mercoledì 21 giugno 2023

su Cani randagi di Roberto Paterlini


Cani Randagi

Si sa che non sono mai, le mie, note critiche, ma appunti di letture, avvisi ai naviganti e che parlo di ciò che mi crea interesse e compone, unitariamente, un percorso metodologico del mio essere lettore. A volte mi prendo la briga di segnalarvi libri che magari non sono novità assolute ma che potrebbero essere sfuggiti al vostro attentissimo occhio di lettori. E lo faccio con l’accortezza, la cura, la dovizia e la sfrontatezza che dovrebbe essere prevista per ogni buona intenzione, un viatico mio che mi prendo la gioia di trasferirvi, senza altra ragione se non quella dell’informazione conoscitiva. E poi ci metto dentro cose mie che, col libro di cui parlo, forse non c’entrano. Forse. Qualcuno mi ha fatto notare che le mie segnalazioni son poco gaye, come se ci fosse la necessità di parlar solo di quello, come se soltanto di quello io dovessi poter  parlare.

Chiedo venia e così vi parlo di Roberto Paterlini che è nato e vive in provincia di Brescia nel 1981. Nel 2006 ha vinto il Sonar Script Festival con una sceneggiatura dal titolo 23 Anni e nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo Il ventiquattrenne più vecchio del mondo.

Nel 2012 ha vinto il premio letterario “La Giara” con questo suo secondo romanzo, Cani randagi (Edizioni Rai.Eri, 2012).

“Era incastrata tra due cassetti, potrebbe essere lì da anni. Ci pensi?” disse Federico, con gli occhi che gli volevano uscire dalle orbite, luccicanti ed entusiasti come se fossero davvero stati di fronte a un tesoro.

Catania 1987, riportava la scritta a biro appiccicata al lato dell’audiocassetta ingiallita e staccata ai bordi.

“Perché non c’è un cazzo di libro di storia, o di documentario, o di film, o di festività nazionale che ricordi e commemori anche i poveri froci che sono stati privati della loro libertà?“.

Ci son storie qui dentro, tenute saldate con forte impatto narrativo – anche se non esattamente sulla mia stessa lunghezza d’onda dal punto di vista della scrittura, ma questo sarà un mio limite – condotte con fermezza e con una scrittura concentrata sui dettagli che appassiona puntando bene l’attenzione sull’evolversi della percezione dell’omosessualità in quasi un secolo di storia, ma anche parlandoci di nodi irrisolti, di silenzi, difficoltà e pregiudizi.

Parrebbe essere un libro “militante” ma questo non ne sminuisce la realtà di romanzo, mostrandone invece la solidità, perché in Italia, dove il tema dell’eguaglianza di ogni forma d’amore è ancora una lontana aspirazione, l’omosessualità è ancora un tema di grande impegno civile oltre che di straordinaria forza narrativa.

Cani randagi ha dunque vinto la prima edizione del Premio Rai “La Giara”, la stessa Rai, che solo qualche anno fa censurava le timide evoluzioni amorose dei Segreti di Brokeback Mountain, premia ed è pure editore di un romanzo a tematica omosessuale. Gioie e incongruenze, associazioni e dissociazioni. Editori e premianti. Tutto in un solo colpo. Ebbravi.

Come sappiamo si rimpiange, si rimorde, si odia per tutto quello che si è fatto o non si è fatto in amore. Storie che si incastonano anche nel centro delle nostre generazioni, si ficcano a metà tra le generazioni, si incastonano diamantine e bellissime. A volte la bellezza, per quanto casuale e ingiusta, qui viene narrata proprio come se avesse, per davvero, ogni diritto di essere ambita e desiderata, e guadagnasse il suo sacrosanto primato anche sul marcio pensiero di questa società o il cattivo carattere di chi, sul serio, può pensare che questi “si amano davvero, lottando però contro la stessa e misera paura che amare una sola persona costituisca una prigionia” un elemento di disturbo. Il gay, come si sa, non può amare. Esso, non egli, è solo buso.

Ed è come se, invece, qui i personaggi cercassero di ritrovarsi, ad amarsi come a rintracciare le loro anime sperdute e la loro indipendenza tra braccia spesso diverse e sconosciute, fino ad incontrare il male del secolo – l’AIDS che non è una punizione per gli omosessuali – fino decisamente a lanciare uno sguardo mozzafiato su un nembo di tristezza agghiacciante: la paura d’amare ed essere riamati. E tutto questo in una scrittura di luce bianca e nera, che questo ansito amoroso lo narra con forza.

L’espediente narrativo iniziale è l’audiocassetta ritrovata che contiene un’intervista in cui un anziano racconta quanto accadde a Catania alla fine degli anni Trenta, quando, ragazzo, veniva condannato al confino perché omosessuale o, come si diceva in quegli anni in Sicilia, un arrusu, che possiamo tradurre con passivo, busone, frocia, femminiello, checca fino ad esaurimento dei vocaboli dialettali. Uno è il masculo e l’altro solo l’arruso: poiché ficcando l’onore del maschio è salvo, la finocchia al buio è il nulla assoluto, la mancanza di dignità, il non esistente, è un buco da riempire, per svuotarsi.

