mercoledì 5 luglio 2023

il terribile è già accaduto?


Fabio Galli 00

E dunque allo scopo di razionalizzare la nostra devastazione esattamente con una falsa consapevolezza assuefatta, e di eliminare la nostra facoltà di vedere chiaramente quello che ci sta sotto il naso e di immaginare cosa ci sia un po’ più in là, abbiamo dovuto distruggere la nostra capacità mentale.

Amore e violenza, a rigore, dovrebbero ben essere polarità opposte.

L’amore lascia vivere il prossimo, ma con interesse ed attaccamento.

La violenza cerca di limitare l’altrui libertà, di costringere il prossimo ad agire come vogliamo noi, ma, per l’esattezza delle cose, con disinteresse ed indifferenza verso l’esistenza e il destino degli altri.

Con questa violenza mascherata da amore stiamo riuscendo a distruggerci.

Gli uomini non divengono ciò che la natura li ha destinati ad essere, ma ciò che la società fa di loro.

Pressioni, queste, intese precisamente a distruggere la maggior parte delle sue potenzialità, impresa che, nel complesso, è coronata da successo: all’epoca in cui il nuovo essere umano ha circa quindici anni, ci ritroviamo con un essere simile a noi, con una creatura semi-folle, più o meno integrata ad un mondo pazzo.

Questa è, ai nostri tempi, la norma.

Siamo  distanti dalla spicciola psicologia d’accatto che cerca invece la normalizzazione dell’uomo a questo mondo.

I sentimenti generosi vengono, per così dire, rinsecchiti, cauterizzati, strappati, amputati per renderci adatti al nostro approccio col mondo, mai con nessun dio, soli.

Le nostre azioni corrispondono alla nostra esperienza del mondo: noi ci regoliamo alla luce di ciò che secondo noi una situazione comporta o non comporta; ossia, ciascuno si occupa più o meno di ontologia, ha delle opinioni personali su ciò che  è  e  su ciò che non è.

Siamo un’intera generazione di esseri talmente estraniata dal mondo interiore che vi sono molti che sostengono che esso non esiste, e, anche se esiste, non vale la pena di occuparsene; che, anche se possiede un qualche significato, non è fatto di solido materiale scientifico e quindi occorre renderlo solido, misurarlo e calcolarlo; quantificare l’estasi e l’agonia del cuore in un mondo in cui, quand’anche il mondo interiore venga per la prima volta scoperto, noi non possiamo che sentirci defraudati e derelitti, giacché senza il mondo interiore l’esteriore perde ogni significato e senza l’esteriore l’interiore perde ogni realtà.

Quando accade che i nostri mondi personali siano riscoperti e che si permetta loro di ricomporsi, scopriamo sulle prime uno scempio.

Corpi morti a metà, genitali dissociati dal cuore, cuori scissi dalla testa, testa avulsa dai genitali.

Tutto questo quasi come in un perfetto loop.

Nessuna unità interiore, solo senso della continuità di una perduta comunità, quanto ne basta per affermare l’identità, questo moderno oggetto di idolatria.

Corpo, mente, spirito, strappati gli uni dagli altri dalle interne contraddizioni, scagliati in diverse direzioni.

L’uomo staccato dalla propria mente, ed egualmente tagliato fuori dal proprio corpo, creatura mezzo impazzita in un mondo folle.

Quando il terribile è già accaduto, non possiamo attenderci altro se non che l’oggetto del proprio io si faccia eco esterna delle distruzione già occorsa interiormente.

Queste affermazioni in certo senso sono vere? Descrivono la creatura spaventata, domata, abbietta che siamo ammoniti ad essere se vogliamo essere normali, offrendoci l’un l’altro reciproca protezione dalla nostra stessa violenza?

Ricorre, frequentemente, l’accenno alla sicurezza, alla stima degli altri.

Si suppone, quale ragione di vita, uno debba volere, se l’essere o il rappresentarsi.

“Ottenere il piacere della stima degli altri”, altrimenti è uno psicopatico (Theodore Lidz, The family and Human Adaptation, Londra 1964).

