martedì 30 marzo 2021

per Dario Bellezza: amore senza indugio

I
si può guardare, largamente

I visitatori stanno alle parole e non all’occhio. Quale pensiero è quadro della tela? E quale servigio punisce a meraviglia?
Attenuata la sorgente, in minor forma: Alto al visibile s’attende il partire vermiglio: la marcia di cattura ove “batteva il sole di mezzogiorno. La morte” cruda e oro, l’intendimento al solco: così appare scoperto “ogni rimorso, una bestia affamata”. Il vetro è specchio d’ogni offerta al lume, “a quel succo di terreno” inanime e prono.
Ora niente può più: “colpire la buona ventura”.

Tranquillità del “sonno ci raggiunge”, e sesso estremo: è un’argentea lucidità, “una tregua”. Causa del freddo. Ma assolutamente cheto sei ora. Qui si respira, alfine.
Ma di te? Una inabitata coscienza riserba le apparenze: all’angolo le strette di mano, nessun ricordo e riguardo: questo è già causa di soccorrimento, Dario.

Ma ecco che adesso il sottile terrore minaccia, la dimenticanza, poco alla volta. Non è davvero finita la nostra diabolica presenza: “è la parola finale”. Corte fiamme alzano, a questo Mondo immondo, lo stato di miseria e il nostro cattivo sorriso.
“Se misurassimo ogni nostra necessità quale afflitta immagine, ma “qualcuno non ha più occhi”. Profondamente incassati.
“Gesta e pensamenti in accordo” con lo sguardo” come se volessero affascinarci, ben disposti a “questi attuali eventi”, questo disconoscerti.

II
Si può guardare largamente

Non condizioni a intrattenere il Tempo: ignote le nuove generazioni, non ti conoscono o riconoscono, è vero! Anche levando su i begli occhi che hanno a guardarti.. non esisti: tu una testimonianza divina ma del tutto svuotata.
Ma le teste più capaci, poche, di osservare “non hanno crisi della bocca”.
A ben guardare nulla è immorale della tua vita e della tua morte di poeta e tutto equivale al quotidiano angelico, all’aurorale viaggio, al buon camminamento: AL TUO SONNO ETERNO PER QUESTA NOTTE ETERNA ALMENO.

______________

Scrissi i versi in prosa, che leggete più sopra, anni dopo la sua scomparsa, nel ricordo di alcune lettere che, ai tempi, gli spedii e in memoria delle sue risposte. Ora mi accingo a parlarne. Davvero. A memoria futura. Per quel poco che posso.

Con gli anni, alla retorica simbolica e decadente, Dario Bellezza parve sostituire tutto se stesso, la propria spettacolare fisicità, lo sfaldamento contraddittorio della maturità del proprio corpo, tra colpa e riscatto. E malattia che lo accompagna mentre lui affronta la sua realtà tragica attraverso lo stravolgimento buffone e rumoroso, quasi da burletta malriuscita, dell’arte drammatica. Un canovaccio che denuncia i propri fatti personali con la loro stolta rappresentazione d’amanti, fino a subirne le estreme conseguenze, la più appienata immedesimazione.

E così, come a beffarlo giocosamente, anche la morte ha usato il suo stesso sotterfugio. Si è andata a specchiare dietro il ritratto stesso dell’uomo e non del poeta. Come lui, spesso, rispettandola e deridendola, si specchiò dietro di essa.

Pure se fosse possibile salvarsi in qualche modo, pare dire nella sua scrittura Bellezza, imporre il proprio ruolo di vivente, sul piano individuale, la situazione sarebbe compromessa dalla crudeltà dei cupissimi sentimenti, dall’incapacità di adeguarsi al loro immorale, gioiosissimo, fluire. Ancora una volta. Finzione. Di più. Verrebbe da aggiungere. Il perfetto traslato di una finzione, una finzione enumerata al quadrato. Esponenzialmente esposta. Cattiva.

Così davvero appena lo specchio cessa di riflettere l’immagine della vecchia morte, ecco che appare la figura stessa del poeta, nascosto esattamente nel proprio labirinto di umano arrovellato ed è in quel preciso istante che viene sancita una condanna inappellabile. La morte s’approprierà del poeta. Bellezza sarà amabilmente come irretito dalle sue stesse proiezioni. I suoi affastellati sogni e incubi goduriosi. E dunque è come non potesse più scrivere e non toccare più i corpi adorati, odoranti: sarebbe troppo ovvia dichiarazione nostalgica per un animo ribelle come il suo. Così sente il bisogno di non posticipare l’icona, il correlativo realissimo dell’abbandono, il veicolo immaginifico rispetto al tema. Come a definire un colloquio in assenza, [la mancanza dell’atto d’amore, dell’amato indistinguibile tanto quanto le ripetizioni di uno stesso atto amoroso con chiunque] un parlato, ormai solitario, destinato a infittirsi nei suoi libri e soprattutto porre al centro del verso il primo e unico segno malato della corrente affettiva che percorre l’intera poesia. Come se temesse quella verità tanto agognata, si predispone a una fuga continua perché solo il tempo della recita sembra offrire lo spazio bellamente illusorio di una speranza di salvezza.  E, così, si legge una dolcezza insolita, già malinconica, nei suoi versi, una straziante sincerità, e con essa l’anelito a una realtà impossibile, perché avvertita come un’utopia, una dislocazione temporale, dal passato al presente, che è una spia essenziale di come Bellezza corroda l’esperienza nel momento in cui la fa divenire assoluta. Allontanandola. Per sempre.

