sabato 15 luglio 2023

Melancholia di Paul Verlaine, il testo


Paul Verlaine

 

 

 

 

 

 

I Saggi d’altritempi, che valgon quanto questi,
credettero, ed è un punto ancor dei più contesti,
leggere in cielo di fortune come di disastri
e che ogni anima legata fosse ad uno degli astri.
(S’è molto riso, non pensando che sovente
il ridere è ridicolo quanto il ridente,
di questo spiego sul mistero notturno.)
Ora coloro che son nati sotto il segno di Saturno,
selvaggio pianeta, caro ai negromanti,
hanno, fra tutti, secondo scrittura d’anni avanti,
buona parte di sfortuna e buna parte di bile.
L’immaginazione, inquieta e vulnerabile,
viene a render nullo, in loro, lo sforzo di Ragione.
Nelle loro vene, il sangue, sottile come velena pozione,
simile a lava brucia, e raro, scorre e scolla,
anticando il loro triste Ideale che si crolla.
Così da soffrire hanno i Saturniani e in modi tali
morire, ammettendo che siano mortali,
il loro piano di vita, in ogni linea si designa
per la logica d’una Influenza maligna.

Rassegnazione

Da piccolo, andavo sognando Ko-Hinnor,
sontuosià persiana e papaple,
presenze eliogabale e sardanepale!

Il mio desìo creava sotto i tetti d’or,
tra i profumi, al suono di musiche,
harem senza fine, paradisèe fisiche!

Oggi, più calmo e non meno ardente,
ma sapendo la vita che ci fa piegare,
ho dovuto la mia bella follia refrenare,
rassegnandomi un bel niente.

Sia! Il grandioso scappa al mio dente,
ma, vergogna dell’amabile e vergogna del vile!
Odio per sempre la graziosa donna-monile,
la rima assonante e l’amico prudente.

Nevermore

Ricordo, ricordo, che vuoi da me? L’autunno
faceva volare il tordo attraverso l’aeraggio a-tono
e il sole dardava un raggio mono-tono
nel bosco ingiallendo ove il gelo  de-tono.

Noi eravamo da solo a sola e camminavamo sognando,
lei ed io, i capelli e i pensieri al vento lasciando.
A me, improvviso, il suo sguardo voltando:
“quale fu il tuo più bel dì?” con voce dorata parlando,

la sua voce dolce e sonora, timbro angelico e fresco.
Discretamente risposi con un sorriso di pesco,
e le sue mani bianche baciai devotamente.

Ah! i primi fiori quanto sono profumati
e come risuona d’echi dolcemente
il primo sì che esce dai labbri amati!

Dopo tre anni

Avendo spinta la porta stretta che barcolla,
ho passeggiato nel piccolo giardino
schiarito dolcemente dal sole del mattino,
paiettante d’un’umida scintilla ogni corolla.

Niente è cambiato. Ho tutto riveduto: l’umile riparamento
di selvatico viticcio con le sedie di giunco…
Il getto d’acqua fa sempre il suo argentino mormorio
e il vecchio pioppo il suo sempreterno lamento.

Le rose come sempre palpitano; sempre ripetenti,
i grandi gigli orgogliosi si muovono ai venti.
Ogni allodola che va e viene m’è già sembrata.

Egualmente ho ritrovato in piedi la Valléda
ove il gesso si scaglia alla via cominciata
gracile, fra l’odore insipido di reseda.

Voto

Ah! intimi colloqui! Le prime amate!
L’oro dei capelli, l’azzurro d’occhi, di carni il fiore
e poi, fra l’odore dei corpi giovani e d’amore,
la spontaneità di carezze timorate!

Sono assai lontane tutte queste allegrezze
e tutti questi candori! ahimè! tutto verso
la primavera di rammarico si fugge il nero inverno riverso
della mia noia, dei miei disgusti, delle mie tristezze!

Ora eccomi solo, taciturno e solo,
mesto e disperato, più freddo d’un avolo,
e simile ad un povero senza sorella nella sua orfanezza.

Oh la danna dall’amore caliente e carezzante,
dolce, pensierosa e bruna, e mai in mentale arretratezza,
e che talvolta vi bacia in fronte, come un infante!

Stanchezza

A batallas de amor campo de pluma.
Gongora

Dolcezza, dolcezza, dolcezza!
Placa un po’ questi febbrili trasporti, mia fascinante.
Pure al colmo del piacimento, vedi, l’amante,
della sorella deve avere la pacifica rilassatezza.

Sii languida, rendi la tua carezza sonnale,
ben eguali i tuoi sospiri e il tuo tranquillo guardare.
Già, la stretta gelosa e l’ossessivo spasmare
non valgono un lungo bacio, pur mentale!

Mi dici, mia bimba, nel tuo caro cuore d’oro,
la selvaggia passione dà dell’olifante il sonoro!…
lasciala suonare a suo piacere, l’affamata!

Poni la tua fronte sulla mia e nelle mie le tue mani
e promettimi che scorderai domani,
e piangiamo fino a che sarà giorno, o piccola infuocata!

Il mio sogno familiare

Sovente faccio questo sogno strano e penetrante
d’una donna sconosciuta, e che amo ricambiato,
e che non è mai la stessa ad ogni reincontrato
sogno ma neppure altra, e mi comprende e m’è amante.

Poiché ella mi capisce, il mio cuore, trasparente
soltanto per lei, eh già!, cessa d’essere tremore
per lei, della mia allibita fronte il sudore
lei sola sa rinfrescare, piangente.

È bruna, bionda o rossa? Io l’ignoro.
Il suo nome? Mi ricordo che è dolce e sonoro
come quello degli amati che la vita scaccia.

Pari a quello delle statue è il suo sguardo,
e, lontana e calma, grave, la sua voce abbraccia
morte voci nel pieno del riguardo.

A una donna

A voi questi versi per la grazia consolante
dei vostri grandi occhi dove ride e piange un grande sogno,
per l’anima vostra pura e buona, a voi – senza bisogno –,
questi versi dalla mia disperazione affondante.

Ahimè, l’incubo schifoso che mi bazzica braccante
non ha tregua e va furioso, folle, geloso,
si moltiplica quale coorte di lupi – manto peloso –
e si lega alla mia sorte sanguinante!

Oh! soffro, soffro orribilmente affronto
e il primo gemere del primo uomo cacciato dal Paradiso,
non è che un’egloga al mio in confronto!

E le premure che voi avete fanno buon viso
a rondini su di un cielo nel mezzogiorno passato
cara! – da un bel giorno di settembre dolciato.