Siamo in un mondo in cui l’interiore è già scisso dall’esteriore.

Ci ritroviamo nella necessità di conoscere relazioni e comunicazioni, ma questi schemi di comunicazione, disturbati, riflettono il disordine dei nostri mondi personali di esperienza sulla cui repressione, negazione, scissione, introiezione, proiezione, dissacrazione e profanazione generale si fonda la nostra civiltà.

Siamo ridotti tutti quanti a figli di chissà quale profezia alla rovescia che hanno appreso a morire nello spirito ed a rinascere nella carne.

Vista in questi termini  la  nostra funzione pare essere quella di reprimere l’eros della propria creatività, di produrre una falsa sensazione di sicurezza, di negare la morte con l’evitare la vita, di togliere di mezzo la trascendenza, di far credere in dio evitando l’esperienza del vuoto, di creare, così, in breve, l’uomo ad una dimensione, di incoraggiare il rispetto, il conformismo, l’obbedienza, di metterci fuori combattimento, instillando la paura di fallire, stimolando il rispetto per il lavoro, in quanto fonte di reddito, provocando il rispetto della “rispettabilità”.

Conquistata secondo i criteri di cui sopra.

 

 
© gaiaitalia2013 Bo Summer’s riproduzione vietata

martedì 4 luglio 2023

per Dario Bellezza


Il desiderio. Dov’è la sorgente? In 
quale recesso? Chi può ormai stanarlo? Queste le domande, come sangue nelle reni, afflusso improvviso come un tarlo che a poco a poco obnubila la mente. Non vale, allora, stimolarlo solo con la memoria, come se la poesia potesse essere pura sessualità (o artefizio di quella, come nell’amato Sandro Penna, o nel letto madido di sudore di morte di Dario Bellezza) non ritorna niente dal sesso scritto, niente.

Il sesso è pura alterità, non sta nemmeno più nei pornoshop e nemmeno nel deep web. Figuriamoci se può stare nella poesia. Nel suo lucente fingere. Finzione è poetare, al massimo è erotismo dello scrivere, altro da sé. O pornolalia.

Va detto più volte, anche di notte, quando il sonno non viene più. E, nonostante ciò che si può pensare, questo fare poetico non ha bisogno di orpelli visivi, di mattane teatrali poiché è già bruciore di vene, un piccolo fuoco – come così occorre che la poesia rimanga – una brace già nella completezza della pagina, del suo farsi verso (avvicinarsi a) ed è come se ancora, in questa nostra età sfinita, si potesse stare sulle barricate a dar voce alla vita. Come se si potesse.

sabato 1 luglio 2023

El Horno (capitolo A)


#ElHorno, di Bo Summer’s (a cura di Fabio Galli)

Capitolo A (anteprima)

A dargli tutto quel tempo che gli occorre, Skeeen è davvero capace di provare e d’impartire l’estasi esattamente lungo tutto quanto il locale… Skeeen non può proprio celarlo nemmeno a se stesso: a mala pena domina l’ansia che in quest’attimo l’assale, allorché, sospinto dal suo stesso interesse si risolve a trascrivere soltanto mentalmente – ma accuratamente, ma molto al di sopra di enigmatiche parole, come fosse una cosa attigua a carceri questo pensamento, come fosse suo remoto parente questo strazio straziante che strazia ma come costretto fosse a conviverci, come fosse un orizzonte velato e oscuro, come fosse un piano secolare, come fosse un mandamento ma orrendamente divino -, la copia affrettata, come fosse, di tutti quanti gli avvenimenti passati e anche futuri della sua vita… e via, e via, e via… ma proprio alcuni di questi avvenimenti, già da molto prima d’incominciare, hanno animo – muto forse, silenziosissimo ma simile a tifone grandissimo – adulto e fanciullo insieme: terra e melma e paura brulla e quasi mancamento e ancora lontananza da primissimo desiderio sono questi avvenimenti. niente d’altro da aggiungere, niente d’altro da dire:

A dargli tempo, quindi, Skeeen è proprio capace d’inebriarsi, d’ubriacarsi nel cuore stesso dell’inferno abissale de El Horno: “il nome del posto è di per sé già strano, è come meraviglioso presagio, non tanto allettante ma come non cedere alla tentazione”, dice nella sua mente Skeeen, “al disarmo totale che prevede un luogo come questo: le luci appena visibili colpiscono in tutta la loro vera crudeltà: una poesia del trasalimento” e via, e via, e via, e così Skeeen entra e nel frattempo dice: “un buco è un buco e non ci si tira mica indietro nei fine settimana di questa città… e via, e via, e via, ecco, e anche questa merda di locale, poi, mica tanto è lontano dalle luride saune che frequento: è soltanto un ennesimo buco, un altro locale da frequentare, un altro nuovo fine settimana da passare all’infinito anche se, proprio per il suo senso immanente di ogni atto che all’interno si compie, non può avere mai fine” condividendo così, quasi per intero – con le estreme forze che gli rimangono – una specialissima amicanza fratella, uno spasimo fecale e sessuale con tutte le altre sventure smaniose che allegramente popolano questo antro disarmonico, questa inquieta rottura con tutto il mondo esterno, questo locale acerrimo.

A dire il vero, nello stato di ebbrezza da Ceres assai avanzata nel quale Skeeen si trova, ad entrare a El Horno prova solamente un disagio più che passeggero e già quasi arriva a sorprendersi e arriva a confidarsi mentalmente cose che non gli sarebbe mai venute in testa, normalmente, di rivelare nemmeno al suo più intimo e letale amico, a maggior ragione a una persona che in un certo senso non conosce affatto, anche se, provando per questa un desiderio vivissimo e cercando quindi di corteggiarla già appena entrato, si mette largamente, in mancanza di altri argomenti, a parlare di sé… e via, e via, e via, e quello ad ascoltarlo distratto e silenzioso e quello a raccogliere tutti i suoi storpi discorsi che inaridiscono, come una condanna, il corpo e il pensiero e i rapporti con il prossimo...

acquistatelo qui
https://www.ebooks.gaiaitalia.com

l’argomento della persona e l’esperienza egoica


scrittura-creativa1

Questo breve scritto incomincia e finisce con l’argomento della persona. La persona che dovrebbe essere lo scrittore.

Noi viviamo in un mondo davvero basso: per adattarsi ad esso, il fanciullo che che dovrebbe essere lo scrittore che è in noi abdica a tutta quanta la sua estasi [quasi Mallarmé].

Una persona, in questo caso scrittore, è quell’io o quel voi, quell’egli o quell’essa da cui, essa stessa oggetto, viene sperimentata.

Scrivendo tento di esprimere qualcosa a qualcuno [e allora faccio comunicazione]

Scrivendo sto ricomponendo gli elementi di qualche caleidoscopico mosaico interno [e allora faccio invenzione]

Scrivendo cerco di svelare i caratteri di nuove possibilità che emergono [e allora faccio rivelazione]

Mi sorprendo del fatto che appaia qualcosa che non esisteva prima, e che queste parole non ci fossero prima che io le scrivessi. A questo punto ci stiamo accostando all’esperienza della creazione dal nulla.

Sono in grado, oggi, gli scrittori d’essere persona?

Noi tutti siamo esseri potenzialmente scrittori fra i quali c’è il nulla, non c’è alcunché che ci unisca, nessuna cosa. Noi scriviamo. Ciò che c’è veramente fra di noi non si può esprimere con il nome di cose che ci si frappongono. Il fra è in sé un niente.

Gli scrittori non si parlano. Si citano. Autocitano. E precipitano.

Così è che tutti gli esseri umani, o solo alcuni, o nessuno siano delle scrittori.

Desidero definire lo scrittore in un modo doppio: in termini di esperienza come un centro di orientamento dell’universo prossimo [cioè a dire l’altro]; in termini di comportamento come l’origine degli atti [cioè a dire l’essere interni solo a se stessi].