E così essa viene chiamata sulla scena del proprio dramma esattamente come attrice, come rappresentazione e finzione. Ma la morte giunge, invece, in tutta la ferocia della sua realtà. Così ciò che il poeta vorrebbe rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. Prima che egli stesso se ne accorga. Viene sottratto al poeta, insieme all’oggetto, il sentimento stesso del dolore.

Come osservazione di eventi che però non vengono semplicemente registrati da un testimone attendibile, i suoi versi mimano il proustiano fluire del sentimento nel tempo, ne attestano [o ne provocano] l’attrito, il rovesciamento, l’imprevisto, di fatto costringendo lo stesso tempo alla recita di un destino. Con la consapevolezza di dover soccombere, il poeta incontra è destinato a perdersi nell’infinito rispecchiamento dei propri versi. Nell’autocelebrazione caparbia del proprio vivere all’estremo. Come un tentativo di fuga, a veder bene, con una certa pesantezza nella struttura che impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri. Sconvolgenti.

È con il suo atteggiamento che Bellezza sfugge a qualsivoglia cristallizzazione del processo amoroso, della propria omosessualità, assestandosi come nel limbo friabile e imperfetto di un suo personalissimo senso di amore, che per affermarsi come tale, deve rimanere sempre potenziale, possibile e mai realizzato, perché il personaggio torni a dominare la persona e la sua lamentosa carica eversiva possa raggiungere nuovi obiettivi e nuovi lettori su cui rovesciarsi. Contemplando se stesso, e pensando così di aver sconfitto il mostro, gli ha invece consegnato la propria vita, quella vera e quella recitata. Come devoto alla gran malattia [AIDS] che mai si sarebbe aspettata.

In un gioco di specchi riflettenti, continua a cantare il corpo, che diviene sempre più oggetto assente, motivo di ricordo. Esattamente convinto di potersi rivolgere sempre allo stesso uditorio. Bellezza non si è mai accorto che il pubblico in sala era ormai tutt’altro da quello dei suoi esordi e che l’eros, minacciato e piagato da nuove paure, piegato a irreggimentare vuoti immaginari collettivi, non poteva più costituire la ragione sufficiente di uno scandalo, ovvero di una richiesta di attenzione. L’eros, davvero non è più scandalo. Ad un certo punto. Lo è viverlo scandalosamente, questo sì, in maniera putrefatta. Ma di questo non s’accorse, il Nostro, pur vivendolo esattamente in maniera rischiosissima.

Veloce rifugge da quei corpi, più rapido del tempo della vita, non ama più niente nei corpi, con l’effetto di perdersi ancor più nei suoi astrusi angiporti. Così la sostanza del pensamento è quella di potersi tramutare in un’ossessione. Ricchissima e stupefacente [ma anche stupefatta] la declinazione di questo tema, e pervasiva, fino a indurre il sospetto che la corrosione fra esperienza del reale e scrittura si sia talmente affievolita in un estremo dannunzianesimo rovesciato di segno.

Esattamente così. Sia nello spaziotempo della gioventù che in quello della maturità, ciò che può giungere a noi frettolosi lettori, finale declinazione dell’ipocrisia che già ci aveva attribuito Baudelaire, è solo – e disperatamente, ma fino a che punto? – un messaggio invivibile, pervenuto da qualche oscura regione del mondo fenomenico o della psiche, estremo proprio come un dubbio ultraterreno. Come esattamente una sessualità vissuta estremamente. Come uno sport fatto di dettagli, di posture, di accrocchi, di sputi sui visi e tremebondi amplessi.

Da qualsiasi punto la si osservi, la sua poesia appare come in eterna fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. È rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Uomo che cerca di corrodere l’Ineterno, con la sua sola ma rumorosa presenza di Poeta, la sonnolenta borghesia romana, l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima.

Nelle poesie degli ultimi anni, non è unicamente un vecchio solitario e malatissimo, è anche un uomo indigente, o si può anche dire più semplicemente povero. Già tanto prostrato, ha avuto, due dolori: la morte del padre ottantenne, e più da vicino il suicidio di Amelia Rosselli.

Nell’ultima fase della sua vita, avrebbe voluto silenzio, discrezione, forse dimenticanza. Non è stato così, i giornali – come ha avuto modo di dire – sono stati di una violenza allucinante.

L’unico Poeta della sua generazione a essere stato incluso nel Novecento di Gianfranco Contini, così anti–eroe e vittima del suo stesso estetismo esasperato ed esasperante, è un antenato plausibile e concreto di se stesso, ma resta uno iato tra personaggio e autore; se il primo fallisce, il secondo si ostina ad andare avanti in un’infausta sovrapposizione di due realtà, arte e vita, tra la fluidità del vissuto e la fissità del bello eterno.  Avanti. Di maschera in maschera, di ordalia in ordalia, e per via morantiana. Poiché penniano non fu mai, questo mi pare di capire. La sola enclave possibile resta quella dell’innocenza animale, del rapporto esclusivo e privilegiato con i gatti. E, forse della stessa sua gattità.

