sabato 26 ottobre 2024


L'immoralista (1902) di André Gide ci trasporta nella vita tortuosa e conturbante di Michel, un giovane parigino raffinato, di intelligenza penetrante e sensibilità nascosta, il quale, tra le terre misteriose e seducenti dell’Algeria, scopre un lato di sé che fino ad allora non aveva osato immaginare. Il romanzo, immerso in un’ambientazione calda e lussuriosa, prende avvio da un viaggio di nozze che avrebbe dovuto essere un idillio convenzionale ma si trasforma, invece, in un viaggio iniziatico verso l’auto-rivelazione e il proibito.

Michel, appena sposato, è in viaggio per Tunisi con la sua giovane moglie, nella speranza di trovare sollievo per la sua salute minata da una tubercolosi debilitante. Ma è proprio da questo declino fisico, quasi come in un rito di passaggio tra vita e morte, che inizia a sbocciare una metamorfosi inaspettata. Man mano che si ristabilisce, Michel si rende conto di quanto, fino a quel momento, la sua esistenza sia stata imprigionata in una teca di doveri sociali e aspettative borghesi. Ora che sente di poter tornare a vivere, una nuova sete di piacere e libertà lo assale, scardinando tutte le certezze di un tempo.

In questa rinascita quasi febbrile, Michel inizia a vivere ogni istante come se fosse il primo, con un’intensità che lo porta a riscoprire il piacere di percepire il proprio corpo, di sentire il calore del sole sulla pelle e di osservare, rapito, i movimenti agili e sinuosi di una serie di giovani algerini che incontra lungo il suo cammino. Eccoli lì, simboli viventi della libertà e della bellezza, figure dal fascino esotico e provocante che incarnano una vitalità cruda e selvaggia. Sono la chiave che gli spalanca porte che lui stesso non sapeva di voler aprire: una rivelazione di desideri che fino ad allora aveva represso, quasi dimenticato.

Ma Parigi lo richiama a sé, con la sua fredda morsa di convenzioni e aspettative. Il Michel che ritorna, però, non è più l’uomo di prima: dentro di lui arde una fiamma nuova, una ribellione sotterranea. Annoiato e frustrato dal grigiore cittadino, decide di trasferirsi in Normandia, in una fattoria lontana dagli occhi e dalle regole dei suoi vecchi compagni di università. Qui, in questo rifugio rurale, Michel si illude di aver trovato pace, specialmente quando inizia a passare lunghe giornate in compagnia di un giovane del posto, Charles, la cui presenza fresca e vigorosa alimenta in lui una gioia ritrovata. Tuttavia, come tutte le illusioni, anche questa non può durare.

Richiamato di nuovo a Parigi, Michel si ritrova davanti a un bivio: continuare a indossare la maschera rispettabile del professore e marito devoto, o abbandonare tutto per seguire la sua natura ribelle? È durante una delle sue lezioni che incontra Ménalque, un uomo già considerato uno scandalo vivente, che ha abbracciato senza riserve una vita di libertà assoluta. In Ménalque, Michel vede un riflesso di sé, una proiezione di ciò che potrebbe diventare se solo avesse il coraggio di lasciare ogni cosa dietro di sé.

La tentazione è irresistibile. Michel si spinge sempre più a Sud, fino a ritrovarsi, metaforicamente e letteralmente, sperduto in un mare di sabbia, senza punti di riferimento se non quelli tracciati dal suo stesso desiderio. È lì, tra le dune del deserto, che Michel trova una sorta di pace, anche se forse una pace spaventosa, una libertà che equivale a una condanna. Qui, lontano da tutto, Michel si perde e si trova, in un gioco perpetuo tra dannazione e estasi.

La storia di Michel è l'emblema di una ribellione contro ogni norma imposta. Gide, il suo creatore, scrittore complesso e profondo, non ha temuto di affrontare i desideri e le ombre della psiche umana, esplorando territori che altri non osavano nemmeno sfiorare. Nel suo diario, Gide scrive con disarmante sincerità della distinzione che vedeva tra “sodomiti,” attratti da uomini maturi, e “pederasti,” coloro che, come lui, sentivano attrazione per ragazzi giovani. "Chiamo pederasta l’uomo che si innamora di ragazzi giovani," annotava, "sodomita colui che desidera uomini maturi."

Per Gide, questo tipo di amore era più che una semplice inclinazione: era una forma di esaltazione e di sfida, un modo per infrangere la gabbia delle convenzioni. “Che tali amori possano nascere… non mi basta dire che ciò è naturale; sostengo che è un bene. Ciascuno dei due trova in essi esaltazione, protezione, una sfida…”

L'immoralista, quindi, non è solo la storia di Michel, ma un grido di libertà, un inno a chiunque abbia il coraggio di cercare il proprio io autentico, qualunque sia il prezzo da pagare.


l'albatro, Baudelaire

Tradurre Baudelaire mantenendo rime e tono è un compito affascinante e complesso. Ecco la mia versione in italiano, cercando di rispettare il più possibile la musicalità e il senso del testo originale:

L'albatro
(da I fiori del male)

Spesso, per divertirsi, i marinai sornioni
Prendono gli albatri, grandi uccelli marini,
Che seguono, compagni lenti e vagabondi,
La nave che scivola sui mar amari e affini.

A malapena li posano sopra il ponte,
Che quei re dell'azzurro, goffi e svergognati,
Lasciano le lor grandi ali bianche, pronte,
A strisciare, come remi, ai loro lati.

