sabato 30 marzo 2024

Dario Bellezza: amore senza indugio

SI PUÒ GUARDARE, LARGAMENTE

I

I visitatori stanno alle parole e non all’occhio. Quale pensiero è quadro della tela? E quale servigio punisce a meraviglia?
Attenuata la sorgente, in minor forma: Alto al visibile s’attende il partire vermiglio: la marcia di cattura ove “batteva il sole di mezzogiorno. La morte” cruda e oro, l’intendimento al solco: così appare scoperto “ogni rimorso, una bestia affamata”. Il vetro è specchio d’ogni offerta al lume, “a quel succo di terreno” inanime e prono.
Ora niente può più: “colpire la buona ventura”.

Tranquillità del “sonno ci raggiunge”, e sesso estremo: è un’argentea lucidità, “una tregua”. Causa del freddo. Ma assolutamente cheto sei ora. Qui si respira, alfine.
Ma di te? Una inabitata coscienza riserba le apparenze: all’angolo le strette di mano, nessun ricordo e riguardo: questo è già causa di soccorrimento, Dario.

Ma ecco che adesso il sottile terrore minaccia, la dimenticanza, poco alla volta. Non è davvero finita la nostra diabolica presenza: “è la parola finale”. Corte fiamme alzano, a questo Mondo immondo, lo stato di miseria e il nostro cattivo sorriso.
“Se misurassimo ogni nostra necessità quale afflitta immagine, ma “qualcuno non ha più occhi”. Profondamente incassati.
“Gesta e pensamenti in accordo” con lo sguardo” come se volessero affascinarci, ben disposti a “questi attuali eventi”, questo disconoscerti.

II

Non condizioni a intrattenere il Tempo: ignote le nuove generazioni, non ti conoscono o riconoscono, è vero! Anche levando su i begli occhi che hanno a guardarti.. non esisti: tu una testimonianza divina ma del tutto svuotata.
Ma le teste più capaci, poche, di osservare “non hanno crisi della bocca”.
A ben guardare nulla è immorale della tua vita e della tua morte di poeta e tutto equivale al quotidiano angelico, all’aurorale viaggio, al buon camminamento: AL TUO SONNO ETERNO PER QUESTA NOTTE ETERNA ALMENO.

______________

Scrissi i versi in prosa, che leggete più sopra, anni dopo la sua scomparsa, nel ricordo di alcune lettere che, ai tempi, gli spedii e in memoria delle sue risposte. Ora mi accingo a parlarne. Davvero. A memoria futura. Per quel poco che posso.

Con gli anni, alla retorica simbolica e decadente, Dario Bellezza parve sostituire tutto se stesso, la propria spettacolare fisicità, lo sfaldamento contraddittorio della maturità del proprio corpo, tra colpa e riscatto. E malattia che lo accompagna mentre lui affronta la sua realtà tragica attraverso lo stravolgimento buffone e rumoroso, quasi da burletta malriuscita, dell’arte drammatica. Un canovaccio che denuncia i propri fatti personali con la loro stolta rappresentazione d’amanti, fino a subirne le estreme conseguenze, la più appienata immedesimazione.

E così, come a beffarlo giocosamente, anche la morte ha usato il suo stesso sotterfugio. Si è andata a specchiare dietro il ritratto stesso dell’uomo e non del poeta. Come lui, spesso, rispettandola e deridendola, si specchiò dietro di essa.

Pure se fosse possibile salvarsi in qualche modo, pare dire nella sua scrittura Bellezza, imporre il proprio ruolo di vivente, sul piano individuale, la situazione sarebbe compromessa dalla crudeltà dei cupissimi sentimenti, dall’incapacità di adeguarsi al loro immorale, gioiosissimo, fluire. Ancora una volta. Finzione. Di più. Verrebbe da aggiungere. Il perfetto traslato di una finzione, una finzione enumerata al quadrato. Esponenzialmente esposta. Cattiva.

Così davvero appena lo specchio cessa di riflettere l’immagine della vecchia morte, ecco che appare la figura stessa del poeta, nascosto esattamente nel proprio labirinto di umano arrovellato ed è in quel preciso istante che viene sancita una condanna inappellabile. La morte s’approprierà del poeta. Bellezza sarà amabilmente come irretito dalle sue stesse proiezioni. I suoi affastellati sogni e incubi goduriosi. E dunque è come non potesse più scrivere e non toccare più i corpi adorati, odoranti: sarebbe troppo ovvia dichiarazione nostalgica per un animo ribelle come il suo. Così sente il bisogno di non posticipare l’icona, il correlativo realissimo dell’abbandono, il veicolo immaginifico rispetto al tema. Come a definire un colloquio in assenza, [la mancanza dell’atto d’amore, dell’amato indistinguibile tanto quanto le ripetizioni di uno stesso atto amoroso con chiunque] un parlato, ormai solitario, destinato a infittirsi nei suoi libri e soprattutto porre al centro del verso il primo e unico segno malato della corrente affettiva che percorre l’intera poesia. Come se temesse quella verità tanto agognata, si predispone a una fuga continua perché solo il tempo della recita sembra offrire lo spazio bellamente illusorio di una speranza di salvezza.  E, così, si legge una dolcezza insolita, già malinconica, nei suoi versi, una straziante sincerità, e con essa l’anelito a una realtà impossibile, perché avvertita come un’utopia, una dislocazione temporale, dal passato al presente, che è una spia essenziale di come Bellezza corroda l’esperienza nel momento in cui la fa divenire assoluta. Allontanandola. Per sempre.

E così essa viene chiamata sulla scena del proprio dramma esattamente come attrice, come rappresentazione e finzione. Ma la morte giunge, invece, in tutta la ferocia della sua realtà. Così ciò che il poeta vorrebbe rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. Prima che egli stesso se ne accorga. Viene sottratto al poeta, insieme all’oggetto, il sentimento stesso del dolore.

Come osservazione di eventi che però non vengono semplicemente registrati da un testimone attendibile, i suoi versi mimano il proustiano fluire del sentimento nel tempo, ne attestano [o ne provocano] l’attrito, il rovesciamento, l’imprevisto, di fatto costringendo lo stesso tempo alla recita di un destino. Con la consapevolezza di dover soccombere, il poeta incontra è destinato a perdersi nell’infinito rispecchiamento dei propri versi. Nell’autocelebrazione caparbia del proprio vivere all’estremo. Come un tentativo di fuga, a veder bene, con una certa pesantezza nella struttura che impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri. Sconvolgenti.

È con il suo atteggiamento che Bellezza sfugge a qualsivoglia cristallizzazione del processo amoroso, della propria omosessualità, assestandosi come nel limbo friabile e imperfetto di un suo personalissimo senso di amore, che per affermarsi come tale, deve rimanere sempre potenziale, possibile e mai realizzato, perché il personaggio torni a dominare la persona e la sua lamentosa carica eversiva possa raggiungere nuovi obiettivi e nuovi lettori su cui rovesciarsi. Contemplando se stesso, e pensando così di aver sconfitto il mostro, gli ha invece consegnato la propria vita, quella vera e quella recitata. Come devoto alla gran malattia [AIDS] che mai si sarebbe aspettata.

In un gioco di specchi riflettenti, continua a cantare il corpo, che diviene sempre più oggetto assente, motivo di ricordo. Esattamente convinto di potersi rivolgere sempre allo stesso uditorio. Bellezza non si è mai accorto che il pubblico in sala era ormai tutt’altro da quello dei suoi esordi e che l’eros, minacciato e piagato da nuove paure, piegato a irreggimentare vuoti immaginari collettivi, non poteva più costituire la ragione sufficiente di uno scandalo, ovvero di una richiesta di attenzione. L’eros, davvero non è più scandalo. Ad un certo punto. Lo è viverlo scandalosamente, questo sì, in maniera putrefatta. Ma di questo non s’accorse, il Nostro, pur vivendolo esattamente in maniera rischiosissima.