Mi scrisse che non avrebbe più voluto scriver versi – a me che appena iniziavo a pubblicarne – e che sentiva tutta l’assurdità di fare poesia. Più in là mi fece avere, da un amico comune, autografato, un suo libretto sui gatti che era stato tradotto in Spagna. E io già lavoravo nella redazione di “Poesia”.

Narciso immondo e dello specchio restò prigioniero fin da subito, apprestandosi a giocare una partita col destino e con la morte: una partita che è l’anamorfosi dell’invettiva [e dalla licenza, poetica ovviamente], del tentativo di riscatto sociale, dell’affermazione della libertà dell’eros, del superamento della grettezza piccolo–borghese; perché, di fatto, il poeta che si lancia contro la società provinciale resta, anzitutto, il prodotto stesso di quella società, di cui non riesce a coglierne le mutazioni essendone già oltre. Molto oltre.

Di questo incessante teatro dell’eros restano sulla scena piccoli oggetti, fragili icone, tristi sineddochi di un avvenimento che appare già superato nel momento stesso in cui accade, per lasciare il posto a un altro incontro, e prima di questo, all’inesausto vagare, il sentimento del battere, la ricerca del sesso infinito e sconosciuto, sola dimensione di confronto serrato con se stessi e con un desiderio di cui si teme ogni volta il compiersi, sebbene lo si brami: l’amore.

C’era l’ammissione implicita di una sovrapposizione tra io, ruolo e personaggio, quale possiamo infinitamente registrare nel crudele antagonismo dei suoi corpi descritti e frequentati.

La traduzione della rappresentazione in scrittura poetica prende spesso l’avvio, inevitabile, inesorabile, a custodire quel messaggio invivibile che, a volte, condiziona l’intero tracciato di un’esistenza: la fine dell’amore dopo l’amore, la fine dell’innamoramento dopo il sesso, ovvero quando definitivamente cala il sipario, in attesa non della prossima replica, ma di uno spettacolo che si vorrebbe nuovo e che invece si compie nel dolore di una infinitudine di ripetizione coatta e che fa soggiacere tutti noi, che si sia attori o spettatori. E anche il nostro spazio vitale si restringe invece di ampliarsi, la città si riduce alla stanza, la stanza al letto, quel luogo sfatto dove non è più concesso sottrarsi alla proprie contraddizioni, ai propri antagonismi. La meravigliosa pietrificazione di ogni sentimento che dona, a liberazione, ogni atto di sesso fine a se stesso.

Ah, non amare! Non essere riamati! La scrittura, davvero, si offre come moto di distrazione da tutto questo. Tentativo di nascondimento. E nonostante l’amante abbia consegnato all’amato la chiave della nuova casa [un classico in Bellezza] estremo simbolo di una disponibilità concreta solo nello spazio della rappresentazione, il corpo amato se ne va, lasciandolo solo in una tensione religiosa, una specie di evidente tremore per un aldilà senza nulla.

È dunque il corpo lo strumento attraverso cui il Poeta esibisce e declina le proprie ossessioni. La sua presenza, così tenacemente pervasiva di libro in libro, non costituisce un ovvio tratto dominante, ma diviene la sostanza più intima di una ricerca destinata al fallimento. La condizione pasolinianamente “impoetica” del poeta a scardinare il nesso barocco di vita e sogno [di ortesiana memoria, intendo, che Bellezza ripresentò nella sfolgorante riedizione de l’iguanuccia cara] e a fare della dimensione drammaturgica il luogo di una verità possibile, dispersa nella quotidianità del sentimento.

È uno scontro impari col vuoto del silenzio che lo circonda, lo so, ma l’energia della dissipazione mi costringe a un residuo di titanismo, appena sufficiente a motivare il tentativo di un riscatto, per lui, almeno sul piano collettivo. Così spiegato, allora, lo spostamento retorico di un mio sentimento che parrebbe impossibile per chi poco mi conosce, che «senza rancore» continuo a richiamarne l’attenzione verso questo Poeta quasi dimenticato, tramutandola nell’ennesimo correlativo dell’abbandono: di un abbandono in atto, che si ripete ad ogni rilettura di ogni suo testo, evento avvenuto e potenziale al tempo stesso.

Ma, nonostante il mio movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarlo e comprenderlo e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente. Come una voluta barocca Bellezza mi sfuggirà. Giacché, come si sa, a voi stessi sta sfuggendo.

Ebbene a rileggerlo ci si accorge che il campo che si disegna è delimitato non solo dalla realtà, da un lato, e dall’altro dalla finzione – ciò che semplificherebbe sia il ruolo del lettore e il compito dell’interprete, sia la dinamica stessa dell’officina di Bellezza – ma anche dal modo in cui la realtà quotidiana è filtrata dall’esperienza ancor prima che dalla scrittura, il vissuto. Infine, a chiudere il suo spazio letterario così fascinosamente ombroso e asfittico, è la proiezione dell’io lirico come protagonista di un teatro della passione erotica, la trasgressione e rottura degli schemi sociali precostituiti.

Ma si sa che il linguaggio della poesia può supportare – e lo fa, a volte – tutte le soluzioni. Il poeta è ormai travolto da questa malattia terribile che è l’Aids, da questa infelice condizione che avrebbe voluto tenere nell’ombra e in questo senso l’atteggiamento fondamentale di tutta la scrittura di Bellezza s’impone sul piano del visivo piuttosto che in un’ottica concettuale: incapace di sciogliere i propri nodi, rimane al di là della scena da lui stesso allestita con una regia sapiente quanto penalizzante per se stesso.