Questo viaggiator alato, com'è goffo e vile!
Lui, poc'anzi così bello, com'è brutto e buffo!
Uno gli stuzzica il becco con la sua scintilla,
L'altro zoppica, imitando l'infermo, privo di fluffo!

Il Poeta è simile al principe dei venti,
Che sfida le tempeste e ride dell’arciere;
Esiliato sulla terra, in mezzo agli scherni,
Le sue ali di gigante gli vietano di camminare.

Ho cercato di mantenere il tono elegante e malinconico del poema, anche se qualche piccola libertà è stata presa per mantenere il ritmo e la rima.


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La traduzione poetica è sempre un compromesso tra fedeltà e musicalità. Quindi ho provato a mantenere il testo più vicino all'originale, sacrificando meno il senso per le rime. Ecco una versione leggermente più fedele:

L'albatro
(da I fiori del male)

Spesso, per divertirsi, i marinai d’equipaggio
Catturano gli albatri, grandi uccelli del mare,
Che seguono, pigri compagni di viaggio,
La nave che scivola sui gorghi amari.

A malapena li posano sul ponte,
Che quei re dell’azzurro, goffi e umiliati,
Trascinano tristemente le grandi ali bianche,
Come remi che giacciono ai loro lati.

Questo viaggiator alato, com’è goffo e debole!
Lui, un tempo così bello, com’è comico e brutto!
Uno tormenta il suo becco con una pipa,
Un altro zoppica, imitando l’invalido che volava!

Il Poeta è simile al principe delle nubi,
Che sfida la tempesta e ride dell’arciere;
Esiliato sulla terra, tra risa crudeli,
Le sue ali di gigante gli impediscono di camminare.

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(e nessuna di queste mi convince)

venerdì 25 ottobre 2024

ho iniziato come un'ombra


Ho iniziato come un’ombra di carne scolpita dall’ossessione, trascinato da forze invisibili che squarciavano le pareti della mia testa. Proust mescolato a chimica organica, come un veleno distillato da formule oscure, si infiltrava nelle vene della mia mente, mentre botanica e sociologia danzavano in un circolo di fuoco con le dottrine occulte, divorando ogni frammento di comprensione, facendomi a pezzi. E mentre leggevo, libri su libri, ogni pagina era come uno strappo nella carne del mondo.

Poi vennero i colori, il movimento, il suono: pittura, danza, teatro, musica, un’orgia di sensi, un’eco che risuonava nelle cavità vuote del mio essere. Ogni nota, ogni pennellata era una lama, ogni scena un’apocalisse. Il mio corpo non era che una bocca, un vuoto senza fine, un cratere di fame. Fame di tutto. Fame di niente.

La sete di velocità mi bruciava dentro. Patente per auto, camion, elicottero, motoscafo, aereoplano: ogni mezzo di fuga diventava un’arma, un coltello per incidere lo spazio e il tempo, per tagliare la mia esistenza in pezzi sempre più piccoli. E allora mi sono lanciato: paracadutista, pugilatore, sommozzatore, lottatore. Ogni pugno, ogni immersione, ogni caduta era un’invocazione al nulla. Combattevo ovunque: Roma, Beirut, Nicaragua, come un demone che cercava la sua estinzione.

Mi sono fatto marchiare, la bocca di uno squalo divorava la mia pelle mentre l’interno esplodeva in deliri di macumba, voodoo, tarantolate. La mia carne si scioglieva in ogni droga conosciuta: eroina, cocaina, acidi, funghi. Ogni sostanza era una nuova lingua della disperazione che si attorcigliava attorno alla mia anima, e la realtà si piegava in bordelli di carne, un mare di spermi vaganti in cerca di preda, di annientamento.

E mentre il mio corpo si dissolveva in malattie e mutilazioni—epatite, malaria, sifilide, colera, lebbra—la mia anima si frammentava in religioni, in analisi, in fedi costruite sull’assenza. E quando finalmente il vuoto mi possedeva completamente, il sangue di chi uccidevo si mescolava al mio. Non ero più io, ma qualcosa di altro, un perfetto assassino senza volto.

Poi, come un miracolo malato, ho scoperto il cibo. Ho imparato a mangiare, a divorare tutto: carne di amici, carne di nemici, carne che pulsa ancora, carne che non c’è più. Carne di ogni specie e di ogni senso. Carne sacra, carne maledetta, carne che si scioglieva nella mia bocca come un’ultima preghiera.

Ora sono qui, un mostro che si è nutrito di tutto, che ha annientato ogni traccia di sé, felice come un porco satollo, a sorseggiare birra davanti alla televisione, a guardare la mia ombra diventare l’unica cosa reale. Noi, barbari di un’era perduta, ridiamo della nostra miseria, così teneri, così fragili.

Konstantin Somov


"Il pugile" di Konstantin Somov è un dipinto che sembra esistere in una dimensione fuori dal tempo, sospeso tra realtà e sogno. Realizzata nel 1933, quest’opera si allontana dalla rappresentazione canonica dello sportivo e del combattente, per farci intravedere una figura che va ben oltre i confini della fisicità. Somov, noto per il suo approccio evocativo e attento al dettaglio, ci propone qui un pugile che non è soltanto un atleta, ma un vero e proprio enigma, un emblema di dualità tra forza e fragilità.