Si può vedere la gente dormire, mangiare, camminare e parlare ecc. in modi abbastanza prevedibili. Per gli scrittori non dobbiamo accontentarci solo di una osservazione di questo genere. L’osservazione del comportamento va estesa per mezzo di interferenze e attriti che ne vanificano qualunque esperienza di rapporto interpersonale. Se non quando può servire ad incensare il proprio nuovo scritto.

Senza il miracolo della scrittura non sarebbe accaduto nulla. Nulla potrebbe accadere senza la pagina scritta. Ma nulla accade anche in presenza di uno scrittore.

Se togliessimo di mezzo ogni cosa, tutte le vesti, le maschere, le stampelle, le truccature, e i progetti in comune, e quei giochi che forniscono il pretesto per delle circostanze camuffate da incontri a livello umano, se potessimo incontrarci veramente, se si verificasse un simile evento, una felice coincidenza tra scrittori, cosa ci separerebbe allora? Non più uno scrittore, certo. Una persona che saprebbe relazionarsi.

Se disegno una forma su di un pezzo di carta, compio un atto che scelgo in base all’esperienza della mia situazione; cosa ho esperienza di fare, e qual è la mia interazione col Mondo fuori dalla mia esperienza di scrittura? Nulla.

Questo equivale a dire che il fondamento dello scrittore è il rapporto che c’è con se stesso; questo rapporto è l’“è”, l’essere di tutto, e l’essere di tutto è esso stesso un nulla.

Questi signori dell’esperienza vivono in mondi totalmente irrelati di loro privata composizione? Le scritture che li uniscono, sono al contempo altrettante scritturealtrettante finzioni che li separano?

Questa regione dello scrivere, la regione del nulla, del silenzio dei silenzi, è essa stessa l’origine di ogni abbandono della realtà: noi dimentichiamo che siamo là interamente ed in ogni momento. E da là non ci rapportiamo con nessuno. Se non con noi stessi o con chi a noi stessi assomiglia.

Una luce pre-esistente, un pre-suono, una pre-forma, non sono nulla se non correlate con chi sta al di fuori, eppure costituiscono l’origine di tutte le cose create da chi scrive.

Un’esperienza ancorata all’identità, alla propria identità, vincolata allo spazio tempo del proprio essere.

Tutto un silenzio che precede la formazione e viene espresso dentro e attraverso il linguaggio, e che non può essere espresso dal linguaggio; ma il linguaggio può essere usato per dire cosa esso non sa dire, tramite i suoi interstizi, le sue vacuità e deficienze, tramite la struttura di parole, sintassi, suoni, e significati. Senza, per questo, doverosamente, doversi rapportare.

Modulazioni di tono e di volume che delineano una forma precisa ma senza fornire le informazioni ché mancanti negli spazi tra le linee e davvero sarebbe grave errore scambiare le linee per la forma, o la forma con ciò che essa rappresenta [quasi Jole De Sanna].

Può uno scrittore essere veramente se stesso con un altro uomo o con una donna?

Invito a cercare il motivo di questo stato di confusione in Heidegger: “Stanno giocando un gioco / Stanno giocando a non giocare un gioco. / Se mostro loro che li vedo giocare, / infrangerò le regole e mi puniranno. / Devo giocare al loro gioco / di non vedere che vedo il gioco”.

Prima di essere in condizioni di poter porre un interrogativo ottimistico come il seguente: “In cosa consiste un rapporto di interscambio” bisogna che ci chiediamo se un rapporto tra scrittori e persone sia possibile; o, meglio, se, nella nostra situazione attuale, sono possibili delle persone [dato che potenzialmente tutti siamo labilmente scrittori]… e tuttavia nel far uso di un vocabolo, qualunque esso sia, una lettera, un suono, OM, non si può prestare un suono al silenzio, o nominare l’innominabile.

Ognuno deve rifarsi, a questo punto, alla propria esperienza personale. La mia esperienza ed il mio agire si attuano su di un piano sociale di reciproca influenza e di interazione.