Veloce rifugge da quei corpi, più rapido del tempo della vita, non ama più niente nei corpi, con l’effetto di perdersi ancor più nei suoi astrusi angiporti. Così la sostanza del pensamento è quella di potersi tramutare in un’ossessione. Ricchissima e stupefacente [ma anche stupefatta] la declinazione di questo tema, e pervasiva, fino a indurre il sospetto che la corrosione fra esperienza del reale e scrittura si sia talmente affievolita in un estremo dannunzianesimo rovesciato di segno.

Esattamente così. Sia nello spaziotempo della gioventù che in quello della maturità, ciò che può giungere a noi frettolosi lettori, finale declinazione dell’ipocrisia che già ci aveva attribuito Baudelaire, è solo – e disperatamente, ma fino a che punto? – un messaggio invivibile, pervenuto da qualche oscura regione del mondo fenomenico o della psiche, estremo proprio come un dubbio ultraterreno. Come esattamente una sessualità vissuta estremamente. Come uno sport fatto di dettagli, di posture, di accrocchi, di sputi sui visi e tremebondi amplessi.

Da qualsiasi punto la si osservi, la sua poesia appare come in eterna fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. È rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Uomo che cerca di corrodere l’Ineterno, con la sua sola ma rumorosa presenza di Poeta, la sonnolenta borghesia romana, l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima.

Nelle poesie degli ultimi anni, non è unicamente un vecchio solitario e malatissimo, è anche un uomo indigente, o si può anche dire più semplicemente povero. Già tanto prostrato, ha avuto, due dolori: la morte del padre ottantenne, e più da vicino il suicidio di Amelia Rosselli.

Nell’ultima fase della sua vita, avrebbe voluto silenzio, discrezione, forse dimenticanza. Non è stato così, i giornali – come ha avuto modo di dire – sono stati di una violenza allucinante.

L’unico Poeta della sua generazione a essere stato incluso nel Novecento di Gianfranco Contini, così anti–eroe e vittima del suo stesso estetismo esasperato ed esasperante, è un antenato plausibile e concreto di se stesso, ma resta uno iato tra personaggio e autore; se il primo fallisce, il secondo si ostina ad andare avanti in un’infausta sovrapposizione di due realtà, arte e vita, tra la fluidità del vissuto e la fissità del bello eterno.  Avanti. Di maschera in maschera, di ordalia in ordalia, e per via morantiana. Poiché penniano non fu mai, questo mi pare di capire. La sola enclave possibile resta quella dell’innocenza animale, del rapporto esclusivo e privilegiato con i gatti. E, forse della stessa sua gattità.

Mi scrisse che non avrebbe più voluto scriver versi – a me che appena iniziavo a pubblicarne – e che sentiva tutta l’assurdità di fare poesia. Più in là mi fece avere, da un amico comune, autografato, un suo libretto sui gatti che era stato tradotto in Spagna. E io già lavoravo nella redazione di “Poesia”.

Narciso immondo e dello specchio restò prigioniero fin da subito, apprestandosi a giocare una partita col destino e con la morte: una partita che è l’anamorfosi dell’invettiva [e dalla licenza, poetica ovviamente], del tentativo di riscatto sociale, dell’affermazione della libertà dell’eros, del superamento della grettezza piccolo–borghese; perché, di fatto, il poeta che si lancia contro la società provinciale resta, anzitutto, il prodotto stesso di quella società, di cui non riesce a coglierne le mutazioni essendone già oltre. Molto oltre.

Di questo incessante teatro dell’eros restano sulla scena piccoli oggetti, fragili icone, tristi sineddochi di un avvenimento che appare già superato nel momento stesso in cui accade, per lasciare il posto a un altro incontro, e prima di questo, all’inesausto vagare, il sentimento del battere, la ricerca del sesso infinito e sconosciuto, sola dimensione di confronto serrato con se stessi e con un desiderio di cui si teme ogni volta il compiersi, sebbene lo si brami: l’amore.

C’era l’ammissione implicita di una sovrapposizione tra io, ruolo e personaggio, quale possiamo infinitamente registrare nel crudele antagonismo dei suoi corpi descritti e frequentati.

La traduzione della rappresentazione in scrittura poetica prende spesso l’avvio, inevitabile, inesorabile, a custodire quel messaggio invivibile che, a volte, condiziona l’intero tracciato di un’esistenza: la fine dell’amore dopo l’amore, la fine dell’innamoramento dopo il sesso, ovvero quando definitivamente cala il sipario, in attesa non della prossima replica, ma di uno spettacolo che si vorrebbe nuovo e che invece si compie nel dolore di una infinitudine di ripetizione coatta e che fa soggiacere tutti noi, che si sia attori o spettatori. E anche il nostro spazio vitale si restringe invece di ampliarsi, la città si riduce alla stanza, la stanza al letto, quel luogo sfatto dove non è più concesso sottrarsi alla proprie contraddizioni, ai propri antagonismi. La meravigliosa pietrificazione di ogni sentimento che dona, a liberazione, ogni atto di sesso fine a se stesso.

Ah, non amare! Non essere riamati! La scrittura, davvero, si offre come moto di distrazione da tutto questo. Tentativo di nascondimento. E nonostante l’amante abbia consegnato all’amato la chiave della nuova casa [un classico in Bellezza] estremo simbolo di una disponibilità concreta solo nello spazio della rappresentazione, il corpo amato se ne va, lasciandolo solo in una tensione religiosa, una specie di evidente tremore per un aldilà senza nulla.

È dunque il corpo lo strumento attraverso cui il Poeta esibisce e declina le proprie ossessioni. La sua presenza, così tenacemente pervasiva di libro in libro, non costituisce un ovvio tratto dominante, ma diviene la sostanza più intima di una ricerca destinata al fallimento. La condizione pasolinianamente “impoetica” del poeta a scardinare il nesso barocco di vita e sogno [di ortesiana memoria, intendo, che Bellezza ripresentò nella sfolgorante riedizione de l’iguanuccia cara] e a fare della dimensione drammaturgica il luogo di una verità possibile, dispersa nella quotidianità del sentimento.

È uno scontro impari col vuoto del silenzio che lo circonda, lo so, ma l’energia della dissipazione mi costringe a un residuo di titanismo, appena sufficiente a motivare il tentativo di un riscatto, per lui, almeno sul piano collettivo. Così spiegato, allora, lo spostamento retorico di un mio sentimento che parrebbe impossibile per chi poco mi conosce, che «senza rancore» continuo a richiamarne l’attenzione verso questo Poeta quasi dimenticato, tramutandola nell’ennesimo correlativo dell’abbandono: di un abbandono in atto, che si ripete ad ogni rilettura di ogni suo testo, evento avvenuto e potenziale al tempo stesso.

Ma, nonostante il mio movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarlo e comprenderlo e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente. Come una voluta barocca Bellezza mi sfuggirà. Giacché, come si sa, a voi stessi sta sfuggendo.

Ebbene a rileggerlo ci si accorge che il campo che si disegna è delimitato non solo dalla realtà, da un lato, e dall’altro dalla finzione – ciò che semplificherebbe sia il ruolo del lettore e il compito dell’interprete, sia la dinamica stessa dell’officina di Bellezza – ma anche dal modo in cui la realtà quotidiana è filtrata dall’esperienza ancor prima che dalla scrittura, il vissuto. Infine, a chiudere il suo spazio letterario così fascinosamente ombroso e asfittico, è la proiezione dell’io lirico come protagonista di un teatro della passione erotica, la trasgressione e rottura degli schemi sociali precostituiti.