L’angoscia

Natura, niente di te mi commuove, né gli spanti
campi, né l’eco vermiglia dei pastorali
siciliani, né le magne aurorali,
né la solennità dolente dei calanti.

Io rido dell’Arte, rido pure dell’Uomo, dei cantabili,
dei versi, dei templi greci e delle torri a spirali
che slanciano nel cielo vuoto le cattedrali,
e vedo con lo stesso occhio buono e non amabili.

Non credo in Dio, abiuro e rinnego,
ogni pensamento, e in quanto al vecchio diniego,
l’Amore, vorrei che non più se n’andasse a dire.

Tedio di vivere, avente paura di morire, eguale
al vascello perduto nel gioco del fluire e rifluire
l’anima mia salpa per naufragi nel male.

Di Paul Verlaine (Metz, 1844, – Parigi, 1896) uno dei massimi poeti della letteratura francese, ci piace di ricordare Poèmes saturniens (1886), Fétes galantes (1869), La  bonne chanson (1870), Romances sans parole (1874) e Sagesse (1881). In questa versione, a fatica, s’è tentato di ricostruire, non senza cedimenti, un certo linguaggio.

 

 

 

 

©Bo Summer’s 2014
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che rovesciato s'ascoltasse


Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

[Minime Anime: Qualcuno mi ha chiesto di poterlo leggere, quel testo. Pochi, invero, ma si sa che a me basta così.

La stesura originale apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista "Tracce, trimestrale di scrittura multimediale", anno V, Luglio/Agosto 1986. Qui se ne presenta una versione con non poche variazioni perché il tempo è passato ed è giusto così.]

mercoledì 12 luglio 2023

Yukio Mishima o dell’estrema santificazione della sessualità


Yukio Mishima 06

Quando pensiamo all’altrui felicità, affidiamo agli altri, e sogniamo a nostra insaputa, una nuova forma di realizzazione dei nostri desideri e ciò può renderci più egoisti di quando pensiamo alla nostra felicità personale. (da Colori proibiti)

 

Scrittoredrammaturgosaggistapoetapatriota e paramilitare giapponese. Ma, anche, aggiungerei, intellettuale a tutto tondo, scrittore, poeta, sceneggiatore, attore, regista e politico. E poi, ancora, sportivo e dandy. Praticava  kendo e  iaido ed aveva uno spiccato e narcisistico culto del corpo.

Non so se ho citato tutto ma l’idea del personaggio parrebbe abbastanza completata.

La nonna, appena dimessa dal più grande ospedale psichiatrico di Tokyo, lo sottrae sin da subito alle cure della madre, una geisha sposata dal figlio a Las Vegas.

E così, nonna e madre, creano un giro di prostituzione, con la copertura di spettacoli teatrali Kabuki.

Cresce fra maschere, trucco pesante, prostitute e prostituti, fra cerimonie religiose shinto e bestemmie pronunciate in improbabile francese.

Ancora mi chiedo se sia giusto ridurre la vita di un essere umano ad una sterile etichetta e se questa distanza che si pone, per poca conoscenza, ci può permettere davvero di metterci in gioco e di imparare.Yukio Mishima 03

Ci si avvicina al bersaglio passando ben oltre il personaggio e trovando l’uomo.

Conosciamo la sua morte avvenuta in diretta televisiva nel 1970 all’età di quarantacinque anni, data studiata e ponderata accuratamente, con il suicidiorituale (seppuku) durante l’occupazione simbolica del Ministero della difesa.

Suggellò la conclusione insieme della sua vita e della sua vicenda letteraria.

Dagli ambienti religiosi dov’era situato originariamente, l’amore nei confronti d’un compagno dello stesso sesso si trasferì in ambito militare, nella classe guerriera dunque, era consuetudine per un giovane samurai essere apprendista di vita d’un uomo più anziano ed esperto: il giovane sarebbe stato anche l’amante dell’uomo più grande per molti anni, fino alla conclusione del suo apprendistato.

Shudo, una tradizione tenuta in gran considerazione dalla casta guerriera.

E poi, insomma, non tutti sanno che i giovani attori maschi, i kabuki, molto spesso lavoravano anche come prostituti quando non erano impegnati in teatro, sempre protetti da persone influenti e benestanti che arrivavano anche a competere ferocemente tra loro per poterne comprare i favori.

Yukio Mishima 05Prostituzione maschile che serviva una clientela a sua volta esclusivamente maschile, in bordelli o case da tè specializzate in tali servizi, chiamata kagema.

Di solito, il prostituto, veniva pagato di più di una prostituta donna, pur mantenendo uno status del tutto equivalente.

Molti di loro erano stati venduti da bambini, in qualità di servitori, ai bordelli o ai teatri, e generalmente rimanevano sotto contratto decennale.

Il kagema poteva a sua volta suddividersi in yaro (giovane uomo), wakashū (adolescente) e onnagata (imitatori del sesso femminile, di cuiKazuo Onho ne fu un mai dimenticato, per me,  rappresentante).

Kagema, un business fiorente fino alla metà dell’800 ma il termine continua ad esser utilizzato oggi nello slang omosessuale giapponese.

Il carisma di Mishima e l’impatto che ha avuto sono così grandi che ancora si sente spesso soltanto etichettarlo, negativamente di solito, come un estremista di destra, tacciato di “fascismo” mentre in realtà interpretava una personale visione del nazionalismo nipponico, in chiave nostalgica, un conservatore decadente come lo definì Alberto Moravia che lo aveva incontrato nella sua casa in stile occidentale in un sobborgo di Tokyo.

Yukio Mishima 04

 

Si autodefiniva apolitico e antipolitico, fu definito un buffone, un folle, un omosessuale e altro ancora.

 

Il contesto: siamo negli anni ’60 e il Giappone sopravvive alla sua era post bellica con i “regali” ricevuti dalla guerra: la costituzione giapponese e l’orrore delle bombe atomiche.

Mishima si muove nel teatro reale di un Giappone costretto a piegarsi all’economia occidentale, adattandosi, così, alle leggi di un Mondo che si muove verso il capitalismo e smarrisce l’origine legata a valori cavallereschi quale l’onore, la tradizione, la ricerca del bello in quanto buono, giusto, piacevole.

Mutamento che vide i suoi albori l’8 luglio 1853 quando un anziano Commodore, Mattew Perry, alla guida delle navi “nere”, ancorò nel porto di Edo-Tokyo e impose alla nazione di aprire le porte ad americani ansiosi di penetrare in una nazione ricca.

L’omosessualità era un modo onorevole di vivere tra i leader militari e/o religiosi del Paese, ed era comune all’interno della cultura dei samurai. E Mishima era una samurai.