Il fisico del pugile è scolpito e possente, ma in modo non convenzionale. Somov esagera la muscolatura, accentua la tensione nelle pose e conferisce al corpo un’eleganza quasi scultorea, come se fosse colto nell’atto di una danza tanto quanto in un combattimento. Questa teatralità della posa sembra suggerire che la boxe, nella visione di Somov, sia una performance artistica più che uno sport violento, una danza in cui l’atleta non è solo corpo, ma anche spirito. Il pugile appare quindi come un personaggio in bilico, metà uomo e metà icona, a metà tra un sogno e la realtà.

L'espressione del volto è un altro enigma in sé. Il pugile guarda lontano, con uno sguardo intenso ma stranamente distaccato. È come se fosse intrappolato in un mondo interiore che noi, spettatori, possiamo solo intuire. Questo sguardo assorto e meditativo sembra suggerire una profondità psicologica, una complessità emotiva nascosta sotto l’apparente durezza dell’atleta. Somov sembra volerci dire che dietro ogni guerriero c'è una vita interiore, un conflitto invisibile, un insieme di emozioni che non possono essere spiegate né mostrate sul ring.

L’ambiente in cui è collocato il pugile è semplice, quasi rarefatto. La scelta di colori tenui e dello sfondo poco dettagliato crea uno spazio sospeso, un palco ideale per la figura centrale. Questa tavolozza soffusa non è casuale: Somov utilizza lo sfondo spoglio e la luce soffusa per dirigere tutta l’attenzione sul pugile, esaltando i contrasti tra luce e ombra e rafforzando l’aspetto drammatico della composizione. Il gioco di luci sembra scolpire il corpo, intensificando le ombre e accentuando ogni dettaglio dei muscoli e delle espressioni facciali. L’attenzione ai dettagli è talmente precisa che si potrebbe quasi sentire il respiro del pugile, percepire la tensione nei suoi muscoli, come se in quella posa fosse racchiusa tutta la forza e la fragilità dell’animo umano.

A ben vedere, il pugile di Somov è molto più di una semplice figura atletica: è un simbolo dell'essere umano, della sua solitudine, delle sue lotte interiori. È una figura enigmatica che sembra sfuggire alle etichette e che invita chi osserva a perdersi nei suoi dettagli, a riflettere su ciò che rappresenta. Somov, con la sua straordinaria tecnica, ci spinge a esplorare il confine tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto, tra il fisico e lo spirituale, creando un’opera che non smette di affascinare e di stimolare domande.

"Il pugile" diventa così una riflessione sulla condizione umana, un ritratto di quell’interiorità spesso ignorata dietro la facciata della forza. Il contrasto tra la potenza del corpo e la vulnerabilità dell’anima appare qui nella sua forma più cruda e sincera. E noi, di fronte a quest'opera, ci troviamo a contemplare un uomo che è allo stesso tempo reale e ultraterreno, un'anima che lotta non solo sul ring ma anche dentro di sé. Somov ha costruito un dipinto che, più lo si osserva, più rivela una profondità inesauribile, un'opera capace di parlare al cuore e alla mente, invitando ogni spettatore a proiettare se stesso nella figura solitaria e contemplativa di questo pugile immortale.

Verlaine 2024

Ecco una versione rielaborata delle mie vecchie traduzioni di Verlaine, mantenendo la musicalità e il tono poetico che richiedono, ma con una cura speciale nella resa fluida in italiano.

Prefazione 

[sulla mia traduzione di "Melancholia" di Paul Verlaine]

Una breve introduzione: le traduzioni “invecchiano” quanto i traduttori; parrebbe che, con il continuo mutare degli orizzonti culturali, la ritraduzione dei classici sia non solo auspicabile ma necessaria: per rimettere in circolo ciò che sembrava un possesso acclarato, consegnato all’illusoria e spesso ingessata permanenza di versioni canoniche.
E così tanto più problematico fu, per me, ritradurre un autore già classico da sempre come Paul Verlaine, al contempo supremo azzardo, prototipo ed esito altissimo della poesia francese ottocentesca.
La traduzione, attività incessante di decodifica mentale da parte del lettore, è, secondo me, la molla stessa di quel procedere a strappi, a balzi, a scoppi e sbandamenti che incarna esattamente il movimento del pensiero, della rielaborazione adattata di un pensamento già avvenuto. Una infedeltà bene acquisita. E in cui ogni eco, o barlume di similitudine, si fa immediatamente testo, suono, disegnando in progressione sulle pagine una mappa della coscienza, idolo e demonico primattore di ogni secolo passato che diviene futuro.
La coscienza in cammino divenuta linguaggio.

Una versione – così allora la chiamai, non mi sentivo traduttore – che mi sono, dunque “autorizzata” e che uscì nel 1992 presso i tipi delle edizioni L’Obliquo di Brescia, per le premurose cure di Giorgio Bertelli, editore raffinatissimo che la pubblicò in forma di plaquette. Un testo giovanile del poeta amato da Rimbaud che ritenevo superlativo per qualità di resa e creatività ma forse troppo inascoltato e poco conosciuto per il nostro orecchio. Veniva ad affiancarsi a quelle, poche invero, di altri che mi avevano preceduto, con l’unico merito di recuperarla e renderla nuovamente disponibile per la mia vocazione al popolare e al collettivo che già allora mi pareva fosse necessità assoluta, nell’ottica di una cognizione dello scrivere che, proprio riflettendosi nei flussi più impalpabili di pensiero, potesse farmi apprendere, anche da quel testo giovanile di Verlaine, le sue regole di scrittura – metrica, rima – ma, pure, un sentire di un poter vivere democratico e tollerante. E un po’ comunardo. La condivisione di un sapere.
Temo lo si trovi a fatica, quel testo, mi va di renderlo nuovamente visibile, per una sorta di rivendicazione. Di diritto alla visibilità. Mio e suo.