Ma si sa che il linguaggio della poesia può supportare – e lo fa, a volte – tutte le soluzioni. Il poeta è ormai travolto da questa malattia terribile che è l’Aids, da questa infelice condizione che avrebbe voluto tenere nell’ombra e in questo senso l’atteggiamento fondamentale di tutta la scrittura di Bellezza s’impone sul piano del visivo piuttosto che in un’ottica concettuale: incapace di sciogliere i propri nodi, rimane al di là della scena da lui stesso allestita con una regia sapiente quanto penalizzante per se stesso.

L’amante e l’amato, distratti nel loro eros effimero, o, con un plurale istrionico, il poeta che ricordando scrive quando già l’amato è entrato nel limbo delle icone, dei simboli della passeggera eternità dell’amplesso, della goduta.

Autenticità del dolore. Una raffigurazione di un modello culturale ancor prima che psicologico e la rielaborazione della perdita è tutta affidata al dire poetico, ma non in chiave consolatoria e neppure esorcistica. È l’incontro dei corpi, il fisico toccarsi e intrecciarsi, complesso e sempre differito in un eterno ritorno impossibilitato, poiché, nel frattempo, un altro antagonista, più volte evocato, interviene a rompere il meccanismo di un corpo ripudiato, socialmente esecrabile, vittima e carnefice di se stesso che si confessa, una sostituzione continua di amati  e di amanti, come unico farsi primario di quella scissione che sverna nel tempo del sentimento, rinviandolo, spingendolo fino ai confini estremi e raggiungibili della morte sul letto.

La creaturalità offesa dalla storia.

Bellezza usa strumentalmente la poesia, è palese proprio nell’effetto melodrammatico di molte sue soluzioni. Una scrittura che sì oscilla tra perizia e programma e che, clessidra dei sentimenti e dei giochi erotici, gli ha giocato un pessimo tiro, l’ultimo, il letale, richiamandolo a una concretezza dell’essere fuori da ogni rappresentazione. Proprio la coazione all’eros, come motivo, sembrerebbe stabilire una diretta linea di discendenza da Penna e dal poeta delle borgate, ma l’immagine innocente del fanciullo, icona di un desiderio assoluto prima che di una pulsione, è assente dal suo orizzonte, frequentato piuttosto da emarginati e da una sessualità spesso in vendita, corrotta e corrosiva [se questa espressione è ancora lecita, se non fa sorridere i cinici ad oltranza]. Davvero la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo della malattia e della morte.

La maschera sostituisce la persona, il personaggio condiziona il poeta. Il quotidiano incombe imponendo uno iato tra la scena della rappresentazione, che prima o poi dovrà concludersi, e la sosta necessaria al compiersi di una vera esperienza. Forse la definitiva. Ma prima di qualunque ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente – fino ad oggi, fino a noi – che non vuole e non sa guardare al futuro, nemmeno costruirlo intende, il corpo è la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e di ben più reali ripudi. La tensione è palpabile: la si avverte già nella cantilena del ritmo, nei componimenti più ampi, e in un nervosismo finanche arcaico della sintassi che informa di sé tutta la poesia di quest’autore. Nell’istante stesso in cui descrive e si descrive, il soggetto ha già indossato i panni dell’attore, così compiendo una rimozione radicale del concreto.

Non è un motivo nuovo, quello del furto d’amore, non per questo banale, almeno per come l’autore lo declina. Ma si sa. Ogni ossessione genera contrasti, più o meno feroci o invasivi: si viene sempre a creare una pericolosa terra di nessuno tra il dominio del principio di realtà e le spinte centrifughe di un principio opposto. E le ossessioni non esistono per questo Poeta ma incarnano direttamente l’istintiva naturalezza di un mondo creaturale, libero dagli spettri della cultura, e dunque dal peccato. Oltre il mondo animale. Il sesso come emblema di se stesso e della propria ripetitività. Ecco che il corpo torna ad avere un referente, ma distante, ormai invisibile, mentre se ne ammette a piena voce, ma sempre dal proscenio, l’adorazione e non più soltanto.

Un poeta che vive la corporalità come scissione: esiste il corpo dell’amante, quindi il corpo dell’amato, infine il corpo del nuovo amate che diventa amato per essere sostituito da un nuovo amante che diviene l’amato all’infinito ed è quest’ultimo, ancora, a condizionare fisiologia e ritmi degli altri, a farne costanti proiezioni di sé sulla scena di una teatralità sempre esibita con ripetitività. E questa consapevolezza genera una struttura elegiaca, più evidente man mano che ci si accosti agli ultimi libri; il racconto della fisicità propria e altrui oscilla tra pietà e rimpianto, tra occasione e rimorso senza che sia risparmiato particolare alcuno del degrado.

Questa tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. Racconta il proprio spazio drammatico, partendo da un dato astratto ma fortemente evocativo, ribadendo nel colloquio l’assenza di una fisicità e asserendo, con estrema compattezza visiva, che quel corpo è ormai svanito, lasciando tristi tracce ovunque. Se di barocco si può parlare, per quest’autore, è soprattutto in virtù di questa anamorfosi, proprio laddove il dettato sembrerebbe sedarsi in una serie di immagini pacatamente affettive, in una lingua classicamente meno atteggiata.

La sua poesia si rispecchia in una lente deformante e lascia trasparire il fondo della sua più autentica libertà, almeno come aspirazione. Una narrazione allo stato puro, finzione che sposta quasi incessantemente l’asse dell’esperienza verso quello della rappresentazione. Bellezza ci restituisce con ogni probabilità l’immagine di sé più densa e credibile; ed è proprio quella negazione a rendere l’autoritratto una rappresentazione tutt’altro che mimetica.

Tutto è assai eloquente, ribadisce la coazione a un eros insoddisfatto, fa della ripetizione il segnale dell’ossessione e soprattutto ci mette a parte di come Bellezza tenti di risolvere il proprio sentimento del tempo con una banale operazione aritmetica, moltiplicando all’infinito i suoi incontri in una rincorsa affannosa quanto inutile, come a voler essere più veloce della vita stessa e del proprio tripudio d’amore e sesso, ma con l’effetto soltanto di anticipare quello che è già contenuto nella sua confessione: il corpo sfiorato è infine il corpo sfiorito, consumato negli eccessi, dai mille e mille corpi che restano, per sempre, ragazzi.

Un eros quasi astratto, proprio quando ne esponeva i dettagli. Flusso sentimentale altrimenti inconfessabile in tutta la sua fugace concretezza. Registro da opera o da romanza. Storie vissute all’insegna di una balda e passeggera eternità, che si tramuta in qualcosa di assoluto, perfino in qualcosa di malato. Una sessualità coatta che si traduce, in quanto espressione del poeta, in evento sociale, in atto performativo.