Un guerriero antimodernista, un samurai fuori tempo massimo che fondò una sorta di guardia pretoriana/movimento politico detto  Tate no Kai (Società degli scudi).

Yukio Mishima 02

La sete di successo lo invoglia a scrivere pregevoli libri come Colori proibitiMusicaIl padiglione d’oro e varie raccolte di racconti, altri composti invece soltanto per potersi procurare i soldi con cui pagare, molto probabilmente, i suoi prostituti come Sete d’amoreStella meravigliosaUna virtù vacillante.

Prima dell’Età Moderna non vi erano delle leggi che regolassero in alcun modo il comportamento sessuale. Né lo Shintoismo né tanto meno l’interpretazione giapponese del Confucianesimo hanno mai contenuto alcun divieto al riguardo. Le relazioni tra adulti consenzienti dello stesso sesso sono perfettamente legali, ma alcune prefetture fissano un’età di consenso maggiore rispetto a quella richiesta per le attività sessuali etero.  Questo. Contrariamente a quanto accade in Occidente, in Giappone la sessualità non viene intesa eminentemente in termini di morale, bensì di status, di responsabilità sociale.

Esiste una legge che proibisce la discriminazione sul lavoro basata sull’identità sessuale, anche se non estende la protezione alla discriminazione basata su un più ampio concetto di orientamento sessuale (protegge in tal modo molto più la persona transessuale piuttosto che quella omosessuale).

Le sue preferenze sessuali non erano un segreto e le sue immagini più erotiche ben le rappresentano.

Vorrei dire che, noi occidentali, dovremmo essere stati ben educati, nel senso che siamo stati tirati su aPlatone e  Simposio e ci dovrebbe essere stato insegnato a capire che tutti gli esseri umani sono un insieme di maschio e femmina.  Dovremmo essere ben istruiti. Dovremmo.

Basta soltanto leggere l’opera di Mishima per saperlo, chi fosse, nessuno stupore.

In modo particolare il suo Confessioni di una maschera e basta soltanto conoscere un po’ della tradizione samurai, essere consapevoli che, come nell’antica Grecia, c’era una lunga e onorabile tradizione di relazioni omosessuali tra uomini anziani e più giovani.

Tutto questo è un interminabile, ma personale mio modo di affrontare l’argomento.

Ma intanto vi dico che, dopo aver tentato per l’ennesima volta di togliersi la vita per esser stato giudicato non idoneo alla visita militare, Mishima entra nel mondo intellettuale di sinistra, fingendo di essere un comunista, logorroico e populista.

Ma, in primo luogo, si può dire che c’è un romanticismo particolarmente ridondante sul tema della Seconda Guerra Mondiale e il Giappone. Qui torna utile il parallelismo con il nostro Gabriele D’Annunzio (altro personaggio, da questo punto di vista).

Non mi risulta che il Giappone abbia mai legiferato in modo esplicitamente anti-omosessuale, ha invece alcune leggi che cercano di tutelare i cittadini che lo sono: inoltre esistono delle tutele legali per le persone transessuali.

Per comprendere meglio il pensiero di Mishima, si potrebbe rileggere Confessioni di una maschera, poiché lì c’è una scena che, secondo me, è fondamentale per rileggere la sua sessualità, in cui il narratore, lo stesso Autore – effettivamente è parte della sua autobiografia – osserva da lontano come la città di Tokyo va in fiamme, dopo essere stata bombardata dai B-29 dell’aeronautica statunitense.

La descrizione della sua reazione a questo “spettacolo” – e cioè l’uccisione di decine di migliaia di cittadini di Tokyo, uomini, donne e bambini – è, per lui come se si trattasse della meraviglia di giganti fuochi d’artificio e non di un feroce attacco dall’alto, come fosse un qualcosa di epico e maestosamente colorato.

Ci sarebbe molto, molto di più da dire su questo argomento, su questi immaginifici fuochi pirotecnici anche a livello erotico, proprio.

Mishima tocca un tema tabù, secondo me, la morte nel sesso, cui pochissime persone hanno mai scelto di fare allusione.

Ha, così, come strappato via la tenda, il velo d’oscuramento. Ma non se ne parla volentieri. Mi pare.

Date solo il diritto di possedere tali armi e di usarle sui corpi, qualora lo decidessimo, questo pare dire, ciò che è giusto è giusto.

Poco prima del suo suicidio aveva consegnato all’editore l’ultima parte della tetralogia Il mare della fertilità (completata comunque circa tre mesi prima della consegna, ma sulla quale appare, nell’ultima pagina, la data simbolica “25/11/1970”, quasi come a volere lasciare il suo ultimo testamento).Yukio Mishima San Sebastian 00

Quindi, il Nostro, nella sua adolescenza, era cresciuto in un’atmosfera di magnifico apprezzamento per la morte, quasi per qualsiasi motivo, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento.

C’è una linea dritta che corre tra la sua adolescenza e il suo militarismo romantico della metà e soprattutto della fine degli anni ’60 e questa linea retta porta alla sessualità mortale.

Un salto avanti: alcuni personaggi politici giapponesi hanno cominciato da pochi anni a parlar pubblicamente della propria omosessualità: nel 2003 Aya Kamikawa è stata la prima candidata transessuale ad una carica pubblica. Nel 2005 Kanako Otsuji fece coming out dichiarando d’essere lesbica.

Un salto indietro: ma come veniva considerata l’omosessualità di Mishima? Un uomo in cui convivevano il desiderio di vivere in eterno e di gridare contro il mondo in cui voleva vivere ma che non poteva accettare con l’idea dell’annullamento fisico? Un uomo che era cresciuto in un bordello teatrale di Tokyo.

Oggi che l’accettazione dell’omosessualità dovrebbe essere aperta, sostanzialmente, le preferenze di uno scrittore come Mishima non dovrebbero risultare scioccanti, né in Giappone né in Occidente.

Pulsioni forti, estreme. Infatti, ciò che risulta essere ancora scioccante sono l’estrema fisicità e il piacere in quello che Mishima chiamava il suo “teatro dell’assassinio” che, appunto, sta anche dentro una certa tanto deprecata sessualità.

Sarebbe utile consultare, per questo argomento, l’immagine di San Sebastiano, come appare nel ritratto di Guido Reni. Mishima doveva avere gusti estremi e molto particolari anche nel sesso se si è fatto rappresentare allo stesso modo.

La sua uscita di scena era stata organizzata con lucidità e freddezza. Uscendo dal suo studio per andare incontro all’epilogo della propria vita lascia un biglietto in cui era scritto “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.