In tutto il romanzo, assaggi di amarezza, che colano sempre, fino quasi a definire che c’è sempre differenza fra chi è “attivo”, e più “maschio”, e chi è “passivo”, e più “femmina”, una mentalità dura a morire, anche fra i gay stessi, non dimentichiamolo. Ma qui vado oltre il seminato del libro, che comunque queste domande le pone. A modo suo.

Nell’Italia fascista la testimonianza di una forma di resistenza che gli omosessuali sono stati in grado di esprimere anche nei momenti di maggiore repressione.

Ci si chiede, ad un certo punto, per quale motivo uno che ha 22 anni, un diploma e una quasi laurea, che è gay, non abbia mai sentito parlare del confino di tanti omosessuali alla fine degli anni Trenta, in Italia. Eppure questo fa parte della Storia e anche di questa storia. Ma è parte anche della nostra realtà di viventi il non conoscere, il non sapere, il volere atteggiarsi unicamente a gay che passivamente vivono, questo sì, la loro quotidianità tra il bel vestire, la cantante pop di turno e l’accozzaglia di luoghi comuni sull’età e la bellezza fisica (ah, dimenticavo che oggi va di moda anche la barba). Questo siamo e questo ci meritiamo, niente di più. Istantanee di vita, niente di più: non deve essere perfetta per nulla questa nostra vita se, tanto, alla fine tutti si muore – tra l’amore di oggi e quello di ieri – con l’amore che va bene o che non va bene, come deve essere nella vera natura dell’amore, del nostro amore e anche di questi amori di carta straccia.

Mettendo insieme il suo amore per la letteratura e la sua capacità di trasformare in storie che emozionano e appassionano, Paterlini scrive un romanzo che è anche un buon appello alla memoria civile e che esprime bene il bisogno degli omosessuali, come di tutti del resto, di avere una storia che parli di loro, che rievochi i torti e le strategie di resistenza che siamo stati in grado di elaborare. Riesce leggermente a condurci per mano attraverso problematiche e tematiche come l’amore, l’ossessione, la persecuzione, la malattia che, vorrei rammentare, sono universali e non legate specificatamente al mondo omosessuale.

Penso che molti giovani, di paese o di città, che si sentono diversi, sbagliati (ancora ci sono questi spettacoli di solitudine, anche nelle grandi città, non dimentichiamolo mai, questi diciassettenni che scrivono lettere a LaRepubblica e ricevono le belle risposte di chi le risposte le ha in tasca, di chi sa cosa rispondere, di chi sa cosa dire per consolare, come a significare: io so come va, come andrà e adesso te lo spiego) troveranno un libro che verrà a concretizzare loro un mondo, un loro mondo, con le loro stesso risposte che, a quell’età, stentano a venire e che nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di dirti. Troveranno un mondo pieno di perplessità e pieno di persone uguali a loro.

 

©Bo Summer’s 2013 tutti i diritti riservati
riproduzione vietata
 
 
 

martedì 20 giugno 2023

la poesia numerica di Mario Merz


INFORMARE

“Ma si può fare informazione sull’arte, e però né arte, né informazione sull’arte esistono senza aggettivi.” – Mario Merz

1. già da qualche anno queste forme vengono messe in discussione nella linearità stessa dei loro procedimenti (“Non basterebbero decine di pagine a riassumere e riepiogare i tanti tentativi che […] sono stati messi in atto per cercare di far coincidere, o almeno assimilare, certe strutture artistiche e certe strutture scientifiche: ho già ossevato, più di una volta, che le elucubrazioni attorno al Numero Aureo, alla serie fibonacciana, alle regola armoniche si erano rivelate come deludenti e inattendibili” – Gillo Dorfles, in “L’Arte, la Scienza”)

2. c’è da dire, invece, che in alcuni artisti.. per Merz, piuttosto, si dovrebbe parlare di una risemantizzazione, a vari livelli, di questo spazio che alcuni sperimentalismi avevano lasciato vuoto. Lo spazio di Merz è spazio di produzione di spazio. Tautologia, invero: la sapienza dello spazio, la sapienza dell’Arte

3. pensiamo a “sentiero per qui”, Triennale di Milano, 1986. Tutto nella sua opera – e ogni opera d’artista è summa dell’opera intiera dell’artista – attraverso tautologie concettuali (cfr Luciano Fabro per il senso di Tautologia) al movimento dinamico quasi a indicazione che ogni opera d’arte è fulcro di creazione energetica: costituisce il centro del mondo. L’igloo non è che assoluto spazio delimitato da materiale non trasparente (legno) come volontà d’isolamento e pure da materiale trasparente (vetro) che è relazione visuale con l’interno

ENERGIA

“i numeri vivi danno delle visioni” – Mario Merz

1. il numero come eccitante, rivelazione d’energia, quantità dinamica che induce verso una creazione di realtà, il numero come un atto di evoluzione che dia realtà a qualcosa altrimenti inconsistente: “i numeri sono un determinato e quindi conoscibile grado di organizzazione di energia”

2. Merz, sostanziato da una simile conoscenza, ha nel numero (nel suo accrescimento esploso, naturale e viscerale) la sua peculiarità, disegnando immagini e pensieri in un continuum abilmente orchestrato in sequenze naturali col risultato di produrre un lavoro mimeticamente esposto “per un maggior potenziale di energia”