Dato per certo che tradurre la parola di Verlaine era, per me, un gioco impossibile, decisi che, proprio per questo esatto motivo, l’impresa andava tentata.
Capivo che ogni versione non poteva che essere un gesto calato nella propria storia personale, e che era, inoltre, nel mio caso, un atto implicito di commento nato da una visione dell’autore con cui ingaggiavo un corpo a corpo così come se, innanzitutto, provenisse da un’idea di lettore. Non volevo, nemmeno lontanamente, pensare che le varie traduzioni di uno stesso libro fossero un febbrile, e inutile, agonismo tra loro per soppiantarsi a vicenda. Per me fu solo una prova di stile.
A parità di competenza e impegno, quell’impresa, piuttosto, si completò e venne in qualche modo considerata un piccolo evento. Piccolo.

Era un dato momento storico, quello, e contesto vivissimo di ricettività, qualcuno si accorse che il tentativo fu di rieseguire le armoniche forti del testo rivivendole nella nuova, nell’altra lingua. Cioè la mia.
E in ogni caso, se a porvi mano era stato un poeta giovane, fu fatale che balzò sulla scena come una presenza di quel primum e unicum che mi piaceva definire quasi fisico.

Ora, quel lavoro, dopo anni di sottaciuto oblio, mi piace di riproporlo, con qualche lieve aggiustamento, e si mostra subito per ciò che non è né vuole essere, a partire dalla nettezza di certe scelte lessicali, esibite quasi come petizione di principio.
Nelle prime battute, la macchina verbale è un fiume parlato cui mi sono abbandonato sull’onda di un’immaginazione sonora, tra mosse impreviste di voce, pause non lontane ed estatiche, ritorni e trapassi, incagliamenti, apparizioni e sdrucciolii, senza la pretesa di «capire e far capire tutto» come se tutto potesse avere la stessa dignità, come se tutto ciò che è umano e mobile potesse essere carico della grazia casuale di ciò che vive.
Tutto questo rieseguendo la partitura e dotandola di un ventaglio lessicale a volte inventato e non paragonabile ad alcun’altra traduzione di questo stesso testo, cercando di orientarmi verso una personale extralingua, una foga ispirata a una gioia deformante e volendo tentare, anche sul piano del ritmo, il riordino personale delle parole, creando una ricontinua mutazione del testo e consegnandone, così, una peculiare estraneità all’originale stesso.

Perché è davvero suscitando nel lettore, anch’egli a suo modo traduttore e farneticante immaginatore, l’esperienza di quello sfrontato potere liberatorio impresso prima di tutto dal suono, cantilenato nella testa, che si agisce.

Durato un intero Inverno, il lungo ascolto di Melancholia intese, perciò, sfociare in una forza di reinvenzione che potesse attecchire, anche solo sporadicamente, in un mondo unico e si potesse esprimere in un passo mentale solo mio, facendosi voce volutamente eccentrica, fuori ordinanza, rispetto alla prassi della traduzione di mercato.

A sollecitarmene la traduzione fu il mio pensiero sul corpo fisico della parola, niente altro, la ricerca di un suo teatrale sapore di furto, nei versi dove si affondano le mani nelle cadenze dei gerghi o di un italiano latente.
Una polveriera inusuale, un armamentario allo stesso tempo ricercato e popolare, sferzante e reticente, con un gusto di irrisione che emerge nei momenti in cui insiste nella parodia del sublime e dell’amorevole.
Un nodo in cui addensavo le allusioni più subdole, annunciando e intrecciando le mie prime prove acustiche, il senso del suono.

Di questo testo inseguii insomma anche la qualità incantatoria della parola, la possibile musicalità, essenziale per il suo stesso suono, prima e molto al di là del senso stesso, che sfrondava tutto il diaframma tra materia e simbolo per impadronirsi del lettore precipitandolo in uno spaesamento, in una deriva fantasticante a fronte della stessa lingua nella sua interezza storica.
Così una forma tipica, per me, di quest’esperienza di rilettura, fu la tentazione del caos e quella dell’ordine, l’abbandono alla corrente e la sveglia delle impensate connessioni tra realtà, generando un nuovo abito percettivo.

La celebrazione della meraviglia di un Inverno come tanti, dell’eroismo normale dell’essere umani, di astuzie e crolli di un’umanità bonariamente sbilenca, non restò che confinato nella mia idea di letteratura.
Reti di ricorsi e rimandi che quasi danno l’impressione di autogenerazione, nel continuo fluire fra mondo individuale e condiviso, dentro e fuori, mente e realtà.
Allusione indirettamente nel solo testo: un’elaborazione non sofferta, ma soggetta anch’essa a sbandamenti e ritorni, emergenze e giunture, dove suggestioni individuali possono prender piede sul dato acquisito.