Quando non si è mai conosciuta la felicità non si ha il diritto di disprezzarla. Ma io do un’impressione di esser felice in cui nessuno potrebbe scoprire la benché minima incrinatura, e quindi ho il diritto di disprezzarla né più né meno di chiunque altro. (da Confessioni di una maschera)

 

sabato 8 luglio 2023

Dario Bellezza: amore senza indugio


Dario Bellezza 00

I
si può guardare, largamente

I visitatori stanno alle parole e non all’occhio. Quale pensiero è quadro della tela? E quale servigio punisce a meraviglia?
Attenuata la sorgente, in minor forma: Alto al visibile s’attende il partire vermiglio: la marcia di cattura ove “batteva il sole di mezzogiorno. La morte” cruda e oro, l’intendimento al solco: così appare scoperto “ogni rimorso, una bestia affamata”. Il vetro è specchio d’ogni offerta al lume, “a quel succo di terreno” inanime e prono.
Ora niente può più: “colpire la buona ventura”.

Tranquillità del “sonno ci raggiunge”, e sesso estremo: è un’argentea lucidità, “una tregua”. Causa del freddo. Ma assolutamente cheto sei ora. Qui si respira, alfine.
Ma di te? Una inabitata coscienza riserba le apparenze: all’angolo le strette di mano, nessun ricordo e riguardo: questo è già causa di soccorrimento, Dario.

Ma ecco che adesso il sottile terrore minaccia, la dimenticanza, poco alla volta. Non è davvero finita la nostra diabolica presenza: “è la parola finale”. Corte fiamme alzano, a questo Mondo immondo, lo stato di miseria e il nostro cattivo sorriso.
“Se misurassimo ogni nostra necessità quale afflitta immagine, ma “qualcuno non ha più occhi”. Profondamente incassati.
“Gesta e pensamenti in accordo” con lo sguardo” come se volessero affascinarci, ben disposti a “questi attuali eventi”, questo disconoscerti.

II
Si può guardare largamente

Non condizioni a intrattenere il Tempo: ignote le nuove generazioni, non ti conoscono o riconoscono, è vero! Anche levando su i begli occhi che hanno a guardarti.. non esisti: tu una testimonianza divina ma del tutto svuotata.
Ma le teste più capaci, poche, di osservare “non hanno crisi della bocca”.
A ben guardare nulla è immorale della tua vita e della tua morte di poeta e tutto equivale al quotidiano angelico, all’aurorale viaggio, al buon camminamento: AL TUO SONNO ETERNO PER QUESTA NOTTE ETERNA ALMENO.

Scrissi i versi in prosa, che leggete più sopra, anni dopo la sua scomparsa, nel ricordo di alcun lettere che, ai tempi, gli spedii e in memoria delle sue risposte. Ora mi accingo a parlarne. Davvero. A memoria futura. Per quel poco che posso.

Con gli anni, alla retorica simbolica e decadente, Bellezza parve sostituire tutto se stesso, la propria spettacolare fisicità, lo sfaldamento contraddittorio della maturità del proprio corpo, tra colpa e riscatto. E malattia che lo accompagna mentre lui affronta la sua realtà tragica attraverso lo stravolgimento buffone e rumoroso, quasi da burletta malriuscita, dell’arte drammatica. Un canovaccio che denuncia i propri fatti personali con la loro stolta rappresentazione d’amanti, fino a subirne le estreme conseguenze, la più appienata immedesimazione.

E così, come a beffarlo giocosamente, anche la morte ha usato il suo stesso sotterfugio. Si è andata a specchiare dietro il ritratto stesso dell’uomo e non del poeta. Come lui, spesso, rispettandola e deridendola, si specchiò dietro di essa.

Pure se fosse possibile salvarsi in qualche modo, pare dire nella sua scrittura Bellezza, imporre il proprio ruolo di vivente, sul piano individuale, la situazione sarebbe compromessa dalla crudeltà dei cupissimi sentimenti, dall’incapacità di adeguarsi al loro immorale, gioiosissimo, fluire. Ancora una volta. Finzione. Di più. Verrebbe da aggiungere. Il perfetto traslato di una finzione, una finzione enumerata al quadrato. Esponenzialmente esposta. Cattiva.Dario Bellezza 01

Così davvero appena lo specchio cessa di riflettere l’immagine della vecchia morte, ecco che appare la figura stessa del poeta, nascosto esattamente nel proprio labirinto di umano arrovellato ed è in quel preciso istante che viene sancita una condanna inappellabile. La morte s’approprierà del poeta. Bellezza sarà amabilmente come irretito dalle sue stesse proiezioni. I suoi affastellati sogni e incubi goduriosi. E dunque è come non potesse più scrivere e non toccare più i corpi adorati, odoranti: sarebbe troppo ovvia dichiarazione nostalgica per un animo ribelle come il suo. Così sente il bisogno di non posticipare l’icona, il correlativo realissimo dell’abbandono, il veicolo immaginifico rispetto al tema. Come a definire un colloquio in assenza, [la mancanza dell’atto d’amore, dell’amato indistinguibile tanto quanto le ripetizioni di uno stesso atto amoroso con chiunque] un parlato, ormai solitario, destinato a infittirsi nei suoi libri e soprattutto porre al centro del verso il primo e unico segno malato della corrente affettiva che percorre l’intera poesia. Come se temesse quella verità tanto agognata, si predispone a una fuga continua perché solo il tempo della recita sembra offrire lo spazio bellamente illusorio di una speranza di salvezza.  E, così, si legge una dolcezza insolita, già malinconica, nei suoi versi, una straziante sincerità, e con essa l’anelito a una realtà impossibile, perché avvertita come un’utopia, una dislocazione temporale, dal passato al presente, che è una spia essenziale di come Bellezza corroda l’esperienza nel momento in cui la fa divenire assoluta. Allontanandola. Per sempre.

E così essa viene chiamata sulla scena del proprio dramma esattamente come attrice, come rappresentazione e finzione. Ma la morte giunge, invece, in tutta la ferocia della sua realtà. Così ciò che il poeta vorrebbe rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. Prima che egli stesso se ne accorga. Viene sottratto al poeta, insieme all’oggetto, il sentimento stesso del dolore.