3. materiali fragili e micidiali: immagini esposte. Merz li manovra con disinvoltura, sorprendendosi nel loro pericoloso fascino ma pure senza lasciarsi irretire nelle loro secche o esporsi a un canto ambiguo, affidandosi a un canto senza meraviglie e senza favole ma nella piena coscienza di natura

LA GERMINAZIONE DELLA COSA

“il cartello di foglie è un’architettura ideale” – Mario Merz

1. occorre riconoscere che la “casa tra gli alberi” è una tesi intrigante. Merz ci offre un referente se non addirittura il luogo fisico seppure sconosciuto e decentrato ma perfettamente rintracciabile. Non è poco. È un atto qualificato quanto coraggioso, quello dell’artista, che si produce già in sede di prefazione, di composizione poi
2.  ci si accorge del vuoto dell’igloo-casa: vuoto mobile, secondo Fibonacci (numerazione naturale) che apre la misura dell’interesse: l’alloggio, con sapienza e documento dell’artefice, pone all’interno e interpreta quel vuoto come silenzio in cui chiamare, a dispetto, le voci a tutto campo. Pertanto inizia, a tutto campo, il percorso

3. c’è altro: “la sua è un’arte dell’abitare e dell’insediamento antropometrico? Così parrebbe” (Tommaso Trini). Ma pure la figura di casa genera la novità – quasi un gesto etico e forse proprio quello – del pensiero quale “oggetto” che significa e dona aurea all’odissea del percorso: la puntualità dell’evento. La casa di foglie germina, crea e disperde: si muove e concentra

[nota: a metà anni ’80 progettai un testo di un centinaio di pagine “la poesia numerica di Mario Merz” a proposito del volume di Mario Merz “voglio fare subito un libro”. Quel mio testo andava a cercare di decifrare il fare poetico nella scrittura di Merz. Ci fu un confronto, per quel mio testo che mai vide luce editoriale per mia incuria, con Jole De Sanna, un’intesa di intenti che mi portò a una lunga amicizia con la critica d’arte militante di Jole. A lei dedico]

domenica 18 giugno 2023

Le Belle Lettere


Fabio Galli 03 Belle Lettere

Le cose, sotto sigillo, creano un’atmosfera di sordo dolore. Limitata al mondo, tremenda. E queste sono le mie contrade incerte. La mia scrittura ne è una prova, un altrui che sboccia in gesti terribili.

Ma l’unicità di un atto può avere una propria efficacia. Nel corso della sua esistenza, questa scrittura,nella sua ingenuità e approssimatezza, per un tragico destino, il mio, riuscirà a chiamarsi valore. Prima o poi. o mai. Ma anche diverrà un tempo oltre, un proseguimento insomma.

Forse non vi è più molto di presente, di questo presente, se non intenzionalmente il mio rifugiarmi altrove, in un tempo altrove. Nel rigore. Ma è giusto che sia così.

Mi è ignoto tutto il resto se chi scrive, quando scrive, non genera smarrimento. Questo non essere nel non presente. Ci si allontana, prudenti, da un’esperienza che è essa stessa grido.

Chissà se l’identità di questo mio lavoro sulla scrittura riuscirà ad imbrigliarla a poco a poco questa lingua, lentamente in un’impalpabile polvere grigia, nell’oblio del mio stesso pensamento di non scrivere più. Prima o poi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(7 marzo 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©gaiaitalia.com 2015 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 

l’autoritratto


Fabio Galli 04 Macchina da scrivere

 

Questa non è città d’assoluto riposo. È senza coscienza buona, fino all’urlo più alzato! La sua Piazza Ducale evoca vertigini, voragini e confonde la mente nel turbinio degli abitanti che la percorrono, con fisica audacia, nella circolarità della sua architettura, intessendo (e le parole, ora, non saranno quelle giuste, non di certo le migliori) preziose circostanze, incontri, incanti funesti. Negli occhi, disparizioni umane e apparse impreviste e liete.

Per chi, come me, nella propria irta solitudine, si misura con la Chiusa Verità – il Finito Giorno, ma non voglio più parlare, ora!, di quest’uscio maldormito, di questa uscita alla non vita -, quei portici, quelle volte piccolette e basse, non sono praticabili se non nella più appienata notte che assomma, a quelle colonne brunìte, il lividore solido e calmo, colmo d’eleganza e lamento e fuoco, delle prede in libertà: le fiere regali: le bestie molteplici: le fantasie pericolose sepolte nel buio: le nature stremate: speranze uniche e care.

In questa città – intanto voglio dire: essa, dormiente e piccolissima, per la mia inanimata mente, è pura assenza di festa -, sono nato il ventottesimo giorno del socondo mese dell’anno millenovecentosessantuno.

Nulla, nel pugno, in questa città. Proprio quando il pugno si apre: spavento, rapina, vuoto. E, visto il vuoto, scrittura. E scrivere, per me, è possibile soltanto con la disperazione nel cuore, nel frastuono (tumulto che non riconosco. Una voce e mille voci nella casa, in questo ‘cuore dunudato’ come la bottega di Bruno Schulz. Ed è qui, fra stami d’oro, una volta ancora, che il silenzio colpisce con l’impressione sconcertante della sofferenza: da qui le raccomandazioni ai giovani ma con giri di parole: “Attenti alla Natura!, alla Natura delle Cose!”), col dolore degli animali fanciulletti: è l’avvelenamento del proprio esistere – l’amore stesso!: pallido varco al foglio! – ed è cura, è responsabilità per ciò che si scrive.