Noi siamo separati e congiunti gli uni agli altri fisicamente: le persone, in quanto esseri dotati di un corpo, si rapportano reciprocamente nello spazio; e inoltre siamo divisi ed uniti dai nostri diversi punti di vista, dalla diversità di educazione, di ambiente, di organizzazione sociale, dalla adesione a gruppi, associazioni, ideologie, da interessi economico-sociali di classe, e dai diversi temperamenti.

Noi non siamo un gran che interessati alle esperienze del “colmare una lacuna” di una teoria o di una conoscenza, del chiudere una falla, del riempire uno spazio vuoto: “non si tratta di immettere qualcosa nel nulla, ma di creare qualcosa dal nulla, ex nihilo. Il nulla da cui emerge la creazione, nella sua maggiore purezza, non è uno spazio vuoto, od un vuoto lasso di tempo”.

Noi esperimentiamo gli oggetti della nostra esperienza come là fuori nel mondo; l’origine della nostra esperienza sembra situarsi al di fuori di noi stessi. Nella nostra alienazione “normale” dall’essere, una persona che sia pericolosamente consapevole del non-essere di ciò che noi scambiamo per essere (gli pseudo-bisogni, gli pseudo-valori, le pseudo-realtà di quell’endemico inganno delle opinioni sulla vita, la morte ecc.) ci fornisce, nell’epoca in cui viviamo, quegli atti creativi che noi disprezziamo e di cui abbiamo estremo bisogno.

L’origine delle immagini, delle forme, dei suoni, viene da noi sperimentata come interna e tuttavia al di là di noi stessi: i colori provengono da una fonte di pre-luce in sé oscura, i suoni dal silenzio, le forme dall’informe.

Ma se potessimo lasciar perdere tutte le esigenze e le contingenze, e rivelarci reciprocamente la nostra nuda presenza? Se gli scrittori divenissero persone ed imparassero a rapportarsi?

Una situazione che si fa comica: cresce sempre più l’interesse per la comunicazione in sé, e diminuisce l’interesse a comunicare.

La creazione è stata giudicata impossibile persino a Dio, ma noi ci occupiamo di miracoli. Dobbiamo udire, come dice Lorca, la musica delle chitarre di Braque.

Lo scrittore, insomma, non è essenzialmente impegnato nella scoperta, nella produzione, o anche nella comunicazione e nell’invenzione di ciò che trova: il suo atto è quello di permettere all’essere di emergere dal non-essere.

Lo scrittore d’oggi vive uno stato di normale alienazione dell’essere interiore a favore di una esteriorità falsa ed oscura. Almeno a me. Che scrittore non sono. Scrivente sì. E persona.

 

 

 

 

©bo summer’s 2014
©gaiaitalia.com 2014
diritti riservati
riproduzione vietata

Fabio Galli: "L'editoria italiana non ha futuro"

venerdì 30 giugno 2023

leggere secondo me (intervista di Marinella Zetti)


LEGGERE, SECONDO FABIO GALLI

 

fabio-galli
Fabio Galli, ma nel web è più noto come Bo Summer’s, è un lettore molto particolare. Segue un percorso personale ed è appassionato di scrittura sperimentale. Recentemente ha aperto a Mortara Biblio di Bo una libreria che riflette perfettamente le sue scelte.

 

D. Quando vuoi rilassarti preferisci: guardare la televisione, andare al cinema o leggere un libro?
R. Aggiungerei, se posso, ascoltare musica. Normalmente, quando leggo, ascolto musica. E questo è al primo posto. Preferisco il teatro al cinema e questo è al secondo posto. La televisione spesso è accesa su programmi con cartoni animati per bambini che seguo a tratti e questo, nella mia classifica arriva all'ultimo posto, ma nel mezzo ci sono altre cose che mi rilassano, non le dico perché non sono in elenco e poco rilevanti.

D. Dove leggi abitualmente: in poltrona, a letto, alla scrivania? Se potessi scegliere, quale sarebbe il tuo luogo ideale per la lettura?
R. Leggo dove mi capita e non ho mai immaginato d'avere un luogo ideale per la lettura. Ecco: non riesco a leggere quando sono in mezzo alla gente, perché mi distraggo guardandomi attorno.