Come osservazione di eventi che però non vengono semplicemente registrati da un testimone attendibile, i suoi versi mimano il proustiano fluire del sentimento nel tempo, ne attestano [o ne provocano] l’attrito, il rovesciamento, l’imprevisto, di fatto costringendo lo stesso tempo alla recita di un destino. Con la consapevolezza di dover soccombere, il poeta incontra è destinato a perdersi nell’infinito rispecchiamento dei propri versi. Nell’autocelebrazione caparbia del proprio vivere all’estremo. Come un tentativo di fuga, a veder bene, con una certa pesantezza nella struttura che impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri. Sconvolgenti.

È con il suo atteggiamento che Bellezza sfugge a qualsivoglia cristallizzazione del processo amoroso, della propria omosessualità, assestandosi come nel limbo friabile e imperfetto di un suo personalissimo senso di amore, che per affermarsi come tale, deve rimanere sempre potenziale, possibile e mai realizzato, perché il personaggio torni a dominare la persona e la sua lamentosa carica eversiva possa raggiungere nuovi obiettivi e nuovi lettori su cui rovesciarsi. Contemplando se stesso, e pensando così di aver sconfitto il mostro, gli ha invece consegnato la propria vita, quella vera e quella recitata. Come devoto alla gran malattia [AIDS] che mai si sarebbe aspettata.

Dario Bellezza 02In un gioco di specchi riflettenti, continua a cantare il corpo, che diviene sempre più oggetto assente, motivo di ricordo. Esattamente convinto di potersi rivolgere sempre allo stesso uditorio. Bellezza non si è mai accorto che il pubblico in sala era ormai tutt’altro da quello dei suoi esordi e che l’eros, minacciato e piagato da nuove paure, piegato a irreggimentare vuoti immaginari collettivi, non poteva più costituire la ragione sufficiente di uno scandalo, ovvero di una richiesta di attenzione. L’eros, davvero non è più scandalo. Ad un certo punto. Lo è viverlo scandalosamente, questo sì, in maniera putrefatta. Ma di questo non s’accorse, il Nostro, pur vivendolo esattamente in maniera rischiosissima.

Veloce rifugge da quei corpi, più rapido del tempo della vita, non ama più niente nei corpi, con l’effetto di perdersi ancor più nei suoi astrusi angiporti. Così la sostanza del pensamento è quella di potersi tramutare in un’ossessione. Ricchissima e stupefacente [ma anche stupefatta] la declinazione di questo tema, e pervasiva, fino a indurre il sospetto che la corrosione fra esperienza del reale e scrittura si sia talmente affievolita in un estremo dannunzianesimo rovesciato di segno.

Esattamente così. Sia nello spaziotempo della gioventù che in quello della maturità, ciò che può giungere a noi frettolosi lettori, finale declinazione dell’ipocrisia che già ci aveva attribuito Baudelaire, è solo – e disperatamente, ma fino a che punto? – un messaggio invivibile, pervenuto da qualche oscura regione del mondo fenomenico o della psiche, estremo proprio come un dubbio ultraterreno. Come esattamente una sessualità vissuta estremamente. Come uno sport fatto di dettagli, di posture, di accrocchi, di sputi sui visi e tremebondi amplessi.

Da qualsiasi punto la si osservi, la sua poesia appare come in eterna fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. È rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Uomo che cerca di corrodere l’Ineterno, con la sua sola ma rumorosa presenza di Poeta, la sonnolenta borghesia romana, l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima.

Nelle poesie degli ultimi anni, non è unicamente un vecchio solitario e malatissimo, è anche un uomo indigente, o si può anche dire più semplicemente povero. Già tanto prostrato, ha avuto, due dolori: la morte del padre ottantenne, e più da vicino il suicidio di Amelia Rosselli.

Nell’ultima fase della sua vita, avrebbe voluto silenzio, discrezione, forse dimenticanza. Non è stato così, i giornali – come ha avuto modo di dire – sono stati di una violenza allucinante.

L’unico Poeta della sua generazione a essere stato incluso nel Novecento di Gianfranco Contini, così anti–eroe e vittima del suo stesso estetismo esasperato ed esasperante, è un antenato plausibile e concreto di se stesso, ma resta uno iato tra personaggio e autore; se il primo fallisce, il secondo si ostina ad andare avanti in un’infausta sovrapposizione di due realtà, arte e vita, tra la fluidità del vissuto e la fissità del bello eterno.  Avanti. Di maschera in maschera, di ordalia in ordalia, e per via morantiana. Poiché penniano non fu mai, questo mi pare di capire. La sola enclave possibile resta quella dell’innocenza animale, del rapporto esclusivo e privilegiato con i gatti. E, forse della stessa sua gattità.

Mi scrisse che non avrebbe più voluto scriver versi – a me che appena iniziavo a pubblicarne – e che sentiva tutta l’assurdità di fare poesia. Più in là mi fece avere, da un amico comune, autografato, un suo libretto sui gatti che era stato tradotto in Spagna. E io già lavoravo nella redazione di “Poesia”.

Narciso immondo e dello specchio restò prigioniero fin da subito, apprestandosi a giocare una partita col destino e con la morte: una partita che è l’anamorfosi dell’invettiva [e dalla licenza, poetica ovviamente], del tentativo di riscatto sociale, dell’affermazione della libertà dell’eros, del superamento della grettezza piccolo–borghese; perché, di fatto, il poeta che si lancia contro la società provinciale resta, anzitutto, il prodotto stesso di quella società, di cui non riesce a coglierne le mutazioni essendone già oltre. Molto oltre.

Di questo incessante teatro dell’eros restano sulla scena piccoli oggetti, fragili icone, tristi sineddochi di un avvenimento che appare già superato nel momento stesso in cui accade, per lasciare il posto a un altro incontro, e prima di questo, all’inesausto vagare, il sentimento del battere, la ricerca del sesso infinito e sconosciuto, sola dimensione di confronto serrato con se stessi e con un desiderio di cui si teme ogni volta il compiersi, sebbene lo si brami: l’amore.

C’era l’ammissione implicita di una sovrapposizione tra io, ruolo e personaggio, quale possiamo infinitamente registrare nel crudele antagonismo dei suoi corpi descritti e frequentati.