L’amante e l’amato, distratti nel loro eros effimero, o, con un plurale istrionico, il poeta che ricordando scrive quando già l’amato è entrato nel limbo delle icone, dei simboli della passeggera eternità dell’amplesso, della goduta.

Autenticità del dolore. Una raffigurazione di un modello culturale ancor prima che psicologico e la rielaborazione della perdita è tutta affidata al dire poetico, ma non in chiave consolatoria e neppure esorcistica. È l’incontro dei corpi, il fisico toccarsi e intrecciarsi, complesso e sempre differito in un eterno ritorno impossibilitato, poiché, nel frattempo, un altro antagonista, più volte evocato, interviene a rompere il meccanismo di un corpo ripudiato, socialmente esecrabile, vittima e carnefice di se stesso che si confessa, una sostituzione continua di amati  e di amanti, come unico farsi primario di quella scissione che sverna nel tempo del sentimento, rinviandolo, spingendolo fino ai confini estremi e raggiungibili della morte sul letto.

La creaturalità offesa dalla storia.

Bellezza usa strumentalmente la poesia, è palese proprio nell’effetto melodrammatico di molte sue soluzioni. Una scrittura che sì oscilla tra perizia e programma e che, clessidra dei sentimenti e dei giochi erotici, gli ha giocato un pessimo tiro, l’ultimo, il letale, richiamandolo a una concretezza dell’essere fuori da ogni rappresentazione. Proprio la coazione all’eros, come motivo, sembrerebbe stabilire una diretta linea di discendenza da Penna e dal poeta delle borgate, ma l’immagine innocente del fanciullo, icona di un desiderio assoluto prima che di una pulsione, è assente dal suo orizzonte, frequentato piuttosto da emarginati e da una sessualità spesso in vendita, corrotta e corrosiva [se questa espressione è ancora lecita, se non fa sorridere i cinici ad oltranza]. Davvero la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo della malattia e della morte.

La maschera sostituisce la persona, il personaggio condiziona il poeta. Il quotidiano incombe imponendo uno iato tra la scena della rappresentazione, che prima o poi dovrà concludersi, e la sosta necessaria al compiersi di una vera esperienza. Forse la definitiva. Ma prima di qualunque ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente – fino ad oggi, fino a noi – che non vuole e non sa guardare al futuro, nemmeno costruirlo intende, il corpo è la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e di ben più reali ripudi. La tensione è palpabile: la si avverte già nella cantilena del ritmo, nei componimenti più ampi, e in un nervosismo finanche arcaico della sintassi che informa di sé tutta la poesia di quest’autore. Nell’istante stesso in cui descrive e si descrive, il soggetto ha già indossato i panni dell’attore, così compiendo una rimozione radicale del concreto.

Non è un motivo nuovo, quello del furto d’amore, non per questo banale, almeno per come l’autore lo declina. Ma si sa. Ogni ossessione genera contrasti, più o meno feroci o invasivi: si viene sempre a creare una pericolosa terra di nessuno tra il dominio del principio di realtà e le spinte centrifughe di un principio opposto. E le ossessioni non esistono per questo Poeta ma incarnano direttamente l’istintiva naturalezza di un mondo creaturale, libero dagli spettri della cultura, e dunque dal peccato. Oltre il mondo animale. Il sesso come emblema di se stesso e della propria ripetitività. Ecco che il corpo torna ad avere un referente, ma distante, ormai invisibile, mentre se ne ammette a piena voce, ma sempre dal proscenio, l’adorazione e non più soltanto.

Un poeta che vive la corporalità come scissione: esiste il corpo dell’amante, quindi il corpo dell’amato, infine il corpo del nuovo amate che diventa amato per essere sostituito da un nuovo amante che diviene l’amato all’infinito ed è quest’ultimo, ancora, a condizionare fisiologia e ritmi degli altri, a farne costanti proiezioni di sé sulla scena di una teatralità sempre esibita con ripetitività. E questa consapevolezza genera una struttura elegiaca, più evidente man mano che ci si accosti agli ultimi libri; il racconto della fisicità propria e altrui oscilla tra pietà e rimpianto, tra occasione e rimorso senza che sia risparmiato particolare alcuno del degrado.

Questa tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. Racconta il proprio spazio drammatico, partendo da un dato astratto ma fortemente evocativo, ribadendo nel colloquio l’assenza di una fisicità e asserendo, con estrema compattezza visiva, che quel corpo è ormai svanito, lasciando tristi tracce ovunque. Se di barocco si può parlare, per quest’autore, è soprattutto in virtù di questa anamorfosi, proprio laddove il dettato sembrerebbe sedarsi in una serie di immagini pacatamente affettive, in una lingua classicamente meno atteggiata.

La sua poesia si rispecchia in una lente deformante e lascia trasparire il fondo della sua più autentica libertà, almeno come aspirazione. Una narrazione allo stato puro, finzione che sposta quasi incessantemente l’asse dell’esperienza verso quello della rappresentazione. Bellezza ci restituisce con ogni probabilità l’immagine di sé più densa e credibile; ed è proprio quella negazione a rendere l’autoritratto una rappresentazione tutt’altro che mimetica.