D. Nel suo famoso Decalogo, al terzo posto, Daniel Pennac sancisce il diritto del lettore a “non finire il libro”: tu hai seguito questo consiglio? Se sì, con quale libro e perché?
R. A parte quello che dice Pennac, non ricordo di aver mai terminato un libro. Nemmeno d'averlo iniziato. Apro il libro come un oracolo, a caso, non partendo quasi mai dall'inizio. Spesso l'incipit è l'inganno per il lettore. Ne leggo più di uno alla volta, contemporaneamente, cominciando da dove capita e non seguendone la struttura lineare durante la lettura. Non bado molto alla trama, mi ci perdo. Mi interessa la scrittura, lo stile, il fiato delle frasi, il respiro delle parole. Potrei leggermi anche l'elenco telefonico, se fosse ben scritto.

D. Qual è il libro -o i libri- che più hai amato? E quello o quelli che si sono rivelati una delusione?
R. Dato che amo la scrittura e non ciò che mi racconta un libro, se devo parlare di narrativa, poiché mi par di capire sia questo il tema, preferisco le trame articolate di Anna Maria Ortese ma anche la scrittura baroccheggiante di Jean Genet, alcune impennate linguistiche di Aldo Busi ma ciò che mi ha avvicinato maggiormente alla voglia di provare a scrivere in prosa -vengo dalla frequentazione della scrittura poetica- è stata la scrittura di William Burroughs.

D. Cosa cerchi in un libro? Cosa attira di più la tua attenzione: la copertina, il titolo, l’autore, la bandella con la storia?
R. Della copertina, nulla m'importa. So che alcuni baldi Editori che si stanno rinnovando la facciata – sto buono, non nomino, ho già troppi guai – puntano molto sulle copertine. Sinceramente non me ne importa proprio nulla. Scelgo i libri in base a un mio percorso di lettura. Non so nemmeno quale ci sia in classifica, tra i libri più venduti. So per certo che il mio non c'è.

D. Quale argomento ti appassiona e, secondo te, viene poco considerato dagli editori italiani?
R. Non interessandomi le storie, non c'è un argomento che mi appassioni. Su cosa effettivamente gli Editori italiani non prendono in considerazione e invece continuano a proporre, dovremmo tenere una conferenza. Ogni Editore ormai è specializzato in qualcosa. Parlo di piccola, media e grande editoria, ovviamente. Non prendono in considerazione la scrittura sperimentale, che non è un argomento, lo so da me ma è una cosa che mi tocca da vicino. Poi, un piccolo grande Editore che ha avuto il coraggio di rischiare con la mia scrittura, l'ho trovato quindi tutto è possibile.

D. E per finire cosa pensi degli e-book? Credi che potranno sostituire i libri cartacei?
R. Due cose completamente differenti. L'uno mai sostituirà l'altro. Due modi differenti di leggere. Io amo la polvere dei libri ma è una cosa mia. C'è chi preferisce gli e-book per il prezzo o perché non occupano spazio. Se può bastare per sceglierli, si accomodino. So di alcuni “lettori forti”, quelli che comprano molti libri, che acquistano e-book prima di avvicinarsi al cartaceo per vedere se ne vale la pena. Non dimentichiamo i formati pdf che ormai spopolano e sono spesso completamente gratuiti. Anche molti e-book lo sono. Bene, non diamo più nessun valore al prodotto culturale: solo musica fluida (scaricata da internet), concerti (possibilmente gratuiti), spettacoli teatrali (non a pagamento), libri (senza costo). Se nulla deve valere più nulla, che nulla valga niente. Io opterei per le fotocopie a questo punto. Passiamoci tutti delle gran fotocopie e risparmiamo sulla cultura.
Via, libero scambio in libero Mondo, alé. Scusa lo sfogo. Sono uscito dal seminato. Torniamo nei ranghi.