La traduzione della rappresentazione in scrittura poetica prende spesso l’avvio, inevitabile, inesorabile, a custodire quel messaggio invivibile che, a volte, condiziona l’intero tracciato di un’esistenza: la fine dell’amore dopo l’amore, la fine dell’innamoramento dopo il sesso, ovvero quando definitivamente cala il sipario, in attesa non della prossima replica, ma di uno spettacolo che si vorrebbe nuovo e che invece si compie nel dolore di una infinitudine di ripetizione coatta e che fa soggiacere tutti noi, che si sia attori o spettatori. E anche il nostro spazio vitale si restringe invece di ampliarsi, la città si riduce alla stanza, la stanza al letto, quel luogo sfatto dove non è più concesso sottrarsi alla proprie contraddizioni, ai propri antagonismi. La meravigliosa pietrificazione di ogni sentimento che dona, a liberazione, ogni atto di sesso fine a se stesso.Dario Bellezza 03

Ah, non amare! Non essere riamati! La scrittura, davvero, si offre come moto di distrazione da tutto questo. Tentativo di nascondimento. E nonostante l’amante abbia consegnato all’amato la chiave della nuova casa [un classico in Bellezza] estremo simbolo di una disponibilità concreta solo nello spazio della rappresentazione, il corpo amato se ne va, lasciandolo solo in una tensione religiosa, una specie di evidente tremore per un aldilà senza nulla.

È dunque il corpo lo strumento attraverso cui il Poeta esibisce e declina le proprie ossessioni. La sua presenza, così tenacemente pervasiva di libro in libro, non costituisce un ovvio tratto dominante, ma diviene la sostanza più intima di una ricerca destinata al fallimento. La condizione pasolinianamente “impoetica” del poeta a scardinare il nesso barocco di vita e sogno [di ortesiana memoria, intendo, che Bellezza ripresentò nella sfolgorante riedizione de l’iguanuccia cara] e a fare della dimensione drammaturgica il luogo di una verità possibile, dispersa nella quotidianità del sentimento.

È uno scontro impari col vuoto del silenzio che lo circonda, lo so, ma l’energia della dissipazione mi costringe a un residuo di titanismo, appena sufficiente a motivare il tentativo di un riscatto, per lui, almeno sul piano collettivo. Così spiegato, allora, lo spostamento retorico di un mio sentimento che parrebbe impossibile per chi poco mi conosce, che «senza rancore» continuo a richiamarne l’attenzione verso questo Poeta quasi dimenticato, tramutandola nell’ennesimo correlativo dell’abbandono: di un abbandono in atto, che si ripete ad ogni rilettura di ogni suo testo, evento avvenuto e potenziale al tempo stesso.

Ma, nonostante il mio movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarlo e comprenderlo e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente. Come una voluta barocca Bellezza mi sfuggirà. Giacché, come si sa, a voi stessi sta sfuggendo.

Ebbene a rileggerlo ci si accorge che il campo che si disegna è delimitato non solo dalla realtà, da un lato, e dall’altro dalla finzione – ciò che semplificherebbe sia il ruolo del lettore e il compito dell’interprete, sia la dinamica stessa dell’officina di Bellezza – ma anche dal modo in cui la realtà quotidiana è filtrata dall’esperienza ancor prima che dalla scrittura, il vissuto. Infine, a chiudere il suo spazio letterario così fascinosamente ombroso e asfittico, è la proiezione dell’io lirico come protagonista di un teatro della passione erotica, la trasgressione e rottura degli schemi sociali precostituiti.

Ma si sa che il linguaggio della poesia può supportare – e lo fa, a volte – tutte le soluzioni. Il poeta è ormai travolto da questa malattia terribile che è l’Aids, da questa infelice condizione che avrebbe voluto tenere nell’ombra e in questo senso l’atteggiamento fondamentale di tutta la scrittura di Bellezza s’impone sul piano del visivo piuttosto che in un’ottica concettuale: incapace di sciogliere i propri nodi, rimane al di là della scena da lui stesso allestita con una regia sapiente quanto penalizzante per se stesso.

L’amante e l’amato, distratti nel loro eros effimero, o, con un plurale istrionico, il poeta che ricordando scrive quando già l’amato è entrato nel limbo delle icone, dei simboli della passeggera eternità dell’amplesso, della goduta.

Autenticità del dolore. Una raffigurazione di un modello culturale ancor prima che psicologico e la rielaborazione della perdita è tutta affidata al dire poetico, ma non in chiave consolatoria e neppure esorcistica. È l’incontro dei corpi, il fisico toccarsi e intrecciarsi, complesso e sempre differito in un eterno ritorno impossibilitato, poiché, nel frattempo, un altro antagonista, più volte evocato, interviene a rompere il meccanismo di un corpo ripudiato, socialmente esecrabile, vittima e carnefice di se stesso che si confessa, una sostituzione continua di amati  e di amanti, come unico farsi primario di quella scissione che sverna nel tempo del sentimento, rinviandolo, spingendolo fino ai confini estremi e raggiungibili della morte sul letto.

La creaturalità offesa dalla storia.

Bellezza usa strumentalmente la poesia, è palese proprio nell’effetto melodrammatico di molte sue soluzioni. Una scrittura che sì oscilla tra perizia e programma e che, clessidra dei sentimenti e dei giochi erotici, gli ha giocato un pessimo tiro, l’ultimo, il letale, richiamandolo a una concretezza dell’essere fuori da ogni rappresentazione. Proprio la coazione all’eros, come motivo, sembrerebbe stabilire una diretta linea di discendenza da Penna e dal poeta delle borgate, ma l’immagine innocente del fanciullo, icona di un desiderio assoluto prima che di una pulsione, è assente dal suo orizzonte, frequentato piuttosto da emarginati e da una sessualità spesso in vendita, corrotta e corrosiva [se questa espressione è ancora lecita, se non fa sorridere i cinici ad oltranza]. Davvero la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo della malattia e della morte.

La maschera sostituisce la persona, il personaggio condiziona il poeta. Il quotidiano incombe imponendo uno iato tra la scena della rappresentazione, che prima o poi dovrà concludersi, e la sosta necessaria al compiersi di una vera esperienza. Forse la definitiva. Ma prima di qualunque ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente – fino ad oggi, fino a noi – che non vuole e non sa guardare al futuro, nemmeno costruirlo intende, il corpo è la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e di ben più reali ripudi. La tensione è palpabile: la si avverte già nella cantilena del ritmo, nei componimenti più ampi, e in un nervosismo finanche arcaico della sintassi che informa di sé tutta la poesia di quest’autore. Nell’istante stesso in cui descrive e si descrive, il soggetto ha già indossato i panni dell’attore, così compiendo una rimozione radicale del concreto.

Non è un motivo nuovo, quello del furto d’amore, non per questo banale, almeno per come l’autore lo declina. Ma si sa. Ogni ossessione genera contrasti, più o meno feroci o invasivi: si viene sempre a creare una pericolosa terra di nessuno tra il dominio del principio di realtà e le spinte centrifughe di un principio opposto. E le ossessioni non esistono per questo Poeta ma incarnano direttamente l’istintiva naturalezza di un mondo creaturale, libero dagli spettri della cultura, e dunque dal peccato. Oltre il mondo animale. Il sesso come emblema di se stesso e della propria ripetitività. Ecco che il corpo torna ad avere un referente, ma distante, ormai invisibile, mentre se ne ammette a piena voce, ma sempre dal proscenio, l’adorazione e non più soltanto.