Occorre farsi largo, fra le parole, ma non sono sicuro che scrivere voglia dire, anche, insinuarsi nella salvezza. Ripararsi. A volte una netta sensazione mi turba: non so ancora se tutto questo scrivere, questo scrivere per scrivere, valga solamente per me o sia anche per i rami, o le foglie, o i fiori, o gli uccelli o per le droghe dei cervelli (una palazzo lasciati dibattersi debolmente, il pensamento) o per la povertà umana oppure se corra più in alto, fin su al soffitto del cielo, fino alle volute mai udite proferire.

È importante, per me, che la scrittura abbia tutto questo valore, tutto questo movimento che si calma col canto. O non è.

Poi ci sono i tempi, le ore spese difronte al foglio bianco: una impotenza creativa che rasenta la follia, la sensazione che niente, d’ogni frase, sia nel posto che gli compete. Le emozioni che un rumore esterno svanisce e che una voce di casa, invece, richiama. La lampada accesa anche di giorno. La quiete parlata della notte. L’orrore. La convizione che a poco a poc, precisa, si viene matuarndo, con un senso di pena e di disfatta, che è sì necessario d’eliminare ogni scoria di socievolezza non meno che ogni consolazione, che la vera essenza della poesia vada ricercata più in là, davvero!, delle proprie cose, in quell’ineffabile limbo che del concreto suggerisce soltanto una nozione purificata o la vaga impressione che riusciamo a subirne: una stagione indistinta e senza limite: sonno ripreso.

Ed è, scrivere, destino mostruoso. Miseria. Quattro pareti. Questo va detto: ciò che culla il vincitore, non dovrebbe toccare chi scrive. Delle parole, l’ombra posa, ovunque obliqua, ogni desolazione: un nuovo senso delle apparenze: una nuova qualità.

Prima dei miei versi – gemma preziosa, mi si presentò la Verità troppo grande dei Padri – vennero i libri. Fra quelli, il primo libro che non rimproverava, come al solito, la mia selvatichezza ‘Una Stagione all’Inferno’: una rabbia loquace, il furore riguardante quelle figure d’ombre: un cuore barbaro, Arthur Rimbaud, col su terribilissimo passo. Atroce quale speranza di memoria.

È proprio di quel periodo l’inizio del mio discorso imprudente.

Ero come immerso in una serie di forze scatenate – imbarazzato, cominciavo a scrivere le mie prime cose, cose di poco conto – entro le quali la mia impotenza (parimenti alla mia agitazione) e l’impotenza delle parole che tentavo di depositare sul foglio, s’assommavano. Quelle mie parole, m’accorgevo, malamente mi proteggevano dalla notte e dal subdolo cambiamento che s’avveniva intorno a me: mi rendevo conto d’essere soltanto una presenza illusoria, vittima e dominatrice, a un tempo, della materia: affogato nella materialità assoluta.. voci, da quei libri, che venivano raccolte e filtrate, filtrate prima ancora d’essere raccolte: esse erano divenute una trappola, per me: solenne per il mio perfetto esilio. La ricostruzione d’un Mondo.

[questo testo fu pubblicato sul mensile di cultura poetica “Poesia” (Crocetti Editore), anno II, numero 3 , Marzo 1989]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(8 giugno 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©gaiaitalia.com 2015 ©bo summer’s 2015 – diritti riservati, riproduzione vietata

 


venerdì 16 giugno 2023

di Bach e Pasolini, di Amore e Morte

Non intendo, in poche righe, voler rendere ragione né, da un lato, della divergenza dell’intero corpus delle opere pasoliniane, né, dall’altro, delle molte facce della sua disegno “mitologico”, attraverso una molteplicità di metodi che potrei affrontare, ma non è lo spazio o il luogo, questo. Sarebbe impossibile. Come sempre, cerco di instillare curiosità, o altro.

Di Bach, Pasolini sonda, soprattutto, l’aspetto eccelso ma anche ossimorico: la musica di Bach è un’immagine conflittuale, luogo di uno scontro disperante, di un conflitto fra Carne e Cielo… una lotta, cantata infinitamente, tra alcune note basse, velate, calde e alcune note stridule, terse, astratte.

La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile. Dirà Alberto Moravia, io, timidamente, avrei da eccepire su questo luogo comune [come già ebbi a scrivere nella mia breve e sentita presentazione al volume Frocio e basta che su questa preziosa piattaforma venne presa in considerazione], ad esempio sull’immagine del martirio erotico della sua morte, che fonti ben note declinano e che io appoggio caldamente. Se posso.

Pier Paolo Pasolini 00

A tanti anni dalla sua scomparsa, ma a me paiono ancora troppo pochi, la tragedia mi è ben presente, leggere ancora uno scritto, seppur breve quanto questo mio, su Pasolini potrebbe sembrare un’impresa ardua e non giustificata a causa della gigantesca mole della sua produzione cinematografica e letteraria e dell’eccessiva trattazione biografica e saggistica sull’autore esistente. Invece, dietro queste poche righe, c’è un lavoro di grande fatica, che un giorno renderò noto, che pubblicherò, se potrò, e che approfondisce interessanti temi cari all’indimenticabile intellettuale e artista.