Tutto è assai eloquente, ribadisce la coazione a un eros insoddisfatto, fa della ripetizione il segnale dell’ossessione e soprattutto ci mette a parte di come Bellezza tenti di risolvere il proprio sentimento del tempo con una banale operazione aritmetica, moltiplicando all’infinito i suoi incontri in una rincorsa affannosa quanto inutile, come a voler essere più veloce della vita stessa e del proprio tripudio d’amore e sesso, ma con l’effetto soltanto di anticipare quello che è già contenuto nella sua confessione: il corpo sfiorato è infine il corpo sfiorito, consumato negli eccessi, dai mille e mille corpi che restano, per sempre, ragazzi.

Un eros quasi astratto, proprio quando ne esponeva i dettagli. Flusso sentimentale altrimenti inconfessabile in tutta la sua fugace concretezza. Registro da opera o da romanza. Storie vissute all’insegna di una balda e passeggera eternità, che si tramuta in qualcosa di assoluto, perfino in qualcosa di malato. Una sessualità coatta che si traduce, in quanto espressione del poeta, in evento sociale, in atto performativo.

E qui chiudo, pazienti lettori.

https://cultura.gaiaitalia.com/2014/03/bo-summers-dario-bellezza-amore-senza-indugio/amp/?__twitter_impression=true

mercoledì 7 ottobre 2020

minime anime

Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

martedì 6 ottobre 2020

l'immagine è quella

immagine è quella di un’applicazione che mette alla ricerca di coincidenze randomiche in punti randomici nello spazio attorno a te

O



nel silenzio del corpo, della parola scritta, brancicante e sfibrante come l’apparenza della vita e della morte

una teoria della distanza prima di ogni altra cosa



giovedì 1 ottobre 2020

The Filthiest Person Alive

 “Come sarebbe a dire che non c’è spazzatura nel Mondo? sono nato per essere a buon mercato! svenduto intrepidamente! Odio il Mondo che è marcia merda!”

Seriamente. Dispiace farvi notare che questo dove alloggio stanotte è lo stesso albergo in cui morì Divine, la sboccata. The Regency Hotel. In culo a tutti voi! Vi ho fregati! Io sto qui!

È come se la sua presenza aleggiasse ancora in questo ormai fetido posto. Il suo grasso e pesante e ingombrante corpo, come Marilyn ma elevata con un argano all’ennesima potenza. È lei stessa come rinata icona hollywoodiana, fatta cattiveria in persona, con la sua figura possente, fisicamente pesante, un pressante ostacolo al Mondo stesso che non morirà molto presto. Non riuscirà ad ammazzarlo, questo Mondo di sperma malato, non farà in tempo a sparargli con la sua Colt rosa.

È come vuota, la stanza, adesso, senza la sua sconcia presenza. Mi sorrido beffardo allo specchio del cesso, col bozzo sul cranio che mi sono procurato sbattendo contro la porta entrando in camera. È pura follia essere qui. Uno sforzo mentale immenso. Ma ormai ci sono e vi trascino per i capelli con me in questa farneticazione.

Quindi io ho guidato fino al passo carraio di questo hotel che mi ha aiutato a conservare un po’ del suo ricordo. E a raccontarvelo. Questo è l’hotel. Questo è l’ingresso. E questo è l’hotel. E questo è lo scrivere per scrivere. L’infinitamente riscrivere pezzi che si alternano alla realtà. Lo stendere parole e incanti nell’inutile gioco dell’affabulazione.

E insomma, tre giorni dopo che Divine è morta, il suo corpo è stato trasportato a Baltimora per il funerale. Pure io ho accompagnato il corpo di Divine, e all’arrivo, ho salutato Frances, madre di Divine. Notò l’orecchino di diamante che portavo all’orecchio e che tanto sarebbe piaciuto a Divine stessa, per sua stessa ammissione. Amava i diamanti perché sono i migliori amici delle donne.

La sua curiosità è come quella di un adolescente, Divine usa se stessa per gettare all’aria le carte della società e del buon senso, quasi a voler decorare la propria stanza con fiori rubati dal cimitero. Un mostro postpunk. In molti dicono che era una star, una drag queen. Questo non è vero.

Lei era la Star spettacolare, la Jayne Mansfield svaccata sotto la forma di “zio Otto”. Questo era uno dei motivi per cui ha accettato di farlo, quel personaggio. Voleva recitare come un uomo.

Su Divine la madre, Frances Milstead, ha pubblicato un libro intitolato Mio Figlio Divine. Se vi piace Divine, è necessario averlo. È molto toccante, pieno di fotografie glamrock. Una roba strafiga. Benedite, o Dei, l’arte corrotta e l’immondizia di Divine.

Circa un anno dopo la morte di Divine, il mio amico, quello coi capelli verdi, adesso non ricordo il nome ma poi magari mi torna in mente, è andato a vedere John Waters dal vivo, stava tenendo una lezione, una cosa che non ho capito bene che cosa fosse. Ha parlato per poco più di un’ora. Mi ha spiegato che cosa aveva detto ma non mi ricordo molto, se non che ha imparato a non vestirsi di bianco. O una stupidata del genere. Mah, mi ricordo una roba così, ma forse ricordo male. O queste sono le parole esatte che riportò il mio amico. In seguito, avevano aspettato tutti in fila per incontrarlo.

Di fronte a Waters c’erano queste drag mostruose che avevano deciso di fare un provino per John. Voglio dire, queste femmine avevano script e tutto, cioè, mossette, capelli cotonati, abiti sgargianti… e quei terribilissimi monologhi.