Un poeta che vive la corporalità come scissione: esiste il corpo dell’amante, quindi il corpo dell’amato, infine il corpo del nuovo amate che diventa amato per essere sostituito da un nuovo amante che diviene l’amato all’infinito ed è quest’ultimo, ancora, a condizionare fisiologia e ritmi degli altri, a farne costanti proiezioni di sé sulla scena di una teatralità sempre esibita con ripetitività. E questa consapevolezza genera una struttura elegiaca, più evidente man mano che ci si accosti agli ultimi libri; il racconto della fisicità propria e altrui oscilla tra pietà e rimpianto, tra occasione e rimorso senza che sia risparmiato particolare alcuno del degrado.

Questa tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. Racconta il proprio spazio drammatico, partendo da un dato astratto ma fortemente evocativo, ribadendo nel colloquio l’assenza di una fisicità e asserendo, con estrema compattezza visiva, che quel corpo è ormai svanito, lasciando tristi tracce ovunque. Se di barocco si può parlare, per quest’autore, è soprattutto in virtù di questa anamorfosi, proprio laddove il dettato sembrerebbe sedarsi in una serie di immagini pacatamente affettive, in una lingua classicamente meno atteggiata.

La sua poesia si rispecchia in una lente deformante e lascia trasparire il fondo della sua più autentica libertà, almeno come aspirazione. Una narrazione allo stato puro, finzione che sposta quasi incessantemente l’asse dell’esperienza verso quello della rappresentazione. Bellezza ci restituisce con ogni probabilità l’immagine di sé più densa e credibile; ed è proprio quella negazione a rendere l’autoritratto una rappresentazione tutt’altro che mimetica.

Tutto è assai eloquente, ribadisce la coazione a un eros insoddisfatto, fa della ripetizione il segnale dell’ossessione e soprattutto ci mette a parte di come Bellezza tenti di risolvere il proprio sentimento del tempo con una banale operazione aritmetica, moltiplicando all’infinito i suoi incontri in una rincorsa affannosa quanto inutile, come a voler essere più veloce della vita stessa e del proprio tripudio d’amore e sesso, ma con l’effetto soltanto di anticipare quello che è già contenuto nella sua confessione: il corpo sfiorato è infine il corpo sfiorito, consumato negli eccessi, dai mille e mille corpi che restano, per sempre, ragazzi.

Un eros quasi astratto, proprio quando ne esponeva i dettagli. Flusso sentimentale altrimenti inconfessabile in tutta la sua fugace concretezza. Registro da opera o da romanza. Storie vissute all’insegna di una balda e passeggera eternità, che si tramuta in qualcosa di assoluto, perfino in qualcosa di malato. Una sessualità coatta che si traduce, in quanto espressione del poeta, in evento sociale, in atto performativo.

E qui chiudo, pazienti lettori.

 

 

 

 

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mercoledì 5 luglio 2023

il terribile è già accaduto?


Fabio Galli 00

E dunque allo scopo di razionalizzare la nostra devastazione esattamente con una falsa consapevolezza assuefatta, e di eliminare la nostra facoltà di vedere chiaramente quello che ci sta sotto il naso e di immaginare cosa ci sia un po’ più in là, abbiamo dovuto distruggere la nostra capacità mentale.

Amore e violenza, a rigore, dovrebbero ben essere polarità opposte.

L’amore lascia vivere il prossimo, ma con interesse ed attaccamento.

La violenza cerca di limitare l’altrui libertà, di costringere il prossimo ad agire come vogliamo noi, ma, per l’esattezza delle cose, con disinteresse ed indifferenza verso l’esistenza e il destino degli altri.

Con questa violenza mascherata da amore stiamo riuscendo a distruggerci.

Gli uomini non divengono ciò che la natura li ha destinati ad essere, ma ciò che la società fa di loro.

Pressioni, queste, intese precisamente a distruggere la maggior parte delle sue potenzialità, impresa che, nel complesso, è coronata da successo: all’epoca in cui il nuovo essere umano ha circa quindici anni, ci ritroviamo con un essere simile a noi, con una creatura semi-folle, più o meno integrata ad un mondo pazzo.

Questa è, ai nostri tempi, la norma.

Siamo  distanti dalla spicciola psicologia d’accatto che cerca invece la normalizzazione dell’uomo a questo mondo.

I sentimenti generosi vengono, per così dire, rinsecchiti, cauterizzati, strappati, amputati per renderci adatti al nostro approccio col mondo, mai con nessun dio, soli.

Le nostre azioni corrispondono alla nostra esperienza del mondo: noi ci regoliamo alla luce di ciò che secondo noi una situazione comporta o non comporta; ossia, ciascuno si occupa più o meno di ontologia, ha delle opinioni personali su ciò che  è  e  su ciò che non è.

Siamo un’intera generazione di esseri talmente estraniata dal mondo interiore che vi sono molti che sostengono che esso non esiste, e, anche se esiste, non vale la pena di occuparsene; che, anche se possiede un qualche significato, non è fatto di solido materiale scientifico e quindi occorre renderlo solido, misurarlo e calcolarlo; quantificare l’estasi e l’agonia del cuore in un mondo in cui, quand’anche il mondo interiore venga per la prima volta scoperto, noi non possiamo che sentirci defraudati e derelitti, giacché senza il mondo interiore l’esteriore perde ogni significato e senza l’esteriore l’interiore perde ogni realtà.

Quando accade che i nostri mondi personali siano riscoperti e che si permetta loro di ricomporsi, scopriamo sulle prime uno scempio.

Corpi morti a metà, genitali dissociati dal cuore, cuori scissi dalla testa, testa avulsa dai genitali.

Tutto questo quasi come in un perfetto loop.

Nessuna unità interiore, solo senso della continuità di una perduta comunità, quanto ne basta per affermare l’identità, questo moderno oggetto di idolatria.

Corpo, mente, spirito, strappati gli uni dagli altri dalle interne contraddizioni, scagliati in diverse direzioni.

L’uomo staccato dalla propria mente, ed egualmente tagliato fuori dal proprio corpo, creatura mezzo impazzita in un mondo folle.

Quando il terribile è già accaduto, non possiamo attenderci altro se non che l’oggetto del proprio io si faccia eco esterna delle distruzione già occorsa interiormente.