I suoi versi profetici continuano ad introdurre il mio senso estetico verso un autore amato e controverso, mai compianto abbastanza, attualissimo, la cui aura e carica comunicativa hanno contribuito a renderlo mito “nazional-popolare”. Proprio lui che incarnava lo spirito eversivo e critico rispetto alla cultura dell’epoca, e odierna, alla comunità intellettuale e alla stessa sinistra, alla quale aderiva da sempre e dalla quale veniva espulso. Proprio lui sempre teso ad essere impopolare. Beffardo destino. Lui il catto-comunista.

In un debole lezzo di macello / vedo l’immagine del mio corpo: / seminudo, ignorato, quasi morto. / È così che mi volevo crocifisso, / con una vampa di tenero orrore, / da bambino, già automa del mio amore.

L’eccessivo barocchismo e i toni melanconici del suo stesso classicismo si alternano maniacalmente in una dialettica fra sacro e profano che accompagnerà tutta la vita di Pier Paolo Pasolini fino a far divenire la musica di Johann Sebastian Bach il luogo reale ed isolato in cui il conflitto diviene finalmente catarsi.

Ma la tortura di Cristo è offrirsi, è un dono (come del resto si è sempre donato Pasolini al suo pubblico): Cristo si spoglia della propria soprannaturalità per far entrare la divinità nella materia e abbandonarsi all’oblio della pienezza della carne. Tutti sappiamo che Pasolini era affascinato dall’esposizione del corpo di Cristo sulla croce: le ferite sono aperte e bruciano sotto lo sguardo. Si identifica nelle opere di Bach, e al Cristo sulla croce, poiché vi scorge emotivamente una lotta che si fa tremenda anche sul piano stilistico, una lotta interiore che appartiene a entrambi e che coinvolge il regista e poeta al punto di definirle come altezze disperate.

Per Pasolini l’elemento musicale è fondamentale: lo si evince anche dalle sue sceneggiature, che presentano precise indicazioni musicali. Indicazioni sulla morte e l’affettività. Perfino l’attenzione a questo tema diviene profetica in Pasolini: ricordiamo infatti come anche il corpo massacrato viene abbandonato in una triste esposizione-espiazione.

Un fiume in piena attraversa tutta l’opera pasoliniana: il concetto del corpo che inevitabilmente lega e delimita la vita e la morte e, lontanissimo dall’antico dualismo tra anima e corpo, sostiene l’anima, permettendole di essere e di esprimersi, poiché i sentieri del pensiero e dell’esistenza sono come tracciati a fuoco sulla carne e la carne sta alla base dell’esperienza. È la sua vera possibilità. Ostentato, amato, preso a colpi, il corpo in Pasolini è il luogo inutilmente agevolato dell’epifania del sacro. Un corpo cristologico.

 

 

©Bo Summer’s 2013
per gentile concessione
©gaiaitalia.com 2013
riproduzione vietata
tutti i diritti riservati

 

 


“Jobo”. Un racconto


Omofobia Pestaggio

Voci che attraversano l’aria come folate di buio. Voci secche. Sguaiate. Sferzanti. Parole d’astio e fastidio. Terre rifiorite e rigurgiti.

Brutta checca, frocio di merda. Cose ovvie di questo genere. Voci. Sciabordii. Ma che mi producono un certo quale effetto di sottomissione. Un orizzonte. Un balenìo di senso dissennato.

Un’azione più forte e decisa. Un’azione più clamorosa. O forse soltanto più teatrale. Un rumore indefinito. L’indizio di un pericolo incombente. Come il ramoscello che si spazza o lo scricchiolio e il fruscio di sterpi e di foglie la preda della muta di caccia che la insegue spingndola alla fuga o al terrore paralizzante. Un lieve e sordo strisciare di scarpe con la suola di gomma.

Spostai le braccia all’indietro e appoggiai i palmi delle mani aperte per terra. Per tenermi sollevato verso di lui. Per diminuire così la tensione che cominciava a scavare un solco di doloroso terrore lungo tutta la schiena. Aggrappandomi decisamente al muro restai in piedi e incominciai un poco più velocemente sfiorando con le nocche la recinzione di cemento e sassi ruvidi che racchiudeva un giardino e l’intonaco più compatto delle pareti delle case e la superficie liscia e quasi scivolosa dei portoni. Caddi. Raggiunto. Si chinò allora nuovamente su di me. Mi risollevò afferrandomi per i lembi del chiodo. Accade di tutto. Alla fine strofinò la punta del suo pene contro le mie labbra chiuse proprio prima da lasciarmi ricadere nuovamente a terra.

S’allontanarono e io sentii a lungo l’eco del roco e ottuso mormorio delle loro voci. Quei respiri pesanti. Il suono opaco e ottuso di quelle voci che se non riuscivo a distingure le loro paroe. Sentivo le gocce colarmi lungo il viso e dentro il colletto della camicia. La muta rideva rumorosa ed appagata. L’intonaco del murocui m’ero disperatamente aggrappato mi pareva come sfarinarsi leggero leggero sotto la pressione delle mie dita e la verigine invadeva l’aria e la strada e il marciapiede sommergendo me e tutte le cose intorno a me.