E qui chiudo, pazienti lettori.


venerdì 23 febbraio 2024

El Horno (capitolo A)

A dargli tutto quel tempo che gli occorre, Skeeen è davvero capace di provare e d’impartire l’estasi esattamente lungo tutto quanto il locale… Skeeen non può proprio celarlo nemmeno a se stesso: a mala pena domina l’ansia che in quest’attimo l’assale, allorché, sospinto dal suo stesso interesse si risolve a trascrivere soltanto mentalmente – ma accuratamente, ma molto al di sopra di enigmatiche parole, come fosse una cosa attigua a carceri questo pensamento, come fosse suo remoto parente questo strazio straziante che strazia ma come costretto fosse a conviverci, come fosse un orizzonte velato e oscuro, come fosse un piano secolare, come fosse un mandamento ma orrendamente divino -, la copia affrettata, come fosse, di tutti quanti gli avvenimenti passati e anche futuri della sua vita… e via, e via, e via… ma proprio alcuni di questi avvenimenti, già da molto prima d’incominciare, hanno animo – muto forse, silenziosissimo ma simile a tifone grandissimo – adulto e fanciullo insieme: terra e melma e paura brulla e quasi mancamento e ancora lontananza da primissimo desiderio sono questi avvenimenti. niente d’altro da aggiungere, niente d’altro da dire:

A dargli tempo, quindi, Skeeen è proprio capace d’inebriarsi, d’ubriacarsi nel cuore stesso dell’inferno abissale de El Horno: “il nome del posto è di per sé già strano, è come meraviglioso presagio, non tanto allettante ma come non cedere alla tentazione”, dice nella sua mente Skeeen, “al disarmo totale che prevede un luogo come questo: le luci appena visibili colpiscono in tutta la loro vera crudeltà: una poesia del trasalimento” e via, e via, e via,...

https://ebooks.gaiaitalia.com/prodotto/elhorno-di-bo-summers-a-cura-di-fabio-galli/

prepotenza del verbo...

Prepotenza del verbo e invadenza del dire sono punti davvero focali in qualunque educazione poetica, ove le nominazioni effettive, la purissima matrice del dire, contrastano con la ruvidezza delle parole, più o meno violente.
Oltre al totale asservimento fisico, alla brutalità pornolalica, il poeta vuole squassare il suo stesso ordine interiore e annullare la pochezza della recita affabulatoria, smantellando la mente. La scrittura, umiliata esecutrice, è deresponsabilizzata da qualsiasi colpa del dire, mentre viene portata a confondere dolore e godimento linguistico.
Io-lirico è inserimento di considerazioni estemporanee e rare battute di dialogo col reale, sempre senza alcuna avvisaglia d’interiazione. Il poeta approva il comportamento di tutte le parole pur domandandosi se sia corretto, ancora, oggi, il “fare” poetico per godere dei tanti oltraggi al suo essere pudore nell’annunciare.
Un’accesa dimensione quasi sensoriale che porta epifanicamente al suo stesso passato, a ritroso nella falsità delle vecchie relazioni del dire assoluto fino a giungere alla posta in gioco di verità del presente di foucaultiano ricordo.
Per quanto la poesia cerchi di ridurre il rapporto a puro esercizio di narcisismo egoistico, il piacere del gioco linguistico subentra principalmente in una dimensione tutta psichica [quai onanismo fosse della parola] e, per quanto la poesia si veda lontana dall’attaccamento al vero reale, raggiunge un interno ed eterno riposo manifestandosi quale richiesta di un completamento reciproco con il poeta stesso, risposta ideale agli imperativi tutti.
Ma qui il desiderio dello scrivere è meno materialistico. Il poeta chiede, infatti, ciò che la poesia può dare, ovvero una traduzione dell’atto dello scrivere: come una libertà dimenticata e andata, congedata dal bacio minutale, in balia di quanto accaduto e deceduto.
L’io-lirico non si stupisce, mai. Solo questo senso dello scrivere esercita un simile potere. Niente altro e imputa la sua terribilità nel godere all’intasamento mnemonico della parola desiderata, che non si straccia per lasciare spazio al presente storico.
Solo nell’ineffabilità del poetare si vince la resistenza della mente che si sente compresa e presa per cosa realmente è, un intendimento che supera gli stilemi.
Essere in completa balìa, fa saggiare l’esperienza della morte, da cui ci si risolleva di colpo col godere: ancora una volta, il superamento del principio di piacere porta l’io lirico a non ricercare affatto il proprio bene, ma a rincorrere ciò che intacca la capacità fisica ed emotiva di mantenere un equilibrio interno possibile.
 
(22 aprile 2016)

mercoledì 14 febbraio 2024

la poesia medicinale di Sandro Penna


Immagine mostra. Umberto Saba. La poesia di una vita

“Certo, vien fatto di pensare che la miracolosa perfezione di certe sue cose, la vergine rivelazione di certi suoi versi, che, la prima volta, ci fecero pensare addirittura al giovinetto Rimbaud, i limiti stessi di quel suo affettuoso e trasparente mondo poetico non comportino svolgimenti e arricchimenti di sorta. Penna è quello che è: un dono da prendersi o lasciarsi, come le cose della natura”. Parole di Sergio Solmi, scritte nel ’39.

“Poeta d’amore” si definì, polemicamente. E poeta orgoglioso del suo eros finocchio dichiarando con Satie: “Io non sono omosessuale, sono pederasta”. Non che i tempi, allora, fossero, più facili, e definirsi pedé non era certo cosa di poco conto. In Italia, poi. Già allora pedarasta era sinonimo di pedofilo. L’omosessuale concupiva i bimbi. Già allora. Non che fosse più facile. Oggi sembra tutto più semplice, perché “le cose cambiano” con Carlo Gabardini che ci rappresenta orgogliosamente ai nostri orgogliosi Pride, che è una vita che ci mettiamo la faccia e le chiappe per farli, e che noi siamo stati il carrozzone di Carnevale e tutte quelle robe qui.. e vabbé. [primo svarione]

Una parsimoniosa produzione poetica, la sua, edita poi in unico volume da Garzanti e affiancata da scrittura di novelle, raccolte, anch’esse in parte, sotto il titolo Un po’ di febbre sempre da Garzanti. Poesia caratterizzata da sentenze e massime morali, vero e proprio gioco, continuo osare per cui di fatto si nega l’epigramma con l’epigramma, la sentenziosità con la sentenza.

Non è offensivo dire che la felicità poetica di Penna non ogni volta raggiunga altrettanta pienezza: spesso non va oltre i primi versi [“attacchi” memorabili], come se il botto iniziale a lungo accumulato esaurisse in quel primo contraccolpo tutta la sua carica. Ho imparato molto da questo. Perché questi son proprio i difetti, i rischi, connaturati al dono poetico, e  non eliminabili ma quel dono, in tempi come i nostri, appare più che mai prezioso.

Ma come si potrebbe definire Sandro Penna? Una tra le voci maggiori del ’900 [Pasolini], un piccolo miracolo [Saba], un alessandrino, un poeta della Palatina? … oppure considerarlo un emulo di Saffo, di Alceo, di Anacreonte? Un personaggio di Durrell, forse?…

Risposte davvero infinite. Fu poeta libero, questo sì, colto, uno nomade dell’eros a proprio agio in un mondo senza storia. Nella solitudine assoluta del suo comodino stracolmo di medicine. Di rimedi chimici alla sue malattie vere e presunte. Un eremita. Un brontolone. Un rompipalle notturno che chiamava il designato di turno per dirgli che stava male. Un solitario, a caccia di corpi. Con un senso di mancanza.