Una virtù trasformativa e, forse, felicemente operante e un modo per riscrivere i libri, fedeltà di pensamento ma non di parola, energia, colori, tonalità, contentezza di condivisione, senza dover rendere conto alla dittatura della maggioranza. Divenne una posizione, la mia, insensatamente parziale e personale, come accade per ogni vera posizione, che porto avanti ancora oggi.


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I saggi d’altritempi, che valgono quanto questi,
credevano, ed è questione tutt’oggi assai contesa,
di leggere in cielo fortune e sventure — e ogni anima
di essere legata a un astro, a un segreto di stelle.

(Si è riso, sì, e tanto, ignorando forse
che spesso è ridicolo quanto chi ride,
questo volgersi in su, allo spiegarsi del buio).
Ora quelli nati sotto Saturno, astro selvaggio,

prediletto dei maghi, portano scritto nel sangue
un fato di bile, di nera sfortuna.
In loro l’immaginazione ansiosa e fragile
annulla ogni sforzo della Ragione.

Il sangue, sottile come filtro amaro,
lava che brucia lenta, scorre e ristagna,
fossilizzando un ideale triste che crolla.

Così i Saturniani nascono per soffrire,
per una vita che a ogni riga delinea
la logica, cieca, d’una maligna influenza.


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Rassegnazione

Da bambino, sognavo Koh-i-Noor,
fasto persiano, palazzi sontuosi,
presenze d’eliogabali, di sardanapali!

Il mio desiderio inventava sotto tetti d’oro,
tra profumi, e al suono di musiche,
harem infiniti, paradisi del corpo!

Oggi più quieto, non meno ardente,
conoscendo ormai le pieghe della vita,
ho dovuto frenare la mia folle fantasia,

rassegnarmi a un nulla di niente.
E sia! Il grandioso fugge il mio morso;
ma, vergogna della grazia e del vile!

Sempre odio la dolce donna-gioiello,
la rima insulsa e l’amico prudente.


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Nevermore

Ricordo, ricordo, che vuoi da me? L’autunno
faceva volare il tordo nel grigio a-tono,
e il sole dava un raggio mono-tono
al bosco che ingiallisce nel freddo che stona.

Eravamo soli, passeggiando e sognando,
lei ed io, capelli e pensieri al vento.
Quando, improvvisa, volgendo il suo sguardo:
“Qual è stato il tuo giorno più bello?”

disse, con voce dorata, angelica e fresca.
Risposi sottovoce con un sorriso di pesco,
e le baciai con devozione le mani bianche.

Ah! i primi fiori come son profumati,
e come suonano, dolci echi,
i primi sì dei labbri amati!


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Dopo tre anni

Spinto il cancello stretto e vacillante,
ho passeggiato nel piccolo giardino,
schiarito dal sole del mattino,
ogni corolla un luccichio brillante.

Nulla è mutato. Ho rivisto ogni cosa:
la pergola umile di vite selvatica,
le sedie di giunco, il mormorio argentino
della fontana, e il pioppo sempre lamentoso.

Le rose palpitano ancora come sempre,
i gigli orgogliosi sempre ai venti danzano.
Ogni allodola che va e viene, già conosciuta.

E ho ritrovato, in piedi, la piccola Valletta
dove il gesso si scaglia sul sentiero incerto,
fragile, fra l’odore tenue di reseda.


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Voto

Ah! i colloqui intimi! Le prime amate!
L’oro dei capelli, il blu degli occhi, il fiore
della carne, fra i giovani profumi d’amore,
e la spontaneità delle carezze delicate!

Lontani sono questi momenti di gioia,
tutti questi candori! Ahimè, tutto fugge
in una primavera di rimpianto; nero inverno
che si riversa su di me, noia e tristezza.

Ora eccomi solo, taciturno e solo,
mesto e disperato, più freddo d’un avo,
simile a un povero senza sorelle, orfano.

Ah, quella fanciulla dolce e ardente,
pensierosa e bruna, mai arretrata,
che talvolta vi bacia in fronte, come un bambino.


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Stanchezza

“A batallas de amor campo de pluma.”
(Góngora)

Dolcezza, dolcezza, dolcezza!
Frena questi febbrili trasporti, mia incantatrice.
Al culmine stesso del piacere, l’amante
dovrebbe serbare la pacatezza d’una sorella.

Sii languida, rendi il tuo abbraccio dormiente,
i tuoi sospiri uguali, i tuoi occhi tranquilli.
L’abbraccio geloso, lo spasmo ossessivo
non valgono un lungo bacio, persino mentale!

Nel tuo cuore d’oro, mia bambina,
suona la passione come il corno dell’olifante!
Che suoni, dunque, finché vuole, sfrenata.

Appoggia la fronte alla mia e nelle mie mani,
e prometti che domani dimenticherai,
e piangiamo fino al giorno, o mia infuocata!


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Il mio sogno familiare

Sovente sogno questa donna sconosciuta,
che amo e che mi ama in cambio,
che non è mai la stessa, eppure identica,
mi comprende e m’è compagna.

Perché solo lei m’intende, e solo a lei
il mio cuore si fa trasparente,
cessa di tremare il mio animo sgomento,
che lei sa consolare con lacrime pietose.

È bruna? Bionda? Rossa? Non so dire.
Il suo nome mi ricorda suoni dolci
come quelli dei nomi amati e dimenticati.

I suoi occhi come statue, il suo sguardo
lontano, la sua voce grave mi abbraccia,
morte parole nel pieno del silenzio.