Capii soltanto che probabilmente avevo interverito in una loro impresa. Avevo assunto ai loro occhi non so più se il ruolo del testimonedi un gioco e di un ruolo che mi fece diventare il nemico.

Rimasi così a giacere a faccia in giù. Sul marciapiede.

Questo sta raccontando ora.

Quando fui colpito non ero veramente sorpreso. Me l’aspettavo. Barcollai e caddi pur non potendo seguire quelle confuse argomentazioni potevo capirli. Comprenderne le motivazioni e le più ardite argomentazioni.

Nella muta esisteva un conflitto nascosto e sotterraneo. Forse attendeva solamente l’occasione giusta per esplodere definitivamente contro l’autorità o l’egemonia della violnza che li teneva uniti.

Poi l’erezione cominciò a diminuire ed egli puntò sostenendolo decisamente con la mano il pene molle ma ancora rigonfio nella mia direzione e schizzò verso di me un acre lampo d’urina gialla che mi colpì sulla guania sinistra.

Doveva essere il capo della muta. Si chinò verso di me e afferrò con le due mani il lembo del bavero del mio chiodo e mi sollevò verso di lui. Li avevo sentiti dietro di me. Più che picchiarmi sembrava che volesse farmi sentire il contatto del suo corpo e delle sue mani. Il contatto dei suoi palmi caldi contro la pelle del mio viso. Non volevo sentirmi. Non volevo essere una preda. Non volevo nulla. Non volevo vedere nulla. Picchiò. Non troppo forte.

Non si può sopportare troppa realtà. Con tanta realtà.

Non c’era ai loro occhi un giusto rapporto tra l’attesa e l’inseguimento e l’attacco e la sua conclusione.

Mi sollevai prima sulle ginocchia e sulle mani. Mi rivoltarono in su con la punta degli anfibi. Quello che pareva essere il capo mi lasciò cadere e si guardò intorno. In altre parole guardò i quattro o cinque che formavano la sua muta. Questi a loro volta non guardavano più me ma verso di lui.

M’ero sì abbandonato a lui. Come un peso morto m’ero rilasciato e avevo fatto risalire da dentro di me e dalla profondità del mio secco corpo o dalla mia misera anima la mia morte latente. E l’avevo stasa quella morte latente su di me come una coltre.

Difficile essere più preciso. Stavo lì. A terra e con la nuca appoggiata deicatamente all’asfalto nell’attesa che se n’andassero. Ma quando il loro capo che stava ancora in piedi sopra di me con le gambe aperte ad arco s’abbasso la cerniera dei jeans ed estrasse il pene capii che egli era il capo non solo per la sua capacità di violenza ma perché aveva più immaginazione del resto del gruppo.

Avevo cercato di cancellare tutte queste sensazioni malate ma quel gesto fu una vera riveazione.

M’erano piombati addosso senza che me n’accorgessi. All’improvviso. M’erano capitati proprio decisamente addosso. Sì all’improvvisa. Ma non del tutto inaspettati.

Si congedò da me con un calcio nel fianco e s’unì agli altri.

Lo guardavo e continuai a guardarlo per un tempo che ora non riesco a calcolare ma penso si sia trattato di un minuto o poco più mentre attendeva che il turgore venisse meno. Le sue parole arrochite e confuse e spezzate m’alitavano direttamente sul volto con un sentore aspro. Le loro oci salirono di tono. La mia colpa non era in ogni modo davvero grave. Oppure aveva capito che io ero una preda indegna della sua furia.

In realtà questo non è del tutto vero.

In fondo il colpo non era stato neanche un vero colpo. Piuttosto uno spintone violento in mezzo alle scapole. In fondo il colpo non era stato molto forte.

L’incitamento della muta forse al contrario di quanto avevo pensato e tutta quanta l’eccitazione per la mia acquiescenza avevano inturgidito il suo sesso che sporgeva eretto dai calzoni aperti. In piedi e proteso verso di me e con le gambe divaricate e io stavo a quel punto metà disteso a terra nell’arco delle sue estremità aperte e metà sollevato verso la sua faccia dela quale non riuscivo ancora a distinguere i lineamenti.

Era evidente che s’aspettavano qualcosa di più. Per gli altri la cosa non poteva finire lì.

Era buio ma potevo scorgere bene il corto ciindo di carne proteso come l’emblema del suo petere. Ebbi l’impressione che non volesse farmi davvero male. Dopo avermi colpito m’afferrò entrambe le guance tra le dita. Come si fa certe volte coi bambini. Le strinse. Le mie guance secche e smagrite mentre m’insultava.

Non poteva mica ammazzarmi!

O forse l’avrebbero anche potuto fare ma il capo era arretrato restio non so se difrante al mio silenzio o alla mia inerzia.

Così pensai mentre mi alzavo da terra e m’appoggiavo al muro. Caddi dunque con la faccia in avanti. Avvertii il contraccolpo che attraversava il mio corpo. Speravo nella loro ripugnanza nei confronti della mia passività.

Avevo interrotto il cerchio dei loro corpi sul vagone della metropolitana per passare e per andare oltre e per lasciarmeli deinitivamente alle spalle. Immaginavo che a muta fosse formata da prdatori armati che amano solo le prede vive. M’era parso di cogliere il loro sguardo quando me li ero trovati davanti. Faccia a faccia.