Una mancanza. Così come lo è questo nostro vivere odierno: il nulla assoluto, lo svuotamento senza memoria, soltanto presenze per postura, ammiccamenti, per un esserci poiché così si deve fare, altrimenti non si è. Cioè non si è ghei se non si fa l’outing, che pure a me l’hanno detto di farlo che son ghei da quando avevo i miei bei 15/16 anni e già a 18 me ne andavo a battere da tempo sulla Fiera, fiero già allora.. Ci si appalesa, oggi, si esce dall’armadio [che già lo cantava Lou Reed ‘sto fatto di saltar fuori dall’armadio, ma lo cantava negli anni ’70] e da quel momento si diventa il mito da imitare scrittori e militanti, vestali del Mieli o Arcicula perché così deve essere, perché “io so dire e fare e brigare e voi no. E scrivo su questa e quella testata e quindi ciò che dico assume carattere di verità [vanità] e decido io perché dell’arci sono”. Sarà che io sono un antico, forse più barbaro che greco, e allora vi dico che un Penna può e deve ritornare anche oggi, senza mediazioni e compromessi, nelle nostre letture e nei nostri qua-qua di opinionliderghei dell’ultim’ora che a me, personalmente, mi pare si vogliano mettere la cravatta del civile, con le civilnozze che sembra l’unica cosa che c’han nel cuore. E ho scritto cuore per non scrivere di peggio. [secondo svarione]

Un “istintivo”, un primitivo, formatosi alla scuola della vita più che alle altre, ebbe una certa diffidenza per ogni giudizio critico che cercasse, definendola, di storicizzare la sua arte. Seguitò a rimanere non intrigato, come per cosa che riguardi un altro, e diverso, da sé. Diffidente. Condusse per tutta la vita un’esistenza appartata, preferendo alle occasioni mondane la compagnia dei suoi “amorazzi”, e vivendo di lavori disparati, dalla “borsa nera” durante la guerra fino al commercio d’arte. Di tutti i suoi amori, quello più forte, quello più vero fu per la vita, non per l’immortalità, e ciò avviene per ogni eluso od illuso amatore.

Non volle certo lasciare ai posteri foscoliani monumenti o lunghissimi carmi, la sua poesia non è che il diario quasi monotematico di un amore per alcuni aspetti del reale, ripetuto in infinite varianti, in una coazione a ripetere, un loop che è fonte di continuo e ripetuto godimento, insopprimibile anche nel dolore, “ma Sandro Penna è intriso di una strana gioia di vivere anche nel dolore”.

L’istintività non si limita al campo della cultura, ma investe la ragione stessa del suo poetare: è il poeta della vita libera dei sensi, di qua dalla riflessione, dal razionale, e, quindi dalla storia. Che non è di certa questa nostra miseranda storia che ci vuole incasellati in civilnozze di serie B, nell’irrigidimento delle nostre affettività vicino il più possibile a ciò che è civiltà, o un’idea di tale. Inquadramento. [terzo svarione]

Mirabile, come, con una tematica così circoscritta, entro un orizzonte necessariamente limitato, trovi sempre nuovi incentivi e nuove modulazioni. Ritmo, a volte addirittura sincopato, e insieme filato come un respiro: diventa un fatto di natura, pur essendo sempre elaboratissimo e vigilatissimo nella tecnica e nella sintassi, nella metrica e nella parola. E tutto ciò giova a caratterizzarlo perché quella fedeltà ai modi epigrammatici altro non significa che, nel suo mondo poetico, non c’è stato nessun profondo sviluppo.

Io tifo ancora per quel vitalismo alimentato da una gioia dei sensi ebbra, seppure ombrata di malinconia. Un impressionismo che riesce a contenere la propria estuante sensualità nel giro di pochi versi, nel pregnante nitore di sperma dove il rapporto parola-colore si esala in vaghezza musicale. Ecco, questo ancora vorrei. Amici miei ghei. Ma che ve lo scrivo a fare.
Voglio tornare ad essere ancora il “fiero pasto” di troppe pruderìes, fonte spesso di incomprensioni feroci di tanto debole maschilismo o di dolciastre adesioni, puramente tematiche ma spesso altrettanto incomprensive. [quarto svarione]

A me della sessualità altrui, ben poco interessa, non è questo il punto: ognuno sia nel suo talamo Sovrano, rispettoso nel rispetto. E comunque, anche se di fanciullo non si trattasse, dai versi del sensuale immoralista promanerebbe, quasi feroce, l’insopprimibile istintività dell’amore. Ciò nonostante, non ci si può esimere dal rilevare che il vocabolo-chiave è “ragazzo” nelle diverse accezioni, spesso in quella dispregiativa ma non priva di segreta gratitudine, di “ragazzaccio”. Il ragazzo è la forma, il corpo presente e pulsante dell’amore carnale ed è, di volta in volta, fanciullo, operaio, garzone di fornaio, cameriere, giovanotto, giovin signore, barbiere, ciclista, caldo animale, bestia da monta… è tutto questo che impaura il perbenismo becero: la nostra sessualità e non la nostra affettività. Ecco cosa temono. Le nostre erezioni, non questa insegnata dei matrimonii. È parvenza, fumo negli occhi. Non è questo il punto. Io voglio vivere la mia sessualità a prescindere da un matrimonio o no. [quinto svarione]

Il “tempo” di Penna non è storico, ma biografico: è l’alternarsi dei mattini, delle notti, delle primavere e delle estati perché le uniche storie accettate sono storie d’amore. Un vigoroso fuoriclasse. Originalità espressiva e molteplicità di riferimenti che suggerisce appena in una sorta d’autoironia erudita che volutamente dissacra ogni possibile ascendenza culturale. Essa evidenzia una grandissima libertà di formule e soluzioni, un gioco a volte parossistico, a volte rischioso, di rime, allitterazioni, assonanze. Un gioco molteplice, allusivo, presenza di spirito e contemporaneità che, col cavolo!, oggi leggo in tutti questi balbettanti ragazzoni che devono metter su famiglia. Voglio riconosciuti i miei affetti, io, voglio scopare con chi mi pare senza dover dire “vedete che mi marito? Che metto su famiglia? Son buono quanto voi? Lo vedete?” io non voglio una legge che mi accomuni a queste cose.. questa non è la rivoluzione, no. [sesto svarione]

Ripetizioni, endecasillabi, ottonarii, versi sciolti, ora aspri e trascurati, ora quasi stucchevolmente musicali, a volte consonanti con l’esasperazione di alcuni toni che qualcuno definì sgradevoli e smancerosi. Lontano da Kavafis anni luce, bizantino decadente e non alessandrino, anche se si è voluto vedere in lui la storia come “maschera”. Grazia espressiva che rende puro e leggero ogni suo estro, anche quelli insorgenti dal fondo più torbido della sua sensualità, quelle raffigurazioni – così insistite da assumere valore di simbolo – di marinai, operai e soprattutto ragazzi, messaggeri di un mondo restituito alla libertà degli istinti, e per di qua, ancor esso, dalla razionalità e dalla storia, con esiti che, anche se spesso non vanno oltre la notazione frammentaria, sono felici. Una libertà di istinti, estinta, oggi. Paurosamente accantonata. Debolmente affievolita da richieste civili. Ma io voglio essere ancora incivile. Voglio che mi venga ridata la mia sessualità. Questa devono temere. Arco e freccia pronta a colpire laddove il sociale e il civile non mi corrispondono. Per nulla. Rivoglio la mia realtà e la voglio poter vivere come voglio. Non questa parrocchietta del buonismo matrimoniale. [settimo svarione]

E la città è spesso nemica, piovosa o buia come nella pittura di Sironi, mentre i paesaggi solari richiamano a volte Carrà o Rosai. I colori si accompagnano ai sensi, e ai sensi si accompagnano agli odori. Il tutto fuso in una forma stilistica talmente sconvolta e affascinante nella sua ingenuità, da far dimenticare ogni colpa letteraria o culturale. Per Sandro Penna, il sesso è il tema dominante, calda e animale fisicità, sensualità data a priori, è il centro della vita, connessa prepotentemente al gioco dei mattini torpidi e delle sere inquiete, dei pomeriggi in cui anche la malattia rinfresca ricordi non rimossi.