D. Li utilizzi? Secondo te, quali sono i loro pregi e i loro difetti?
R. Non li utilizzo, anche se ho pubblicato un e-book -in realtà anche una raccolta di racconti in formato pdf in collaborazione con un altro autore- nemmeno so come siano fatti. O meglio, lo so ma non voglio saperlo.

Chi è Fabio Galli
Poeta, narratore, nato a Vigevano, Fabio Galli è stato redattore della rivista Poesia (Crocetti Editore) e ha lavorato come redattore esterno per il gruppo Elemond (tutto questo nel secolo passato). Giornalista (ma poco poco).
Con lo pseudonimo di Bo Summer's, attualmente collabora, in qualità di blogger, al quotidiano digitale GaiaItalia.com, dove alla sezione cultura ha una sua rubrica nella quale prosegue il suo lavoro di ricerca sulla scrittura. Recentemente l'autore ha pubblicato, in formato e-book, due libri: "Storie", una raccolta di racconti di Bo Summer's e Soufiane El Khayat, e il romanzo sperimentale "#ElHorno", alla stesura del quale ha lavorato per dieci anni, frutto di una lunga ricerca stilistica caratterizzata dalla destrutturazione del testo attraverso l'utilizzo della tecnica del cut-up, cara a Tristan Tzara e mutuata in seguito da William Burroughs.
Come Fabio Galli Ha pubblicato: Poesie su Antologia "Trame della parola" a cura di Antonio Spagnuolo, edizioni Tracce, 1985;"Impura", edizioni Tracce, collana I campi magnetici, 1986 "Di una lettura di The Waste Land", breve saggio sul poema di T.S. Eliot apparso su "Post Scriptum", aprile 1988, ripubblicato da gaiaitalia.com; "Caròla", Crocetti editore, 1992 "Balli e canti", Pulcinoelefante editore, 1993; "Melancholia" - versione da Paul Verlaine, sezione d'apertura dei Poèmes Saturniens - edizioni L'Obliquo, 1992 (con serigrafia fuori testo di Bonomo Faita), ripubblicata da gaiaitalia.com con un testo introduttivo sulla traduzione; "Prima, nella storia, ancora", Bandecchi e Vivaldi editore, 1995 "A Marino per Moretti", quaderno collettivo, Casa Moretti, 2000.

 

 

 


Nel nome del plagio, Aldo Braibanti. Un ricordo


Aldo Braibanti

1968. Con Aldo Braibanti finì alla sbarra l’omosessualità. Venne condannato a nove anni di reclusione, poi ridotti a quattro, e rinchiuso a Regina Coeli, mentre il suo compagno finiva in manicomio.

In carcere ci restò per due lunghi due anni. Vi uscì il 5 dicembre 1969. Accusato di essere un “ladro d’anime”, un “diabolico invasore di spiriti”, la “reincarnazione del demonio”, divenne il capro espiatorio di un’Italia ancorata al passato, terrorizzata dai forti cambiamenti sociali che stavano all’orizzonte, desiderosa di reprimere col pugno di ferro qualunque turbativa all’ordine morale e sessuale pre-costituito. Erano gli anni in cui l’essere apertamente gay suonava scandaloso, intollerabile. Si rischiavano i rigori della legge [come era accaduto anche a Pasolini].

Il reato di plagio, inserito in età fascista nel codice penale e mai applicato prima, presente in nessun codice penale del mondo, e mai più applicato dopo, sarebbe stato cancellato dal nostro ordinamento solo nel 1981.

L’unico, nella storia della Repubblica, a essere condannato per il reato di plagio, inteso come la riduzione in proprio potere «e in totale stato di soggezione» di un’altra persona, come recitava la legge ereditata dal Codice Rocco dell’Italia fascista. Venne incarcerato e processato in quanto omosessuale, non c’è altra spiegazione, e il giudizio cui fu sottoposto rimane come il segno di un’epoca, che in ogni caso fu dichiarato incostituzionale solo nel 1981.