È stato orribile, racconta il mio amico. Infine, John le interruppe bruscamente. [Mi piaceva che il mio amico mi raccontasse tutto. Poi quei capelli verdi gli donavano un tocco di non so che permettendogli di inventare la narrazione oltre ogni limite.] Dopo di che urlò “fucked off”, e firmò il mio manifesto di Hairspray che il verdecrinuto aveva portato con sé. Caro.

Divine è stato esposto nel suo “cofanetto” con addosso un abito Tommy Nutter, camicia dal collo nero, e un gioiello progettato da Andrew Logan. Una figata. Le sue mani sono state poste sul suo stomaco. Prima che la bara venisse chiusa, qualcuno [non son sicuro se Bernard J, ma forse sì] volle mettere il contratto di lavoro originale nel box con lui. Naturalmente, questo è quello che dice il mio amico che stava lì vicino a guardare. Io non c’ero. Forse che sì, forse che no. Sarà, non sarà, suona dubbia per me ’sta cosa.

Divine si specializzò in ruoli estremamente camp, quando non era deliberatamente trash, che fecero di lui una icona gay molto prima che diventasse famosa anche fra il pubblico generale.

Divine, pseudonimo di Harris Glenn Milstead. Nato a Towson il 19 ottobre1945, stato del Maryland, da Bernard e Diana Frances Milstead.

A dodici anni si trasferì con la famiglia a Lutherville, un quartiere di Baltimora. Il suo futuro regista, “scopa secca” John Waters, viveva poco distante, nella stessa strada ed è stato un suo amico d’infanzia.


Divine era noto per essere sempre puntuale. Così si lavora e così si comporta ogni vera attrice.

Quando non si presentò la mattina seguente per il suo turno, cominciarono a preoccuparsi.

Il suo manager Bernard Jay andò in albergo a mezzogiorno per controllare, usò la sua chiave di accesso per entrare. Lo trovò. Morto, nudo, e coperto con una coperta. Morì nel sonno di insufficienza cardiaca. Dicono. Aveva 42 anni. 43 non ancora compiuti.

[Si prega di perdonare il mio uso del genere indefinito (cioè lui / lei indifferentemente) ma non posso fare altrimenti.]

È seppellito a Towson, sua città natale.

Era soprannominato “Divine” dal regista e amico d’infanzia, John Waters. Hanno fatto film meravigliosi insieme, in particolare Female Trouble [uno dei miei preferiti] e Pink Flamingos.

È stato proprio Fenicotteri Rosache l’ha fatta diventare una celebrità, perché ha mangiato merda di cane per davvero. La scena più iconoclasta e punk che sia mai stata girata in un film. È stato scioccante per molti, e divenne la cosa che lo lanciò nelle leggende. Perché le leggende sono fatte di sterco che ingrassa il terreno delle merdose fantasie.

Ho avuto con la Star Divine un rapporto molto strano nel tempo. Per me era diventata una grande cantante Hi-NRG subito dopo i primi film di Waters grazie ai quali aveva avuto notorietà. Ho sentito la sua musica, e sono stato agganciato. Di pietra. Come soltanto mi era successo anni prima per Sylvester.

Mai veramente mi era interessato a seguirlo come attore/attrice. Poi ho visto Female Truoble da un amico, una copia sgangherata, piratissima e di recupero che non so nemmeno come facesse a possedere. E badaboooom.

Ho visto Divine in concerto molte volte. La prima volta che la vidi fu al Ballroom Nettarina a Ann Arbor, Michigan. Si presentò splendidamente in ritardo, ma un grande spettacolo. La volta dopo era al Liedernacht a Detroit. Insomma, per farla breve, durante lo show, le ho consegnato la mia copia di I’m So Beautiful, e lo ha firmato per me [elegantemente, in diagonale, sull’angolo, proprio in cima]. Poi, più tardi, quella stessa sera, Divine ha gettato il suo asciugamano madido di sudore a me, proprio a me. Ce l’ho ancora. Tesoro. Dopo di che, l’ho vista al Limelight di Chicago. Apertamente Divine mi piaceva. Il suo modo di stare in scena. Mi ha scelto fra il pubblico, e ho ballato sul palco con lei, e lei mi ha spinto in petto. Ha anche firmato il mio poster. Cioè il suo poster, mi sto incasinando.

Lui era in città per girare il suo primo episodio di Married… With Children. La notte prima era dovuta andare sul set, ha cenato con gli amici. In seguito, è tornato in albergo. Prima di entrare in camera numero 261 si sporge dal balcone e canta “Arrivederci Roma” per gli amici.

Questo accadeva alle 06:00.

Il carro funebre di Divine ha una scorta di polizia.

La maggior parte delle cose di Divine finirono poi per essere vendute all’asta da Christies, per coprire i debiti. Pure da morti, si risarciscono i debitori. Non c’è pace. No.

Non denaro devoluto in beneficenza a suo nome, ma che le persone le comprassero tanti fiori. Perché li amava così tanto. Elton John ha inviato tantissimi fiori, come hanno fatto Tab Hunter e Whoopi Goldberg – insieme con un biglietto che dice tipo: “Guarda che cosa può fare una buona recensione”.