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A una donna

A voi, questi versi per la grazia affabile
dei vostri grandi occhi, dove un sogno ride e piange,
per la vostra anima pura e buona, a voi,
questi versi dalla mia disperazione che vi si aggrappa.

Ahimè, l’incubo orrendo che mi tormenta
non si stanca, va furioso e folle,
si moltiplica come una schiera di lupi
e si lega alla mia sorte sanguinante.

Oh! soffro orribilmente, un affronto
che fa il primo gemito di Adamo,
pare ecloghe dolci al mio confronto!

E la dolce premura che mi offrite,
s’è come rondine d’un meriggio
sopra un cielo autunnale che dilegua.


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L’angoscia

Natura, niente di te mi commuove, né i campi,
né l’eco vermiglia dei canti siciliani,
né le grandi aurore, né il dolore lento
delle sere che calano.

Rido dell’Arte, rido dell’Uomo, dei versi,
dei templi greci, delle cattedrali
che slanciano nel vuoto torri spiralate,
e guardo ogni cosa con occhio distaccato.

Non credo in Dio, abiuro e rinnego,
né idea né amore, come chi più non osa.

Tedio di vivere, e paura di morire,
la mia anima, simile a nave smarrita,
salpa per perdersi nei mari del male.

la mia carne


La mia carne – maledetta,
corrotta dal peccato e dal vizio,
carne di un paese che si consuma,
che sussurra inebrianti promesse,
tesse menzogne silenziose
e si nutre di oscuri desideri.

La mia carne – infetta,
chinata, confessa il proprio delitto,
stretta nei morsi del rimorso,
ginocchia coperte di polvere,
una contrizione carnale,
le lacrime non piante bruciano dentro.

La mia carne – ferita,
ogni gesto un colpo, ogni tocco un segno,
carne marchiata
dai miei perdoni senza fine,
dalle molteplici grazie,
e dalle menzogne di piacere nascosto.

La mia carne – esitante,
tace, troppo a lungo, quel “ti amo”,
desiderio che scivola lontano,
carne di perdizione,
che mi culla,
liscia e fredda, come un veleno dolce.

La mia carne – guerrafondaia,
che urla tra spasmi di una paura oscura,
muscoli contorti, quasi grotteschi,
che invocavano l’onore
tra il fragore del piacere spezzato
e il sussurro di armi mortali.

La mia carne – ipocrita,
docile schiava del piacere negato,
velo su una verità ormai perduta,
nasconde un sì, soffoca un no,
una prigione invisibile,
in cui affogo come in un abisso.

La mia carne – servile,
sorriso falso di chi implora, di chi si inchina,
muta, priva di furore,
la rabbia brucia sottopelle,
un ieri che non passa mai,
carne che geme e si piega.

La mia carne – la mia dannazione,
dolce veleno che mi hai tradito,
servo di un piacere che non mi appartiene,
anch’io perduto, per poco,
tra le braccia di una madre maledetta,
nel letto di giochi perversi.

La mia carne – decadente,
carne che si disfa, che si svuota,
guastata da tocchi effimeri,
da vacue promesse,
e da inganni che ardono nell’ombra.

giovedì 24 ottobre 2024


Le traduzioni, come i traduttori, sono destinate a invecchiare. Il continuo mutare degli orizzonti culturali rende la ritraduzione dei classici non solo auspicabile, ma inevitabile, necessaria per rimettere in circolazione ciò che, a torto, si credeva fosse un possesso ormai consolidato, fissato nell’immobilità delle versioni canoniche. Questo ha reso ancor più problematico per me il tentativo di ritradurre un autore ormai da sempre classico come Paul Verlaine, emblema e vertice della poesia francese ottocentesca, un’operazione che ho percepito come un azzardo supremo.

La traduzione, che ritengo una continua decodifica mentale del lettore, incarna esattamente il movimento frastagliato del pensiero: procede per scatti, strappi, deviazioni e abbagli. È, in fondo, un’infedeltà divenuta legittima, un atto in cui ogni eco, ogni flebile somiglianza si fa immediatamente testo, suono. Così, sulle pagine prende forma una mappa della coscienza, idolo e demone insieme, entità primigenia di ogni tempo, sospesa tra il passato e un futuro che si plasma attraverso il linguaggio.

Questa non fu una traduzione, per me, ma una versione — parola che preferivo poiché non mi consideravo un traduttore —, una versione che mi sono autorizzato a realizzare e che vide la luce nel 1992 grazie a Giorgio Bertelli, raffinato editore de L’Obliquo di Brescia, che la pubblicò come una plaquette. Si trattava di un testo giovanile, amato da Rimbaud, che giudicavo di qualità sublime per resa e creatività, ma forse inascoltato, dimenticato per le orecchie contemporanee. Il mio obiettivo era riabilitarlo, renderlo di nuovo disponibile, in linea con la mia vocazione a una letteratura popolare e collettiva, già allora percepita come urgenza imprescindibile. Nel lavoro di Verlaine risuonava una visione democratica e tollerante, un sentire comunardo, un sapere che chiedeva di essere condiviso.