Avevano camminato almeno un paio di chilometri dietro di me e tutto stava concludendosi con un ospintone e qualche buffetto?

L’odore aspro e morbido della polvere della casa riempie le nari e ne sotterra tutti i pensieri.

A quel unto mi tenne sollevato con la sola mano sinistra e mi colpì il viso due o tre volte con la destra.

Questo racconta.

Volevo vedere i loro occhi. Solo guardarli. Cercare in essi la traccia incredibile di quell’oscenità che avevo avvertita nei loro gesti. Che avevo avvertita nei loro atteggiamenti.

Un vagone di metropolitana. Quando è popolato pare sia riempito da tutte le avventure possibili o forse solo sognate e giochi di sguardi non ne mancano. Questa volta il vagone è vuoto. Tranne il gruppo.

Nel solitario ragazzo seduto nel vagone tutte le rogne prendono corpo in uno sguardo del gruppo che incrocia casualmente il suo. L’occhio del gruppo cade sul titolo di un libro che sta leggendo e un gesto quasiasi che sarebbe stato in un altro tempo e in un altro luogo privo di significato.

Uno scompartimento è come una cella monastica. Chiuso.

S’erano fermati in piedi intorno a lui. Formavano un’opaca e compatta cortina di schiene coperte da T-shirt-fruitoftheloom e di gambe coperte di grezza tela blu. Dondolandosi dolcemente avanti e indietro con un’oscillazione che portava il loro pube all’altezza del viso dlla preda e le loro natiche ad urtare ritmicamente contro la mia spalla.

Seduto in una poltrona vicino alla finestra cerca di ricordare ogni dettaglio e ogni lampo di luce nei loro occhi.

Se dovessi tentare un nome per quella sensazione estrama parlerei di una percezione del nulla.

Direi di uno sprofondamento che pareva non trovare ostacoli e che sembrava poter sommergere in sé passato e presente. Scesi dal treno sotterraneo. Facendomi strada ancora una volta attraverso la bufera dei loro corpi.

Sarebbero stati elementi sufficienti per accedere ad un frammento della sua vita. Ad una briciola della sua storia di bravo ragazzo che tenta solamente di leggere un libro in metropolitana.

Quasi potessi far diventare ricordo e quindi in qualche modo remota l’angoscia che m’aveva afferrato e quando lo vedrò venire ancora verso di me e sedersi al mio ianco quel moro ragazzo della metropolitana con la maglietta bianca che lascia lo scorcio al petto villoso e nero e ricciuto di peli crespi e duri sotto la stoffa sottilissima della sua attillata e candida T-shirt in una stupenda impudicizia dopo che una eventuale notte avrà cancellao ogni riserbo?

Protestai perché si erano accalcati addosso a me. Ero curioso anche di conoscere quei volti bastardi che avevano attraversato il mio sguardo dopo la mia reazione.

Quelle immagini di facce non avevano un rapporto diretto con il mio mondo che si stava trasformando in una sensazione di fragilità e di debolezza e di smarrimento. Pareva che non m’avessero sentito. Non si girarono nemmeno verso di me. M’ignoravano. Oppure no.

Non riesco a vedere i suoi occhi mentre racconta tutto questo episodio. In maniera convulsa. Dal tono stesso della sua voce indovino la traccia di un dolore che le parole della sua povera e piatta narrazione non esprimono. Non lo vedo ma posso immaginarlo. Indovinarlo. Immobile con gli occhi fissi davanti a sé. Attonito. Forse impaurito. Non lo so ora. Posso solo dire cosa c’era stato in passato dietro quegli occhi e quella bocca. Quando c’eravamo amati. La rabbia di non comprendere davvero tutto mi riempie di tristezza e mi vela gli occhi.

M’infastidiva il calore dei loro corpi che toccavano e urlavano. Sfregavano contro il mio corpo. M’alzai. M’alzai allora. Esattamente in quel momento. Facendomi largo bruscamente attraverso l’ostacolo dei loro corpi. Spostandoli lateralmente con uno spintone. L’avessi mai fatto. Avevo dato il La a una razione a catena inarrestabile.

Ma a volte il ricordo stesso è uno schermo di malinconia e di dolore dietro il quale ci si protegge da una senazione ancora più lacerante. Come quela che in questo momento è entrata indefinita e straziante dentro di me. Nell’ascoltarlo.

Ma ero ormai arrivato alla stazione.

Ma cosa ha fatto per scatenare la furia? Uno sguardo? Glielo dico. Le domande che emergono dentro di me non hanno risposta ma generano ancora altre domande.

Lo sguardo fisso a terra. La loro presenza era reale. Lo sguardo fisso a terra e come inebetito verso il suo libro. Calpestato dal gruppo inferocito che a questo punto aveva davvero trovato di chi occuparsi.

Il riflesso del suo viso sui vetri disegna ancora più nitido. Il suo magro profilo e le piccole rughe che incurvano le sue labbra. Il ricordo non corrisponde alla realtà. Mai. E la realtà non corrisponde al ricordo. Il ricordo è spesso illusorio. Uno schermo dietro il quale ci si protegge dalla malinconia e dal dolore.

Non aveva detto nulla e non s’era chinato a raccoglierlo quel libro. Il libro era caduto a terra e stava spalancato tra i loro piedi.

