lunedì 15 aprile 2024

quando vado uguale alla massa

quando vado eguale alla massa
- senza dividersi, poi, è
un'acrobazia depositaria,
un sospeso ove càpita la civiltà
del ragazzino-farfalla mai esposto -,
sul suo viso di terra, senza
vedere, poso queste parole

quella grande Vestita d'Azzurro,
la sua natura di pietre d'olio

sensibilità nervosa
e render forte, meno triste, penultimo
dell'acqua marina amato

"rifategli eco, è come
venire, riversarsi così,
nel nulla: tornate,
rifategli eco!"

è per me, di tutta questa
dolcezza, la realtà,
il padrone condannato

[Fabio Galli, Caròla, Crocetti Editore 1991, collana Aryballos 28]

venerdì 12 aprile 2024

che rovesciato s'ascoltasse

Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

[Minime Anime: Qualcuno mi ha chiesto di poterlo leggere, quel testo. Pochi, invero, ma si sa che a me basta così.

La stesura originale apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista "Tracce, trimestrale di scrittura multimediale", anno V, Luglio/Agosto 1986. Qui se ne presenta una versione con non poche variazioni perché il tempo è passato ed è giusto così.]

mercoledì 10 aprile 2024

nella storia e nella memoria


nella Storia e nella Memoria
per imporre questi bambini alla scoria

seminudi - a notare le eterne anche sfiancate
non si direbbe: le giustizie ai begli umori date -

con la stessa monumentale crudeltà, l'affronto
del desiderio!, l'intiero apportato sconto

appare in un'età remota - a ben badare! -
assai prestamente schiatta nei tormenti finché,
nell'affido paesi del mal tono stellare
della luna quel suo lieto paese (senza perché),

può durare lo spasimo né agitato
né tranquillo, al furibondo NO portato:
fino a trovarne uniti i muri dal bianco
colore della sazietà fin fino allo stanco 

- Fabio Galli "prima, nella Storia, ancora", con una incisione di Renzo Galardini, a cura di Fabrizio Mugnaini, Bandecchi&Vivaldi Editori, nel giorno del mio compleanno del 1995

lunedì 8 aprile 2024

minime anime


Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

[Minime Anime: Qualcuno mi ha chiesto di poterlo leggere, quel testo. Pochi, invero, ma si sa che a me basta così.

La stesura originale apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista "Tracce, trimestrale di scrittura multimediale", anno V, Luglio/Agosto 1986. Qui se ne presenta una versione con non poche variazioni perché il tempo è passato ed è giusto così.]

venerdì 5 aprile 2024

minime anime


Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

[Minime Anime: Qualcuno mi ha chiesto di poterlo leggere, quel testo. Pochi, invero, ma si sa che a me basta così.

La stesura originale apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista "Tracce, trimestrale di scrittura multimediale", anno V, Luglio/Agosto 1986. Qui se ne presenta una versione con non poche variazioni perché il tempo è passato ed è giusto così.]

giovedì 4 aprile 2024

tornare a svettare i pensieri sull'effimero

Non resta un’opera inconclusa. E non trova davvero seguito se non con la coesione progettuale. Davvero tutta la poesia è attestata già a livello paratestuale: dal titolo della raccolta, all’epigrafe, all’enumerazione progressiva dei versi stessi in poi. E l’orizzonte comunicativo appare, fin da subito, come evidentemente cambiato: l’attacco già, da sempre, ne rileva la prima imposizione di un io-lirico che infatti resta in soliloquio decisissimo.

Così torna l’obiettivo della fuga dalla precarietà della vita grazie all’ardore ancora ardente, che tuttavia non realizza una vera vita. La condizione stessa di un sedicente io-lirico è diversa da quella del Mondo, il quale resta sostanzialmente ignaro della transitorietà, e così si giustifica la voglia sanguinaria di tornare a svettare i pensieri sull’effimero intraprendendo di nuovo il viaggio del piacere.

I versi non appaiono profondamente coesi, ma vi è un procedere per strappi ragionativi e sillogistici, con domande talvolta esistenziali da autobiografia patetica. È come si mettesse un poco in ordine la mente, ripassando la parte della vita che maggiormenete ci facilita, alternante all’invasione intermittente del corpo, con memorie o con ruvido materialismo del presente.

Il grande quesito inevaso è se l’amore per la scrittura possa qualcosa contro la solitudine della morte. L’una o l’altra, che differenza fa se poi s’ha da sentirsi sempre soli? Soli con la propria deprecabilità. Non più s’apre la strofa, non c’è più il referente diretto e l’io-lirico non ha più interlocutori, medita sulla sua medesima favola d’amore terminata almeno razionalmente, mentre perdura l’emozione.

Non a caso l’uomo è fuori dalla porta della scrittura poetica, estromesso dai pensieri ragionativi, e non interloquisce, ma interrompe semplicemente il flusso di coscienza poetico, che riprende faticosamente  con sequenze sulla prossimità dell’oblio. Come se stramazzasse giù nei propri inizi. Solo con se stesso. La riflessione lungo le vie inconoscibili e impervie della mente è più rischiosa del serraglio di assonnate lascivie entro cui tornare. È come un amplesso, lì si focalizzano i postumi dell’amore, gli umori rappresi e i tremiti passati, in piena coerenza con il desiderio vitalistico.