Nonostante sapessi fin dall’inizio che tradurre la parola di Verlaine sarebbe stato un gioco impossibile, proprio per questo esatto motivo decisi che l’impresa andava tentata. Ogni versione, sapevo, sarebbe stata inevitabilmente un gesto calato nella propria storia personale, e nel mio caso divenne anche un implicito commento critico, nato dal rapporto fisico, quasi di scontro, che ingaggiavo con l’autore. Non vedevo le traduzioni come un’agone tra interpretazioni concorrenti, ma come prove di stile autonome. E quella mia versione, frutto di uno specifico momento storico e culturale, fu alla fine considerata un piccolo evento. Piccolo, sì, ma significativo in un contesto vivace e ricettivo.

Ora, ripensandoci, dopo anni di oblio, ho voglia di riportare alla luce quel lavoro, con qualche lieve aggiustamento, ma con la stessa consapevolezza: non è e non pretende di essere una traduzione nel senso classico del termine. Anzi, già la nettezza di certe scelte lessicali rivela una posizione ben precisa, una presa di posizione quasi programmatica. Il testo si snoda come un fiume verbale, un flusso sonoro in cui mi sono abbandonato, sospinto da un’immaginazione musicale fatta di voci impreviste, pause estatiche e ritorni inaspettati. Non mi interessava “far capire tutto”, ma piuttosto far percepire che ogni cosa umana, ogni moto dell’anima, possiede una sua dignità e bellezza, anche se fugace e sfuggente.

Rieseguendo la partitura di Verlaine, ho cercato di dotarla di un ventaglio lessicale talvolta inventato, talvolta alieno, per creare una sorta di extralingua personale, una deformazione gioiosa che si prendeva libertà con il ritmo, un continuo riordino che generava una peculiare estraneità rispetto all’originale. Non era la fedeltà al testo che mi interessava, ma la possibilità di suscitare nel lettore – anch’egli traduttore a suo modo, immaginatore folle – un’esperienza di libertà generata dal suono, prima ancora che dal significato.

Questo lungo inverno di ascolto di Melancholia culminò in un tentativo di reinvenzione, un atto di resistenza linguistica contro la standardizzazione del mercato editoriale. La mia traduzione è nata dal desiderio di esplorare il corpo fisico della parola, di cercarne un sapore teatrale, furfantesco, quasi un furto dei versi e delle cadenze. È un testo che vive di tensioni sottili, di un armamentario linguistico che oscilla tra il ricercato e il popolare, tra lo sferzante e il reticente, e che a tratti parodizza il sublime con un gusto per l’ironia e l’irrisione.

Nel rincorrere questo testo, ho voluto catturare la qualità incantatoria della parola, quella musicalità che si situa ben oltre il senso e che, come un flusso magico, rapisce il lettore precipitando la sua mente in un vortice fantastico. Così, rileggere Verlaine per me è stata un’esperienza caotica e ordinata allo stesso tempo, una danza tra abbandono e risveglio di connessioni impensabili.

In fondo, la mia traduzione è stata una celebrazione dell’inverno come metafora, un inno all’eroismo quotidiano, alle astuzie e alle cadute di un’umanità bonariamente sgangherata. Ho costruito reti di rimandi, ricorsi e riprese che davano l’impressione di un continuo rigenerarsi, oscillando tra il mondo individuale e quello collettivo, tra la mente e la realtà. Tutto ciò, per me, rappresentava una virtù trasformativa, un modo di riscrivere i testi, fedele al pensiero ma non alla parola, con energia, colori e tonalità proprie. E continua a essere, ancora oggi, una posizione insensata e personale, come ogni autentica posizione dovrebbe essere.

LE VERSIONI 

Paul Verlaine
MELANCHOLIA
Edizioni l'Obliquo
Ozî 12
Dicembre 1992

I Saggi d’altritempi, che valgon quanto questi,
credettero, ed è un punto ancor dei più contesti,
leggere in cielo di fortune come di disastri
e che ogni anima legata fosse ad uno degli astri.
(S’è molto riso, non pensando che sovente
il ridere è ridicolo quanto il ridente,
di questo spiego sul mistero notturno.)
Ora coloro che son nati sotto il segno di Saturno,
selvaggio pianeta, caro ai negromanti,
hanno, fra tutti, secondo scrittura d’anni avanti,
buona parte di sfortuna e buna parte di bile.
L’immaginazione, inquieta e vulnerabile,
viene a render nullo, in loro, lo sforzo di Ragione.
Nelle loro vene, il sangue, sottile come velena pozione,
simile a lava brucia, e raro, scorre e scolla,
anticando il loro triste Ideale che si crolla.
Così da soffrire hanno i Saturniani e in modi tali
morire, ammettendo che siano mortali,
il loro piano di vita, in ogni linea si designa
per la logica d’una Influenza maligna.

 
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Rassegnazione

 

Da piccolo, andavo sognando Ko-Hinnor,
sontuosià persiana e papaple,
presenze eliogabale e sardanepale!

Il mio desìo creava sotto i tetti d’or,
tra i profumi, al suono di musiche,
harem senza fine, paradisèe fisiche!

Oggi, più calmo e non meno ardente,
ma sapendo la vita che ci fa piegare,
ho dovuto la mia bella follia refrenare,
rassegnandomi un bel niente.

Sia! Il grandioso scappa al mio dente,
ma, vergogna dell’amabile e vergogna del vile!
Odio per sempre la graziosa donna-monile,
la rima assonante e l’amico prudente.

 
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Nevermore

 

Ricordo, ricordo, che vuoi da me? L’autunno
faceva volare il tordo attraverso l’aeraggio a-tono
e il sole dardava un raggio mono-tono
nel bosco ingiallendo ove il gelo  de-tono.