Il sesso è onnipresente nelle delicate poesie di Penna. Ai critici che, pur trovando di grande valore artistico la sua opera, giudicavano “sconveniente” la sua insistenza sul tema del sesso omosessuale, Penna ribatté con versi di sfida: “Il problema sessuale / prende tutta la mia vita. / Sarà un bene o sarà un male/ mi domando ad ogni uscita”.

Le stagioni, il tempo, le esperienze, sono circoscritte da direzioni infinite entro le quali si muove la sua poesia e il movimento vitale dell’amore. Il movimento è ricerca continua e nomade di ogni possibilità di osare, di amare. Il sentimento del battere, che ogni omosessuale ben conosce. Anche se oggi si finge di no. Ma la nostra sessualità è questo. Siamo liberi. Non dobbiamo incasellarci. Rivoglio tutti i vecchi simboli del Movimento, rivoglio la libera sessualità, il poterla vivere senza essere aggredito o dovermi conformare ad un pensiero etero che mai non è stato il pensiero omosessuale. [ottavo svarione]

L’influenza di Penna sui giovani omosessuali italiani dovrebbe essere  avvertibile in modo netto, al punto che non dovrebbe essere eccessivo poter parlare di un suo influsso “formatore” sulla pensiero gay italiano contemporaneo. Ma non è così, in questa italietta da poco. Fatta ancora oggi di restrizioni matrimoniali e nessun mutamento reale.

Vita e sensualità, sessualità e peccato sono una sola cosa per questo popolino dell’italico pensare odierno: “Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi”. E il rischio della propria visibile libertà è l’inevitabile conseguenza della necessità di “osare”, osare l’amore, la propria sessualità a qualsiasi costo. Senza compromessi: “Amore, amore / lieto disonore”. [ho perso il conto degli svarioni]

so che avrete da ridire, lo so, questo è il mio Sandro Penna, attualizzato, saluti, Bo.

 

 

 

 

 

(18 giugno 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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sabato 13 gennaio 2024

bio/biblio

Poeta, narratore (Vigevano, 1961), è stato redattore della rivista Poesia (Crocetti Editore) e ha lavorato come redattore esterno per il gruppo Elemond (tutto questo nel secolo passato).

Con lo pseudonimo di Bo Summer's, attualmente collabora, in qualità di blogger, al quotidiano digitale https://www.gaiaitalia.com/, dove alla sezione cultura ha una sua rubrica, https://cultura.gaiaitalia.com/cat/zio-bo/, nella quale prosegue il suo lavoro di ricerca sulla scrittura. Recentemente l'autore ha pubblicato, in formato e-book, due libri: "Storie", una raccolta di racconti di Bo Summer's e Soufiane El Khayat, e il romanzo sperimentale "#ElHorno", alla stesura del quale ha lavorato per dieci anni, frutto di una lunga ricerca stilistica caratterizzata dalla destrutturazione del testo attraverso l'utilizzo della tecnica del cut-up, cara a Tristan Tzara e mutuata in seguito da William Burroughs.

come Fabio Galli:

Poesie su Antologia "Trame della parola" a cura di Antonio Spagnuolo, edizioni Tracce, 1985

"Impura", edizioni Tracce, collana I campi magnetici, 1986

"Di una lettura di The Waste Land", breve saggio sul poema di Thomas Stearns Eliot apparso su "Post Scriptum", aprile 1988, ripubblicato da gaiaitalia.com

"Caròla", Crocetti editore, 1992

"Balli e canti", Pulcinoelefante editore, 1993

"Melancholia" - versione da Paul Verlaine, sezione d'apertura dei Poèmes Saturniens - edizioni L'Obliquo, 1992 (con serigrafia fuori testo di Bonomo Faita), ripubblicata da gaiaitalia.com con un testo introduttivo sulla traduzione

"Prima, nella storia, ancora", Bandecchi e Vivaldi editore, 1995

"A Marino per Moretti", quaderno collettivo, Casa Moretti, 2000

come Bo Summer's:

"Storie", racconti di Bo Summer's e Soufiane El Khayat, e-book

"#ElHorno", romanzo, e-book

https://ebooks.gaiaitalia.com/prodotto/elhorno-di-bo-summers-a-cura-di-fabio-galli/