Negli anni80 i dischi dance di Milstead (prodotti, composti e suonati da Bobby Orlando), furono famosi in America, Europa ed Australia. A quelli prodotti da Orlando fecero seguito pezzi di produzione inglese (Stock, Aitken e Waterman), tra cui il celeberrimo You Think You’re A Man, che salì in testa alle classifiche inglesi ed europee.

Pensi d’essere un uomo, ma sei soltanto un ragazzo, sei soltanto un giocattolo per la mia soddisfazione.

Nel 1988, Divine era praticamente entrato nel biz del Cinema. Hairspray era appena uscito. È stato veramente il primo film main stream di John Waters. Ed è stato super. Aveva ancora il fascino dei suoi vecchi film. Le recensioni erano fantastiche e, sulla scia di questo, a Divine venne offerto un ruolo semi-ricorrente nella serie Sposati… con figli, una serie televisiva FOX in prima serata.

Polyester, il primo film di Divine in odorama con Tab Hunter. Odori inclusi di rose, scoreggia, colla, pizza, benzina, puzzola, cuoio, scarpe sporche e deodorante.

E quanti froci freaky l’hanno amata questa qua? Molti oggi non sanno nemmeno chi fosse.

La notte in cui Divine è morto ho fatto tutto quello che poteva essere appropriato a renderle onore. Sono andato in un cinemino porno con il mio amico, la TicoTico che di giorno faceva la guardia giurata e la notte andava a battere in calze a rete nelle aree parcheggio dell’autostrada per farsi i camionisti, quelli più grassi. È stato come un doppio disegno, un’inversione di marcia. Non volevo pensare alla morte. Insomma, davano Faster Pussycat Uccidi! Uccidi! interpretato da Tura Satana e un’altra roba subito dopo dal titolo tipo La valle delle bambole o qualcosa del genere, non ricordo bene. Quando siamo arrivati ​​a casa tardi quella sera, c’erano circa 4 messaggi di cordoglio sulla mia segreteria telefonica. Il giorno dopo ce ne sono stati molti di più. Io non rispondevo alle chiamate. No mi andava. Mi piace aver visto quei film il giorno in cui Divine morì.

Comunque ora sono qui, ll’hotel. Siamo entrati dall’ingresso principale e fatto il nostro giro dentro alla zona piscina. Puzzo intensissimo di cloro. Odioso.

Alzo gli occhi a quel balcone dove Divine ha cantato la canzone per le ultime persone che l’hanno visto in vita. Diobò mi piglia la tristezza. E racconto lo stesso. La mente è la stanza dei souvenir, che sono piuttosto scarsi, a basso costo. Il cesso dove vado a vomitare è un relitto. Sbatto con il cranio contro la porta. E vomito ancora. La mia missione è stata quella porta. Sbatterci contro.

Ho avuto, in ogni caso, il modo di vedere il numero della porta che Divine toccò e carezzò prima di morire.

Il 7 marzo, 1988, Divine era a Los Angeles, soggiornava al Regency Hotel, situato al 7940 di Hollywood Boulevard. Si è trasformato in un condominio ora, si può vivere lì.

In realtà il Regency Hotel è andato. Non esiste più. Il luogo in cui Divine ha respirato il suo ultimo respiro, è stato raso al suolo. Nel luogo in cui morì Divine, ora, è tutto andato, tranne forse il segno molto cool che è rimasto nella mia testa di cazzo che ha sbattuto su quella porta che nemmeno esiste più. Non c’è più quella stanza, zio Bo! Sta solo nel tuo cervello malato! Ma viaggiare indietro nel tempo.. mi rende felice, mi fa star bene e ancora mi fa sentire vivo. Se possibile.

Poi le ruote del mio cervello, si sa, come sempre cominciano la loro filatura di narrazione emozionale. L’affabulazione dello stolto e del mentecatto. Del mendico di trame e misfatti e d’orrori amorosi. Come sia morta davvero Divine, sono anni che me lo chiedo.



mercoledì 30 settembre 2020

Mario Merz

 INFORMARE


“Ma si può fare informazione sull’arte, e però né arte, né informazione sull’arte esistono senza aggettivi.” – Mario Merz


1. già da qualche anno queste forme vengono messe in discussione nella linearità stessa dei loro procedimenti (“Non basterebbero decine di pagine a riassumere e riepiogare i tanti tentativi che […] sono stati messi in atto per cercare di far coincidere, o almeno assimilare, certe strutture artistiche e certe strutture scientifiche: ho già ossevato, più di una volta, che le elucubrazioni attorno al Numero Aureo, alla serie fibonacciana, alle regola armoniche si erano rivelate come deludenti e inattendibili” – Gillo Dorfles, in “L’Arte, la Scienza”)


2. c’è da dire, invece, che in alcuni artisti.. per Merz, piuttosto, si dovrebbe parlare di una risemantizzazione, a vari livelli, di questo spazio che alcuni sperimentalismi avevano lasciato vuoto. Lo spazio di Merz è spazio di produzione di spazio. Tautologia, invero: la sapienza dello spazio, la sapienza dell’Arte


3. pensiamo a “sentiero per qui”, Triennale di Milano, 1986. Tutto nella sua opera – e ogni opera d’artista è summa dell’opera intiera dell’artista – attraverso tautologie concettuali (cfr Luciano Fabro per il senso di Tautologia) al movimento dinamico quasi a indicazione che ogni opera d’arte è fulcro di creazione energetica: costituisce il centro del mondo. L’igloo non è che assoluto spazio delimitato da materiale non trasparente (legno) come volontà d’isolamento e pure da materiale trasparente (vetro) che è relazione visuale con l’interno