Da qui il desiderio rabbioso di condividere tutto, non solo il sentimento o il sesso. La metafora, porto sicuro, anche e soprattutto in previsione della morte della parola stessa, al limite del torpiloquio, della pornolalia e scavare nel proprio cuore di merda con la vanga e col piccone. Murare il sentimento, non desiderare più il vuoto dell’assente: l’unico conforto rimasto è nelle parole. Nuovamente, un richiamo bestemmiante che interviene a sabotare tutte le ispirazioni della poesia colta dal furore, l’io-lirico maledice l’uomo, in un violento climax di predicati che invitano alla sparizione. Per sempre.

Tuttavia, poi, l’ira si placa, si immagina cosa dire prima all’amante e poi si parcellizzano i messaggi al proprio cuore, al proprio corpo malato, con l’invito ad accontentarsi di quel che resta e alla propria mente. Si scivola quindi al ricordo di esperienze passate e alla riflessione su di sé, sfuggendo sempre al presente frustrante, fino a un’abbozzata idea di suicidio della scrittura, poi ritrattata, poi ridata, ritrattatta nuovamente.. all’infinito per un singolare e atavico attaccamento alla vita. Solo da ultimo, torna il pensiero, definito un estraneo, in attesa di risposte impossibili e di un piccolo scritto tranquillante (che può rimandare al corpo contratto, astratto, ma anche alla distensione dello stesso, alludendo quindi alla funzione placebo del sentimento).

Il rientro è salutato dal poeta che, ancora una volta, ha il compito di chiudere. Tornano l’offerta e il verbo volitivo che è perfettamente conscio della precarietà della vita e dell’approssimarsi della morte. L’uomo non fa niente per sottrarsi al destino, se non ingannare l’attesa condividendo piccoli e grandi piaceri.

https://cultura.gaiaitalia.com/2016/11/bo-summers-tornare-a-svettare-i-pensieri-sulleffimero/

martedì 2 aprile 2024

egregio signore

Egregio Signore,

che Lei non abbia ancora avuto modo di leggere i due lavori che, premurosamente, Le ho inviato (Minime Anime e, in seguito, in maniera più timorosa, Mio del suono che allora trascrissi, nella lettera d’accompagnamento, Del mio suono. E neppure corressi, chissà perché)?

Non ho da Lei, che così tempestivamente mi ebbe a rispondere per El Fistolo de l’Inferno (che prontamente pubblicò su quel numero di “Alfabeta” in mezzo ad altre voci di nuovi poeti) ricevuto alcun segnale.

Sono forse, queste mie, chimere che ammaliano (che, comunque, mi turbano) e non credo, in nessun modo, siano inferiori a quel mio primo da Lei letto e accettato.

Pongo ogni cosa sul conto, sul mio conto personale e da questo tutto deduco: che i miei scritti non abbiano una realtà letteraria? Non più? Ne ho paura (è così semplice illudersi)!

Un rapporto esiste fra questi scritti, anche se non sempre evidente: giungono tutti al mio stesso arrivo.

Parliamoci francamente, gentile Signore: io so che esistono dei legami che non dipendono dalle nostre volontà. Polsi legati da una catena che unisce due manette strette da una amicizia profondamente particolare: ferrea.

Certo, non costruisco in mezzo a calme acque ma mi congiungo al continente attraverso tempeste. Altri non hanno tali riguardi e non si trovano in questi stati di estrema inquietezza (il mio alloggio).

Forse quelle mie parole sono troppo “forti” (per quello che dicono) e “incomprensibili” (per come parlano).

Ma non mi pare sia questo il vero problema.

Non ho, è vero, forme tondeggianti, lisce ma credo si tratti proprio d’un metallo lucente (acciaio?) che si rivolta, si contorce e produce dolore, in verità.

Non me ne voglia, cortese Signore, per questa mia non punita domanda. Ma io devo sapere, fino in fondo, di questa mia impresa.

Vengo ora a questo mio breve poemetto che le allego: precisamente, oro. Il motivo principe di questa mia missiva. Lo annuncio come la nascita di un nuovo figlio (con un bel fiocco colorato appeso fuori dalla porta. Posso usare queste parole non mie come avviso?):

“.. ho cercato qualcos’altro: un andare a capo ancora più lontano dal senso – dal senso inerente a due versi separati e da quello orchestrale che ne illumina la separazione – ho cercato cioè una rottura della frase che fosse obbligata ma non innalzabile dalla frese stessa né dalla totalità delle frasi. Che fosse innalzabile da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni e di amare questa spaccatura in una visione totale della poesia, non di quella poesia: ?totale? Qui inteso come l’insieme di ciò che preesiste – una poetica – e di ciò che incombe, un brancolamento che si farà poetica. (Milo De Angelis)”

Vado scoprendo, quasi a giustificare me stesso, le parole di altri? Quale potenza invocare per dare corpo, nuovamente? Poiché io sarò al centro di ogni tristezza disperata fino a quando non mi sarà detto.

prosegue qui ➡ https://cultura.gaiaitalia.com/2015/11/bo-summers-scrivere-come-dio-minime-anime-mio-del-suono-el-fistolo-de-linferno-e-altre-chincaglie/