"Orgasmica", racconto in “ Il foglio clandatino, aperiodico” n°86/87

domenica 24 dicembre 2023

la cultura come diritto umano fondamentale

Il 5 ottobre 2014, a Roma, incontravo, in qualità di curatore dell’opera omnia di Bo Summer’s, i suoi lettori, un incontro con un argomento che era quello della persona Bo. La persona che dovrebbe essere poi lo scrittore. La pretesa di raccontarne una genesi, uno sviluppo, una fine. L’idea stessa dello scrivere. Ne riporto di seguito, come per dovere di cronaca, e per chissà chi, le tematiche e i testi. Un compendio per chi non conoscesse.
da “Pillola” [storia di AIDS semivera e romanzata]
“Cioè dicevo che gli effetti collaterali della Pillola indicati sul sito dell’azienda produttrice, cioè ci sono un quantitativo eccessivo di acido lattico nel sangue che induce a debolezza, cioè dolori muscolari, difficoltà respiratorie, nausea, vomito, aritmie cardiache, brividi di freddo, febbre, problemi epatici, sovrappeso, cioè nervosismo a 1000 che intacca pure il sistema nervoso, se non lo sapete e in alcuni casi anche la morte. Cazzo è una roba da bestie, cioè una cura che ti spappola anche il cervello e un po’ la memoria che va a farsi fottere anche lei, e i vomiti e le nausee diobò”.
“Ho ancora il libretto che mi hai dato”, ha detto.
“I risultati finora ottenuti fanno ben sperare, soprattutto perché sembra che la Pillola non dia effetti collaterali a lungo termine, e l’unico inconveniente riferito sembra essere il mal di testa”. Sì, vabbé, questo dicono.
“Io non cerco qualcuno che mi consideri come GOOGLE e mi chieda 1000e1000 informazioni sul cosa e sul come e sul perché, dato che ci sono tanti siti in cui trovare informazioni sulle malattie sessualmente trasmissibili e, nonostante il mio stato, ci tengo ancora molto alla mia salute e cerco di preservarla il più possibile. Attualmente non sono in cura farmacologica, ho una carica virale attiva, anche se non esagerata, meno di 2500, ed ho i cd4, gli anticorpi che il virus dell’HIV cerca di distruggere, che, per il momento, sono alti: 1097, tenendo conto che una persona sana, ne possiede tra i 700 e 1400 diciamo che non si può dire che son messo male”.
“Ma insomma, tuttavia, ho delle forti perplessità su questa Pillola. Cioè io ho un mio amico d’infanzia , quasi come un fratello per me, che abbiamo fatto tutte quante le scuole insieme asilo, elementari, medie e superiori, che dopo una relazione etero, è bene dirlo e che cazzo!, si è scoperto sieropositivo e da sei anni, come terapia, gli viene consigliata proprio la Pillola.
“Mi piace baciare, fare le coccole, farmi accarezzare, fare l’amore, dare e ricevere piacere. Cerco persone con le quali interagire, possibilmente nella realtà, e non solo in chat, persone positive, non necessariamente in tutti i sensi, e con le quali relazionarmi in modo costruttivo, il sesso non sempre è necessario”.
“Questa malattia che è una invenzione dei media per attaccarci e non lasciarci la nostra libertà animale… i casi sono rari, non è come la descrivono la situazione in America, non è vero che la gente muore, io guardo prima una persona, si capisce se uno sta male o no” frasi ascoltate veramente, in quegli anni ’80, frasi che ancora oggi s’ascoltano.
“Sei molto gentile a dire tutte queste cose ma stai diventando drammatico. Non è tanto un atto di coraggio perché si tratta di un atto di temporizzazione. Cioè come aspettare il tempo giusto per morire, come ad aspettare fino a che non si ha finita la libertà vigilata per fare sesso”.
“Sono d’accordo la situazione è scioccante, c’è da dire, ma non è senza speranza. L’infezione da HIV è ancora evitabile. E c’è un modo, un unico modo ma non lo si pubblicizza abbastanza, è normale che sia così, ora, dopo anni, si è tornati al punto di partenza. Lo vedo, cazzo!, lo vedo nei locali come si fa ed è come non ci fosse mai stata la paura e il ragionamento è che tanto c’è la terapia mica si muore più. Questa è la realtà. Porcaputtana”.
“Sono positivo del virus HIV da molto tempo, ormai, come passa velocemente il tempo, e tutto sommato vivo abbastanza bene la situazione e così ho ancora un qualche problema a fidarmi del prossimo visto che, chi mi ha reso HIV positivo, era una persona di cui ero innamorato e mi ha nascosto, tra le altre cose, di essere sieropositivo, addirittura presentandomi analisi false e poi sono anche empatico e sensibile, dicono simpatico, gaudente e goloso, semplice e sofisticato allo stesso tempo, mi dedico, a tutto ciò che mi comunica benessere e piacere, sono attento ai dettagli, fin troppo”.
Delle chat e altre amenità
adesso ve lo chiedo: ma voi le chat porno le frequentate? Se sì, alzate la mano. E comunque, io, frequento le chat, specialmente le videochat: dovreste veder le facce (quando non si vdono altre parti anatomiche, naturalmente) delle personcine e modino che stan lì dentro… e comunque, spesso, nelle chat, ci son delle presentazioni scritte che mi piace di riportare, fare cassa di risonanza:
“Si astenga dal contattarmi, anzi non serve dar del lei se l’educazione è stata disintegrata dalle cattive abitudini , per cui NON CONTATTARMI SE : non scrivi un clinz nel tuo profilo!!! (clinz = niente )….o se ometti ogni o parziale informazzione !! hai un’età?? scrivi quella che hai o almeno dillo a me!! sei attivo ?? scrivilo !! sei sposato etc etc ?? dillo!! mi son rotto la minchia (MINCHIA = CAZZO PENE VERGA PISELLO) di perder tempo con anonimi del cazzo!! di fatti da oggi in poi eviterò pure di chieder chi sei ….come ti chiami …. che faccia hai …. manda una foto più decente etc etc …. per cui se sei gay sforzati di civilizzarti !! se sei “frocio” non fai per me !! in quanto gay (e fiero di esser gay!!) cerco di viver la vita senza mentire a me stesso o a chi frequento!! non son tipo da botta e via! …. non cerco malattie ne malati …. cerco gente che sia risolta con se stessa!! …. ps: a tutti coloro che credon che son frustrato o roba simile dico: GUARDATE VOI STESSI!! andate a far dell’amore ….o se preferite del sesso ….ma fatelo con cuore e cervello aperto!! non deformatevi la realtà a vostro piacimento!! vivete per la qualità della vita!! e non per la quantità!! ….ok ?? e se non è ok ciava zero!!(ciava zero = frega niente!) io non attacco nessuno!!! ….ma occhio a ciò che dite e o mi fate ….perché in guerra ( anche se non la cerco e non la voglio) ma in guerra tutto è concesso!! ok??
NON MI CONTATTINO Coloro che han foto scattate a 56 metri di distanza durante un eclisse solare, con una tempesta di sabbia in atto e per giunta il fotografo sofferente da una accoltellata al pancreas e con l’halzaimer!! sfocate ,parzialmente modificate e o rimpicciolite a tal punto che mi serve un microscopio professionale per visualizzarne il contenuto!! mi fate ridere!! siete solo cagati dall’esporvi !! (ma lo posso capire… solo che magari se evitate la scusa: non avevo altre foto , non so come metterne di nuove etc etc … ci son skype e msn per compensar a questo ….ma evidentemente credete di esser super furbi ?? chissà magari lo siete …. ”
sulla comunicazione, ad esempio, sono andato fino a Roma per dire: 
se disegno una forma su di un pezzo di carta, compio un atto che scelgo in base all’esperienza della mia situazione; cosa ho esperienza di fare, e qual è la mia interazione col Mondo fuori dalla mia esperienza di scrittura sul pezzo di carta? Nulla.
Jobo è un racconto di Bo, dopo la serata qualcuno mi ha detto che in redazione erano arrivate email che dicevano che non si può sempre rappresentare un gay in questo modo:
Avevano camminato almeno un paio di chilometri dietro di me e tutto stava concludendosi con un ospintone e qualche buffetto?
Avevo cercato di cancellare tutte queste sensazioni malate ma quel gesto fu una vera riveazione.
Avevo interrotto il cerchio dei loro corpi sul vagone della metropolitana per passare e per andare oltre e per lasciarmeli deinitivamente alle spalle. Immaginavo che a muta fosse formata da prdatori armati che amano solo le prede vive. M’era parso di cogliere il loro sguardo quando me li ero trovati davanti. Faccia a faccia.
Bo Summer ha narrato
la nascita del fetish, il voyeurismo, il trimmer, goldenshower… e di altre amenità. Ma in pochi si sono accorti dello stile e della scrittura.
Ha raccontato un mondo a parte. Un minuscolo e miserrimo universo parallelo. Tutte le voci, le intenzioni, gli intendimenti, le parodie sono state come remixate in un piccolissimo e annoiatissimo teatro di volti rifratti, con la nenia romanzesca di un poetucolo minore, ormai scordato dal mondo letterario e mai entrato a farne parte veramente, che narrava, inascoltato quasi, ogni volta, con suono querulo e petulante, obbedendo esclusivamente e caparbiamente all’ispirazione della sua sessualità disinvolta e mai tradita e poi ancora s’arrabattava a confessare con affanno, quasi masochisticamente, al primo lettore che mai gli capitasse a tiro, il proprio sesso felicissimo, le proprie depravazioni risolte, le proprie trasognate avventure erotiche, a volte addirittura rocambolescamente realizzate, le livide striature del suo corpo e del suo animo divelti che sono come marchi d’una fin troppo assaporata e privilegiata cattiveria desiderata.
breve nota:
tutta questa roba che vi racconto, tra il vero e il fantascientifico, è vera e fantascientifica. Ho lavorato sull’allusione poiché troppe e tali sono le aspettative che non me la sentivo di far comprendere appieno la realtà. Molti fatti narrati son veri altri inventati per stupido piacere narrativo. Non volevo che alcuni si potessero riconoscere tanto è il dolore di questa verità. Direi che il risultato non cambia, pur avendo, a volte, esaltato, inventato o riportato falsate statistiche ed eliminato o artefatto nomi o altri fatti e persone cui faccio riferimento. Chi potrà capire a fondo, capirà, ad altri rimarrà un terrorifico racconto che instillerà loro il dubbio. Almeno, spero.
riprendo la lettura di “Jobo” spiegando che Jobo è il nome del protagonista, un nome di pura invenzione, che quel nome non esiste e che quindi anche i fatti narrati non esistono.. mi fermo.. forse sorrido.. e aggiungo che se quel nome fosse reale, allora anche quei fatti sarebbero reali:
“Brutta checca, frocio di merda.
Capii soltanto che probabilmente avevo interferito in una loro impresa. Avevo assunto ai loro occhi non so più se il ruolo del testimone di un gioco e di un ruolo che mi fece diventare il nemico.
Cose ovvie di questo genere. Voci. Sciabordii. Ma che mi producono un certo quale effetto di sottomissione. Un orizzonte. Un balenìo di senso dissennato.
Così è che tutti gli esseri umani, o solo alcuni, o nessuno siano delle scrittori.
Così pensai mentre mi alzavo da terra e m’appoggiavo al muro. Caddi dunque con la faccia in avanti. Avvertii il contraccolpo che attraversava il mio corpo.”
Di me, su me. Ho provato a dire. Fra volti perplessi.
Della mia storia passata di scrivente, pochi sanno, pochi sapevano e pochi sapranno. Ma ora qualcosa di tutto questo mio scrivere passato e presente è ritornato come a dire: Signore e Signori sono ancora qui. È stato un buon tempo, questo, per questa mia narrazione che in tutto il periodo della sua stesura, durata anni, ha avuto non poche difficoltà e rifiuti. E qui chiude. Altre cose ho già in cantiere, troppo silenzio ho subito.
desideravo definire lo scrittore e ho detto loro:
Devo giocare al loro gioco
di non vedere che vedo il gioco.
ripreso “Jobo”
“Difficile essere più preciso. Stavo lì. A terra e con la nuca appoggiata deicatamente all’asfalto nell’attesa che se n’andassero.
Doveva essere il capo della muta.”
ho accenato a #ElHorno, il mio romanzo ancora lì, in attesa…
E ancora il concetto, tipico di quegli anni, all’inizio del contagio dell’AIDS.
Ci ho pensato più volte a questa cosa dello scrivere per scrivere. Dello scrivere come terapia. Io non scrivo per curarmi. Per quello c’ho le medicamentose medicine chimiche. Son stanco e non ho un ego maiuscolo. Mai avuto. Non comincio di certo ora che non ho nemmeno più il tempo per stargli dietro. Fare gli amoreggiamenti con me stesso. Mettermi in primo piano, alla berlina, se si vuole… ma no, non sono io quello.
Così ognuno deve rifarsi, a questo punto, alla propria esperienza personale. La mia esperienza ed il mio agire si attuano su di un piano sociale di reciproca influenza e di interazione.
Vi chiedo: il passato che sappiamo definitivamente irrevocabile può dare un senso al presente e risvegliarne i mostri solo perché appare anch’esso come mostruoso e come ciò che è stato irrevocabile?
E poi ancora e ancora chiacchiere, per questo autore da fumetto, che ha il nome di un pornoattore, quasi come miasmi frenetici e famelici avventori di un locale estremo che sempre più assomiglia ad un rutilante e perpetuo vortice dell’inutilità e del provvisorio, sguardi senza estetismi o bovarismi, trabocchi urticanti di parole non si sa se realmente ascoltate e veramente dette da qualcuno, e poi ancora quasi sogni d’incubo, allucinazioni verbali, risate chiassose, racconti esilaranti di sesso con sconosciuti e vero sesso PORNO, e in tutto questo carnaio d’approssimazioni ci sono cose da vero intellettuale come RECENSENDA e MEMORANDA, che paiono scritte da un seguace di un’irriverentissima religione aliena quasi dimenticata dall’intero universo e lasciata lì a marcire sepolta – per propria volontà, parrebbe – tra corpi seminudi, traslucidi, rivestiti di pelle o gomma, in una realtà che declina verso l’estrema finzione, nello sfumare tra la grazia e la sapienza di una tribù che persiste nella propria sopravvivenza, in una fisicità da deserto delirante e assoluto fino all’estrema unzione.
E poi ancora le frasi profetiche che nessuno ha letto: ma se mi lascio trascinare dallo zelo del fedele sguardo del mio raccontare, finisco con l’accusarmi di secondi fini, che non ho, per darmi l’apparenza dell’uomo sincero che certo non cerca di risparmiarsi le umiliazioni: in tutto ciò sono cominciate le mie narrazioni visionarie.
e poi: Scrivendo cerco di svelare i caratteri di nuove possibilità che emergono [e allora faccio rivelazione]
E se in una mente turpe come quella di Skeeen [protagonista di quella farsa romanzata che fu ed è #ElHorno] nascesse un sentimento? Una sorta di amore? Cosa accadrebbe?
E se le piramidi possono preservare la carne dalla putrefazione, la Pillola può allo stesso modo farlo per voi?
e tutte queste cose potrebbero essere: Modulazioni di tono e di volume che delineano una forma precisa ma senza fornire le informazioni ché mancanti negli spazi tra le linee e davvero sarebbe grave errore scambiare le linee per la forma, o la forma con ciò che essa rappresenta [questa citazione è mutuata da un testo teorico sull’arte di Jole De Sanna].
E ho cercato di spiegare lo “scrivere”
È un atto d’amore e anche noi, quando cerchiamo d’imparare che cosa significhi amare, non finiamo per perderci nella riflessione che pensa intorno all’amore? non perdiamo tempo pensando di amare invece di amare? Un loop continuo, un fist infinito sulle nostre sling mentali? Ma sul nostro cammino cade lenta, costantemente, una luce che illumina il nostro amore.
poi ancora “Jobo” come in cortocircuito:
“Era buio ma potevo scorgere bene il corto cilindro di carne proteso come l’emblema del suo potere. Ebbi l’impressione che non volesse farmi davvero male. Dopo avermi colpito m’afferrò entrambe le guance tra le dita. Come si fa certe volte coi bambini. Le strinse. Le mie guance secche e smagrite mentre m’insultava.
Era evidente che s’aspettavano qualcosa di più. Per gli altri la cosa non poteva finire lì.
Facendomi largo bruscamente attraverso l’ostacolo dei loro corpi. Spostandoli lateralmente con uno spintone. L’avessi mai fatto. Avevo dato il La a una razione a catena inarrestabile.”
poi ho chiuso l’incontro e ho alzato la musica “disco” che faceva da base e che ha accolto tutti all’inizio
Gli scrittori non si parlano. Si citano. Autocitano. E precipitano.
Grazie alla pazienza di Max Calvo [se esiste, poiché mai lo vidi] e alla silenziosa presenza del Capo che vidi a Roma. Grazie a Alessandro Paesano che quella sera si palesò. Anche quella sera non mi hanno mai censurato. Probabilmente mi sono più censurato da solo vedendo in piena luce i volti dei miei ascoltatori. Gaiaitalia.com ci ha dato anche questa possibilità: a me e a Bo Summer’s. Chi c’era, c’era e chi non c’è stato quella sera mai ci sarà.