Studente universitario a Firenze, partigiano dal 1940 con Giustizia e Libertà e poi nel Pci, fu arrestato due volte e torturato [ironia della sorte: questo gli valse come sconto di pena nell’assurdo processo]. Era un dirigente di primo piano del Pci, ma presto abbandonò la politica attiva, radunando intorno a sé, tra Roma a Castell’Arquato, intellettuali e artisti, da Sylvano Bussotti all’allora giovanissimo Marco Bellocchio, con cui lavorò alla fondazione dei memorabili «Quaderni Piacentini», la rivista di punta nella cultura del ‘68.

Studioso di filosofia, poeta, artista, si definiva un libero pensatore; durante il processo era per i media «il professore», ma non ha mai insegnato. Fu un animatore culturale, questo sì, con un passato politico importante.

Studiava le formiche e si dedicava ai collages, scriveva opere teatrali e sceneggiature, si misurò col cinema sperimentale. Intellettuale discreto e multiforme, era noto in una cerchia relativamente ristretta.

La sua fu una vicenda particolare e complessa, proiettata sulla gogna pubblica da un assurdo intrico di famiglia che non riguardava lui, ma il compagno Giovanni Sanfratello il cui padre sporse denuncia a Braibanti nel ‘64, alla Procura di Roma, accusandolo, come già detto, di plagio. Era l’unica via giudiziaria possibile per poter “recuparare” il figlio, dato che Giovanni aveva 24 anni, e dunque essendo maggiorenne poteva fare, almeno in teoria, quel che gli pareva.

I due vivevano insieme da tempo, dopo essersi incontrati nel laboratorio artistico «Torre Farnese» che Braibanti aveva nel suo paese del Piacentino. In rotta con la famiglia molto tradizionalista, il ragazzo si era trasferito a Roma col suo amore, apertamente e senza nascondersi. Oggi sarebbero una coppia gay come tante, probabilmente presa a bastonate all’uscita di un bar, allora, invece, fu avviata una lunga inchiesta, mentre il povero Giovanni Sanfratello veniva letteralmente prelevato dai famigliari e rinchiuso per due anni in manicomio. Fu una vicenda terribilmente grottesca. Ne sarebbe uscito, dopo una terapia a base di elettochoc, con il divieto di leggere libri che non avessero meno di cent’anni.

Intanto l’inchiesta procedeva. Nel ‘67 Braibanti venne arrestato, e il 14 luglio 1968 arrivò la sentenza: nove anni di carcere per «plagio», ridotti a sette per i meriti partigiani, e a due un anno dopo, in Corte d’Appello. Giovanni Sanfratello aveva tentato in ogni modo, durante i processi, di scagionare l’amico, ma ovviamente non era stato preso in considerazione. Era un «plagiato», dunque non credibile. Pare un film. Un’ottima trama. Ma si sa che la realtà supera la finzione.
In sua difesa insorse un movimento d’opinione per la cancellazione di un reato assurdo capeggiato da Moravia, Eco, Pasolini e Pannella: l’omosessualità dichiarata nel ’68 era qualcosa di molto imbarazzante perché era la rivoluzione. E quella rivoluzione fu la macchia, lo fu durante il processo, e lo restò per molti anni ancora, quando tornato libero Aldo Braibanti, vittima esemplare di un’Italia ferocemente bigotta, si rifugiò nel suo torrione e riprese il lavoro di sempre.
Scomparso pochi giorni fa, a 92 anni.Non inseguiva il successo. Nel 2006 gli venne concesso il piccolo assegno mensile previsto dalla «legge Bacchelli» per il sostengo di personalità di alto profilo culturale in condizioni di estremo bisogno. Se di un risarcimento si trattava, arrivò tardi. Come spesso accade.

In molti ne hanno scritto in questi giorni, e meglio di me. Io non lo avrei fatto se non mi fosse stato amorevolmente chiesto. Io non ho molto da dire su questa vicenda, si racconta da sola. Ho voluto semplicemente narrarla per i pochi che non sanno. A futura memoria.

 

 

 

 

©bo summer’s 2014
©gaiaitalia.com 2014
diritti riservati
riproduzione vietata