ENERGIA


“i numeri vivi danno delle visioni” – Mario Merz


1. il numero come eccitante, rivelazione d’energia, quantità dinamica che induce verso una creazione di realtà, il numero come un atto di evoluzione che dia realtà a qualcosa altrimenti inconsistente: “i numeri sono un determinato e quindi conoscibile grado di organizzazione di energia”


2. Merz, sostanziato da una simile conoscenza, ha nel numero (nel suo accrescimento esploso, naturale e viscerale) la sua peculiarità, disegnando immagini e pensieri in un continuum abilmente orchestrato in sequenze naturali col risultato di produrre un lavoro mimeticamente esposto “per un maggior potenziale di energia”


3. materiali fragili e micidiali: immagini esposte. Merz li manovra con disinvoltura, sorprendendosi nel loro pericoloso fascino ma pure senza lasciarsi irretire nelle loro secche o esporsi a un canto ambiguo, affidandosi a un canto senza meraviglie e senza favole ma nella piena coscienza di natura


LA GERMINAZIONE DELLA COSA


“il cartello di foglie è un’architettura ideale” – Mario Merz


1. occorre riconoscere che la “casa tra gli alberi” è una tesi intrigante. Merz ci offre un referente se non addirittura il luogo fisico seppure sconosciuto e decentrato ma perfettamente rintracciabile. Non è poco. È un atto qualificato quanto coraggioso, quello dell’artista, che si produce già in sede di prefazione, di composizione poi

2.  ci si accorge del vuoto dell’igloo-casa: vuoto mobile, secondo Fibonacci (numerazione naturale) che apre la misura dell’interesse: l’alloggio, con sapienza e documento dell’artefice, pone all’interno e interpreta quel vuoto come silenzio in cui chiamare, a dispetto, le voci a tutto campo. Pertanto inizia, a tutto campo, il percorso


3. c’è altro: “la sua è un’arte dell’abitare e dell’insediamento antropometrico? Così parrebbe” (Tommaso Trini). Ma pure la figura di casa genera la novità – quasi un gesto etico e forse proprio quello – del pensiero quale “oggetto” che significa e dona aurea all’odissea del percorso: la puntualità dell’evento. La casa di foglie germina, crea e disperde: si muove e concentra


[nota: a metà anni ’80 progettai un testo di un centinaio di pagine “la poesia numerica di Mario Merz” a proposito del volume di Mario Merz “voglio fare subito un libro”. Quel mio testo andava a cercare di decifrare il fare poetico nella scrittura di Merz. Ci fu un confronto, per quel mio testo che mai vide luce editoriale per mia incuria, con Jole De Sanna, un’intesa di intenti che mi portò a una lunga amicizia con la critica d’arte militante di Jole. A lei dedico]

il desiderio

 Il desiderio. Dov’è la sorgente? In quale recesso? Chi può ormai stanarlo? Queste le domande, come sangue nelle reni, afflusso improvviso come un tarlo che a poco a poco obnubila la mente. Non vale, allora, stimolarlo solo con la memoria, come se la poesia potesse essere pura sessualità (o artefizio di quella, come nell’amato Sandro Penna, o nel letto madido di sudore di morte di Dario Bellezza) non ritorna niente dal sesso scritto, niente.


Il sesso è pura alterità, non sta nemmeno più nei pornoshop e nemmeno nel deep web. Figuriamoci se può stare nella poesia. Nel suo lucente fingere. Finzione è poetare, al massimo è erotismo dello scrivere, altro da sé. O pornolalia.


Va detto più volte, anche di notte, quando il sonno non viene più. E, nonostante ciò che si può pensare, questo fare poetico non ha bisogno di orpelli visivi, di mattane teatrali poiché è già bruciore di vene, un piccolo fuoco – come così occorre che la poesia rimanga – una brace già nella completezza della pagina, del suo farsi verso (avvicinarsi a) ed è come se ancora, in questa nostra età sfinita, si potesse stare sulle barricate a dar voce alla vita. Come se si potesse.

martedì 29 settembre 2020

pubblicare poesia oggi

 Pubblicare poesia, oggi, è al di fuori di ogni controllo, di ogni macinazione vicina all’atto consumistico. Poesia non è vendibiltà, mai lo è stata, a maggior ragione nel nostro contemporaneo. Pubblicare poesia è, oggi, più che allora, atto di identificazione con il nulla del dire. Se non al proprio parlarsi, a volte, addosso.


È da anni che in Italia la poesia corre lungo vie sotterranee di autodefinizione. Vie sotterranee che, a mio avviso, certificano un essere in disparte, un non centralizzarsi, nemmeno col pensiero. Neppure con la presenza fisica dell’autore. E non solo si tratta di una grande metafora di quanto avviene nella superficie delebile del reale.


 

Le vie del fare poetico sono spesso invisibili, o, meglio, sfuggono a criteri di visibilità. Ciascuno tenta le carte che può, che possiede, per raggiungere affannosamente un momento che si avvicini, almeno lontanamente, alla realtà del tangibile. Come se il poetare non dovesse essere il più lontano possibile da ciò che altre espressioni dell’umano artefare propongono. Poetare è assenza, mai centralità o assoluto dire.