, crea e disperde: si muove e concentra


[nota: a metà anni ’80 progettai un testo di un centinaio di pagine “la poesia numerica di Mario Merz” a proposito del volume di Mario Merz “voglio fare subito un libro”. Quel mio testo andava a cercare di decifrare il fare poetico nella scrittura di Merz. Ci fu un confronto, per quel mio testo che mai vide luce editoriale per mia incuria, con Jole De Sanna, un’intesa di intenti che mi portò a una lunga amicizia con la critica d’arte militante di Jole. A lei dedico]

il desiderio

 Il desiderio. Dov’è la sorgente? In quale recesso? Chi può ormai stanarlo? Queste le domande, come sangue nelle reni, afflusso improvviso come un tarlo che a poco a poco obnubila la mente. Non vale, allora, stimolarlo solo con la memoria, come se la poesia potesse essere pura sessualità (o artefizio di quella, come nell’amato Sandro Penna, o nel letto madido di sudore di morte di Dario Bellezza) non ritorna niente dal sesso scritto, niente.


Il sesso è pura alterità, non sta nemmeno più nei pornoshop e nemmeno nel deep web. Figuriamoci se può stare nella poesia. Nel suo lucente fingere. Finzione è poetare, al massimo è erotismo dello scrivere, altro da sé. O pornolalia.


Va detto più volte, anche di notte, quando il sonno non viene più. E, nonostante ciò che si può pensare, questo fare poetico non ha bisogno di orpelli visivi, di mattane teatrali poiché è già bruciore di vene, un piccolo fuoco – come così occorre che la poesia rimanga – una brace già nella completezza della pagina, del suo farsi verso (avvicinarsi a) ed è come se ancora, in questa nostra età sfinita, si potesse stare sulle barricate a dar voce alla vita. Come se si potesse.

martedì 29 settembre 2020

pubblicare poesia oggi

 Pubblicare poesia, oggi, è al di fuori di ogni controllo, di ogni macinazione vicina all’atto consumistico. Poesia non è vendibiltà, mai lo è stata, a maggior ragione nel nostro contemporaneo. Pubblicare poesia è, oggi, più che allora, atto di identificazione con il nulla del dire. Se non al proprio parlarsi, a volte, addosso.


È da anni che in Italia la poesia corre lungo vie sotterranee di autodefinizione. Vie sotterranee che, a mio avviso, certificano un essere in disparte, un non centralizzarsi, nemmeno col pensiero. Neppure con la presenza fisica dell’autore. E non solo si tratta di una grande metafora di quanto avviene nella superficie delebile del reale.


 

Le vie del fare poetico sono spesso invisibili, o, meglio, sfuggono a criteri di visibilità. Ciascuno tenta le carte che può, che possiede, per raggiungere affannosamente un momento che si avvicini, almeno lontanamente, alla realtà del tangibile. Come se il poetare non dovesse essere il più lontano possibile da ciò che altre espressioni dell’umano artefare propongono. Poetare è assenza, mai centralità o assoluto dire.

poche parole aggiunte

 Poche parole aggiunte come minimi scarti al mio reale editoriale contemporaneo.


Proprio al di sotto del pensiero riflesso, ovvero dell’io (non maiuscolo, in questo caso) che, da anni, si articola nel mio linguaggio, quasi vicino al dire quotidiano – la poesia – s’implicita come un pensiero tacito, silenzioso ma preverbale e oltre ogni categoria, inscritto nel corpo dello scrivente e dotato di una capacità simbolico-espressiva che risiede nel tradursi spontaneo di un senso altro nell’altro e nella gestualità che accompagna il situarsi dell’io, spaesato, nel mondo del concreto.


Così per riscoprire questo fondamento comune che dovrebbe essere di ogni prassi e di ogni forma di attività poetica è necessario, secondo me, per quel che vale (e temo poco interessi) operare decisamente una sospensione di giudizio, un’astensione, un taglio, nei confronti di tutti gli interessi di dicibilità o narrazione, nei confronti di tutte le finalità e le azioni che assumiamo e compiamo anche soltanto in quanto esseri avidi di sapere (quando di questo si tratta).


È, nelle sue linee fondamentali, la riflessione di un poeta che si sviluppa in una direzione opposta a quella attuale e non considera l’immagine come il momento della rappresentazione bensì come il luogo, il punto esatto, seppur minimo, piccole figure, ove le parole si scontrano e incontrano tra leggi immutabilmente poetiche. Si concretizza esemplarmente la relazione percettiva e corporea tra io e mondo e come l’apertura della possibilità di un accesso alla dimensione ontologica della visione e della sensibilità.


Cardine su cui si incentra l’interpretazione della scrittura come soggetto, direi, qui, unico, della percezione è la distinzione (sul fare poetico) tra il corpo proprio vivo – ossia il corpo “in carne e ossa”, vivente e vissuto in prima persona, del poeta – e il corpo oggettivo, corpo rappresentato e ridotto a cosa del poetare. 


Un legame tra immaginazione e neutralizzazione della stessa e possibilità di immaginare viene radicalizzato nel testo.


E il riferimento del testo stesso è fondamentale per comprendere lo sviluppo del dire, nel lavoro del poeta, e il suo approdo a un’ontologia del sensibile che risulta essere una parte portante dalla constatazione della sostanziale estraneità della poesia rispetto al concreto mondo della vita soggettiva: è in quest’ottica che la coscienza rappresentativa e la riflessione diventano momenti delimitati di una vista esperenziale dominata da una viva corporeità. Sensibile e agente.


Percezione radicata nel corpo vivente della scrittura, costantemente e ostinatamente orientata in modo prospettico e strutturata da diverse forme di motivazione.


Nella coscienza immaginativa del poetare lo scrivere è posto come non-esistente e in questo modo il soggetto perviene a divincolarsi dalla vastità del mondo esterno, lo neutralizza eclissandosi sospendendolo e negandolo nella sua posizione d’esistenza e aprendosi al possibile e all’irreale.


Quindi distinguere nettamente tra percezione e immaginazione attribuendo alla prima la capacità di connettersi con le cose nel mondo, e alla seconda un radicale potere di nientificazione, di annullamento dei suoi contenuti.


Sebbene segnata anche da un confronto con il reale, il quotidiano, la scrittura non rinnega mai la propria provenienza, in particolare per quanto riguarda il riconoscimento della centralità del problema della percezione dello scrivere e l’esigenza dello scrivere. Al centro della riflessione, in tutto il testo, vi è infatti il tema della percezione dell’inesistente-esistenza, intesa non come puro sguardo capace di descrivere assenze e strutture fenomeniche ma piuttosto come esperienza primordiale del poeta, sfondo ultimo dal quale si staccano i suoi atti e il suo sapere, se mai ce ne fosse uno.


Il soggetto della percezione non è tanto un ego che trascende, facile oggi a rintracciarsi nella poesia di molti minori (e molta se ne legge e quindi se ne sa), che opera la riduzione per attingere un piano di fenomeno da baraccone, di presenzialismo allo stato brado, quanto un corpo poetico agente e senziente, animato da un’intenzionalità irriflessa e precategoriale dell’io non esistente.


Solo in questo modo è possibile uscire del coro, attingere il piano di quel regno di evidenze originarie che è il piano dell’autore, di questo poeta, un “autore minore”, sì, che è esistito e che esiste, al contrario di ciò che possono pensare altri, pur non essendo normalmente oggetto dell’attenzione e riflessione della critica e dell'editoria italiana.