Queste affermazioni in certo senso sono vere? Descrivono la creatura spaventata, domata, abbietta che siamo ammoniti ad essere se vogliamo essere normali, offrendoci l’un l’altro reciproca protezione dalla nostra stessa violenza?

Ricorre, frequentemente, l’accenno alla sicurezza, alla stima degli altri.

Si suppone, quale ragione di vita, uno debba volere, se l’essere o il rappresentarsi.

“Ottenere il piacere della stima degli altri”, altrimenti è uno psicopatico (Theodore Lidz, The family and Human Adaptation, Londra 1964).

Siamo in un mondo in cui l’interiore è già scisso dall’esteriore.

Ci ritroviamo nella necessità di conoscere relazioni e comunicazioni, ma questi schemi di comunicazione, disturbati, riflettono il disordine dei nostri mondi personali di esperienza sulla cui repressione, negazione, scissione, introiezione, proiezione, dissacrazione e profanazione generale si fonda la nostra civiltà.

Siamo ridotti tutti quanti a figli di chissà quale profezia alla rovescia che hanno appreso a morire nello spirito ed a rinascere nella carne.

Vista in questi termini  la  nostra funzione pare essere quella di reprimere l’eros della propria creatività, di produrre una falsa sensazione di sicurezza, di negare la morte con l’evitare la vita, di togliere di mezzo la trascendenza, di far credere in dio evitando l’esperienza del vuoto, di creare, così, in breve, l’uomo ad una dimensione, di incoraggiare il rispetto, il conformismo, l’obbedienza, di metterci fuori combattimento, instillando la paura di fallire, stimolando il rispetto per il lavoro, in quanto fonte di reddito, provocando il rispetto della “rispettabilità”.

Conquistata secondo i criteri di cui sopra.

 

 
© gaiaitalia2013 Bo Summer’s riproduzione vietata

martedì 4 luglio 2023

per Dario Bellezza


Il desiderio. Dov’è la sorgente? In 
quale recesso? Chi può ormai stanarlo? Queste le domande, come sangue nelle reni, afflusso improvviso come un tarlo che a poco a poco obnubila la mente. Non vale, allora, stimolarlo solo con la memoria, come se la poesia potesse essere pura sessualità (o artefizio di quella, come nell’amato Sandro Penna, o nel letto madido di sudore di morte di Dario Bellezza) non ritorna niente dal sesso scritto, niente.

Il sesso è pura alterità, non sta nemmeno più nei pornoshop e nemmeno nel deep web. Figuriamoci se può stare nella poesia. Nel suo lucente fingere. Finzione è poetare, al massimo è erotismo dello scrivere, altro da sé. O pornolalia.

Va detto più volte, anche di notte, quando il sonno non viene più. E, nonostante ciò che si può pensare, questo fare poetico non ha bisogno di orpelli visivi, di mattane teatrali poiché è già bruciore di vene, un piccolo fuoco – come così occorre che la poesia rimanga – una brace già nella completezza della pagina, del suo farsi verso (avvicinarsi a) ed è come se ancora, in questa nostra età sfinita, si potesse stare sulle barricate a dar voce alla vita. Come se si potesse.

sabato 1 luglio 2023

El Horno (capitolo A)


#ElHorno, di Bo Summer’s (a cura di Fabio Galli)

Capitolo A (anteprima)

A dargli tutto quel tempo che gli occorre, Skeeen è davvero capace di provare e d’impartire l’estasi esattamente lungo tutto quanto il locale… Skeeen non può proprio celarlo nemmeno a se stesso: a mala pena domina l’ansia che in quest’attimo l’assale, allorché, sospinto dal suo stesso interesse si risolve a trascrivere soltanto mentalmente – ma accuratamente, ma molto al di sopra di enigmatiche parole, come fosse una cosa attigua a carceri questo pensamento, come fosse suo remoto parente questo strazio straziante che strazia ma come costretto fosse a conviverci, come fosse un orizzonte velato e oscuro, come fosse un piano secolare, come fosse un mandamento ma orrendamente divino -, la copia affrettata, come fosse, di tutti quanti gli avvenimenti passati e anche futuri della sua vita… e via, e via, e via… ma proprio alcuni di questi avvenimenti, già da molto prima d’incominciare, hanno animo – muto forse, silenziosissimo ma simile a tifone grandissimo – adulto e fanciullo insieme: terra e melma e paura brulla e quasi mancamento e ancora lontananza da primissimo desiderio sono questi avvenimenti. niente d’altro da aggiungere, niente d’altro da dire:

A dargli tempo, quindi, Skeeen è proprio capace d’inebriarsi, d’ubriacarsi nel cuore stesso dell’inferno abissale de El Horno: “il nome del posto è di per sé già strano, è come meraviglioso presagio, non tanto allettante ma come non cedere alla tentazione”, dice nella sua mente Skeeen, “al disarmo totale che prevede un luogo come questo: le luci appena visibili colpiscono in tutta la loro vera crudeltà: una poesia del trasalimento” e via, e via, e via, e così Skeeen entra e nel frattempo dice: “un buco è un buco e non ci si tira mica indietro nei fine settimana di questa città… e via, e via, e via, ecco, e anche questa merda di locale, poi, mica tanto è lontano dalle luride saune che frequento: è soltanto un ennesimo buco, un altro locale da frequentare, un altro nuovo fine settimana da passare all’infinito anche se, proprio per il suo senso immanente di ogni atto che all’interno si compie, non può avere mai fine” condividendo così, quasi per intero – con le estreme forze che gli rimangono – una specialissima amicanza fratella, uno spasimo fecale e sessuale con tutte le altre sventure smaniose che allegramente popolano questo antro disarmonico, questa inquieta rottura con tutto il mondo esterno, questo locale acerrimo.

A dire il vero, nello stato di ebbrezza da Ceres assai avanzata nel quale Skeeen si trova, ad entrare a El Horno prova solamente un disagio più che passeggero e già quasi arriva a sorprendersi e arriva a confidarsi mentalmente cose che non gli sarebbe mai venute in testa, normalmente, di rivelare nemmeno al suo più intimo e letale amico, a maggior ragione a una persona che in un certo senso non conosce affatto, anche se, provando per questa un desiderio vivissimo e cercando quindi di corteggiarla già appena entrato, si mette largamente, in mancanza di altri argomenti, a parlare di sé… e via, e via, e via, e quello ad ascoltarlo distratto e silenzioso e quello a raccogliere tutti i suoi storpi discorsi che inaridiscono, come una condanna, il corpo e il pensiero e i rapporti con il prossimo...

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