Il dolore d’allora. Il dolore che sale alla memoria. Il dolore non ha cancellato nessun particolare ma in lui s’è sommato a quell’indefinto struggimento. Mentre narra.

I suoi occhi e il titolo del libro. I suoi capelli rasati ma nonostante tutto sicuramente neri. Anche la sua carnagione. Olivastra. Come l’impressione di una luce azzurra sul suo viso tenue e silenzioso. Guarda verso la finestra mentre parla. Senza muovere la testa. Senza guardarmi. Guarda un punto fisso. Non so se a cercare la propria memoria o il buio fuori.

Ero sulla metropolitana e osservavo in religioso silenzio un ragazzo che leggeva.

Tutto quanto questo suo racconto è un frammento di passato. Una scheggia già bene incuneata nel presente che ho tentato di trascinare quasi all’indietro nel tempo. Quasi potessi fare arretrare proprio con quell’immagine anche tutto ciò che io sto vivendo. E infine mi chiedo se un passato che sappiamo definitivamente irrevocabile può dare un senso al presente e risvegliarne i mostri solo perché appare anch’esso come mostruoso e come ciò che è stato irrevocabile.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
©bo summer’s 2014
©gaiaitalia.com 2014
diritti riservati
riproduzione vietata
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

giovedì 15 giugno 2023

su Pasolini, ancora?! Non soltanto…


Fabio Galli 02

Io vidi Salò, la prima volta, quando erano già trascorsi anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Il mio primo Pasolini letto fu, invece, Scritti corsari.

Piuttosto in coda, voglio starmene in fondo, un minore restare, con un altro silenzio, stavolta però in un ambiente chiuso, quella stessa stanza maledetta diventata quasi intima camera. E ci ho pensato più volte a questa cosa dello scrivere per scrivere. Dello scrivere come terapia. Io non scrivo per curarmi. Per quello c’ho le medicamentose medicine chimiche. Son stanco e non ho un ego maiuscolo. Mai avuto. Non comincio di certo ora che non ho nemmeno più il tempo per stargli dietro. Fare gli amoreggiamenti con me stesso. Mettermi in primo piano, alla berlina, se si vuole… ma no, non sono io quello.

Insomma, piove a dirotto, ora, ma non ha importanza, anzi quasi sono contento che piova così forte. Questa landa a me non piace, questa steppa pianeggiante che sprofondi in un mare di acqua madida. Brandelli di sole squarciano di tanto in tanto la coltre compatta di nubi. È estate, ma questo tempo, in questo luogo, mi fa venire in mente il paesaggio raccontato così poeticamente in Un paese di temporali e di primule. Evidentemente non c’entra nulla. Ma la mente, si sa..

Un temporale è esattamente quanto di meglio ci si potesse augurare durante questa giornata. Il paese, così, appare in una luce forse un po’ più simile ad allora, agli anni Sessanta del secolo scorso, quando ci abitavo con mia madre e mio padre. Non avendo un fratello che facesse parte della mia famiglia, me ne inventai uno, mi racconta mia madre, a soli 2/3 anni. Io non mi ricordo questo fatto. Devo averlo rimosso nella stesso modo in cui l’ho creato. Dal nulla.  E allora oltrepassai quella soglia che era la solitudine figliale reggendone quel fascio di dolore che doveva essere giusto. E che mi spettava. Di diritto. Mia madre non poté avere altri figli, erano altri tempi per i parti e spesso si rovinavano le donne.

Non riesco a trovare la tomba di mio padre, senza mia madre, e nemmeno nessuno a cui chiedere. Forse è destino che io non debba sostare davanti ad essa, per rispetto ai miei sentimenti nei suoi riguardi. Credo che la mia famiglia fosse essenzialmente mio padre e mia madre. E mio fratello. Che m’ero inventato. Ma che, come ho già detto, non mi ricordo.

Pierpaolo Pasolini è stato, fino in fondo, un intellettuale. Disperatamente un intellettuale. Un inetto davvero in una scelta poetica ed estetica prima ancora che politica, come fosse prassi concreta della lotta di classe. Anch’io vorrei esserlo, a volte, un intellettuale. Ma spesso me ne vergogno al solo pensiero. Ho amici, o ex tali, che di questo vivono: del loro essere intellettuali o fintamente esserlo. Non saprei.

Con Pasolini scoprii uno spasmo che non conoscevo e posi anch’io inizio ad una ossessiva e continua ricerca di un mondo originario, un bucolico canto, il nirvana dei corpi assoluti, un paradiso sperduto, un’origine della storia cercando purezza e l’innocenza dei corpi che mai incontrai con invece loro studiata, fosca, vitale violenza e i loro organi sessuali che non stavano da nessuna parte, mai fermi, mai sazi, alla ricerca continua e quella stessa ricerca mi portava all’uomo ridotto a porno, a mera materialità. E tale mi è diventato il linguaggio: mera pornografia, pornolalia.

Ho scritto poesie ma non mi è mai capitato di scrivere versi per canzoni… non mi si è presentata l’occasione… credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare dei versi a della musica. Perché le parole non hanno più dèi. La storia umana è questa: il diavolo non ci viaggia accanto, è calato nella nostra storia. E non parla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(31 luglio 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©Bo Summer’s 2014
©gaiaitalia.com 2014
diritti riservati
riproduzione vietata