Noi eravamo da solo a sola e camminavamo sognando,
lei ed io, i capelli e i pensieri al vento lasciando.
A me, improvviso, il suo sguardo voltando:
“quale fu il tuo più bel dì?” con voce dorata parlando,

la sua voce dolce e sonora, timbro angelico e fresco.
Discretamente risposi con un sorriso di pesco,
e le sue mani bianche baciai devotamente.

Ah! i primi fiori quanto sono profumati
e come risuona d’echi dolcemente
il primo sì che esce dai labbri amati!

 
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Dopo tre anni

 

Avendo spinta la porta stretta che barcolla,
ho passeggiato nel piccolo giardino
schiarito dolcemente dal sole del mattino,
paiettante d’un’umida scintilla ogni corolla.

Niente è cambiato. Ho tutto riveduto: l’umile riparamento
di selvatico viticcio con le sedie di giunco…
Il getto d’acqua fa sempre il suo argentino mormorio
e il vecchio pioppo il suo sempreterno lamento.

Le rose come sempre palpitano; sempre ripetenti,
i grandi gigli orgogliosi si muovono ai venti.
Ogni allodola che va e viene m’è già sembrata.

Egualmente ho ritrovato in piedi la Valléda
ove il gesso si scaglia alla via cominciata
gracile, fra l’odore insipido di reseda.

 
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Voto

 

Ah! intimi colloqui! Le prime amate!
L’oro dei capelli, l’azzurro d’occhi, di carni il fiore
e poi, fra l’odore dei corpi giovani e d’amore,
la spontaneità di carezze timorate!

Sono assai lontane tutte queste allegrezze
e tutti questi candori! ahimè! tutto verso
la primavera di rammarico si fugge il nero inverno riverso
della mia noia, dei miei disgusti, delle mie tristezze!

Ora eccomi solo, taciturno e solo,
mesto e disperato, più freddo d’un avolo,
e simile ad un povero senza sorella nella sua orfanezza.

Oh la danna dall’amore caliente e carezzante,
dolce, pensierosa e bruna, e mai in mentale arretratezza,
e che talvolta vi bacia in fronte, come un infante!

 

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Stanchezza

 

     A batallas de amor campo de pluma.
     (Gongora)

 

Dolcezza, dolcezza, dolcezza!
Placa un po’ questi febbrili trasporti, mia fascinante.
Pure al colmo del piacimento, vedi, l’amante,
della sorella deve avere la pacifica rilassatezza.

Sii languida, rendi la tua carezza sonnale,
ben eguali i tuoi sospiri e il tuo tranquillo guardare.
Già, la stretta gelosa e l’ossessivo spasmare
non valgono un lungo bacio, pur mentale!

Mi dici, mia bimba, nel tuo caro cuore d’oro,
la selvaggia passione dà dell’olifante il sonoro!…
lasciala suonare a suo piacere, l’affamata!

Poni la tua fronte sulla mia e nelle mie le tue mani
e promettimi che scorderai domani,
e piangiamo fino a che sarà giorno, o piccola infuocata!

 
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Il mio sogno familiare

 

Sovente faccio questo sogno strano e penetrante
d’una donna sconosciuta, e che amo ricambiato,
e che non è mai la stessa ad ogni reincontrato
sogno ma neppure altra, e mi comprende e m’è amante.

Poiché ella mi capisce, il mio cuore, trasparente
soltanto per lei, eh già!, cessa d’essere tremore
per lei, della mia allibita fronte il sudore
lei sola sa rinfrescare, piangente.

È bruna, bionda o rossa? Io l’ignoro.
Il suo nome? Mi ricordo che è dolce e sonoro
come quello degli amati che la vita scaccia.

Pari a quello delle statue è il suo sguardo,
e, lontana e calma, grave, la sua voce abbraccia
morte voci nel pieno del riguardo.

 
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A una donna

 

A voi questi versi per la grazia consolante
dei vostri grandi occhi dove ride e piange un grande sogno,
per l’anima vostra pura e buona, a voi – senza bisogno –,
questi versi dalla mia disperazione affondante.

Ahimè, l’incubo schifoso che mi bazzica braccante
non ha tregua e va furioso, folle, geloso,
si moltiplica quale coorte di lupi – manto peloso –
e si lega alla mia sorte sanguinante!

Oh! soffro, soffro orribilmente affronto
e il primo gemere del primo uomo cacciato dal Paradiso,
non è che un’egloga al mio in confronto!

E le premure che voi avete fanno buon viso
a rondini su di un cielo nel mezzogiorno passato
cara! – da un bel giorno di settembre dolciato.

 
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L’angoscia

 

Natura, niente di te mi commuove, né gli spanti
campi, né l’eco vermiglia dei pastorali
siciliani, né le magne aurorali,
né la solennità dolente dei calanti.

Io rido dell’Arte, rido pure dell’Uomo, dei cantabili,
dei versi, dei templi greci e delle torri a spirali
che slanciano nel cielo vuoto le cattedrali,
e vedo con lo stesso occhio buono e non amabili.

Non credo in Dio, abiuro e rinnego,
ogni pensamento, e in quanto al vecchio diniego,
l’Amore, vorrei che non più se n’andasse a dire.

Tedio di vivere, avente paura di morire, eguale
al vascello perduto nel gioco del fluire e rifluire
l’anima mia salpa per naufragi nel male.