http://cultura.gaiaitalia.com/2014/10/gaiaitaliateatrofest2014-bo-summers-la-cultura-come-diritto-umano-fondamentale-lintervento/

lunedì 27 novembre 2023

pubblicare poesia


Pubblicare poesia, oggi, è al di fuori di ogni controllo, di ogni macinazione vicina all’atto consumistico. Poesia non è vendibiltà, mai lo è stata, a maggior ragione nel nostro contemporaneo. Pubblicare poesia è, oggi, più che allora, atto di identificazione con il nulla del dire. Se non al proprio parlarsi, a volte, addosso.

È da anni che in Italia la poesia corre lungo vie sotterranee di autodefinizione. Vie sotterranee che, a mio avviso, certificano un essere in disparte, un non centralizzarsi, nemmeno col pensiero. Neppure con la presenza fisica dell’autore. E non solo si tratta di una grande metafora di quanto avviene nella superficie delebile del reale.

 
Le vie del fare poetico sono spesso invisibili, o, meglio, sfuggono a criteri di visibilità. Ciascuno tenta le carte che può, che possiede, per raggiungere affannosamente un momento che si avvicini, almeno lontanamente, alla realtà del tangibile. Come se il poetare non dovesse essere il più lontano possibile da ciò che altre espressioni dell’umano artefare propongono. Poetare è assenza, mai centralità o assoluto dire.