domenica 30 marzo 2025

Brera Design Week 2025: il Fuorisalone tra arte, luce e innovazione

Brera si prepara a trasformarsi in un grande laboratorio di idee per il Fuorisalone 2025, confermando il suo ruolo centrale all’interno della Milano Design Week, in programma dal 7 al 13 aprile. Il quartiere, con il suo mix di storia, artigianato e innovazione, ospiterà oltre 300 eventi tra installazioni, mostre e incontri, offrendo ai visitatori un’immersione totale nel mondo del design contemporaneo. Per sette giorni, le strade di Brera si animeranno con esposizioni a cielo aperto, spettacoli di luce, percorsi interattivi e incontri con i più grandi nomi del design internazionale, trasformando il quartiere in una vetrina d’avanguardia e sperimentazione.

Il tema scelto per questa edizione, Mondi Connessi, guiderà l’intero percorso espositivo, mettendo in dialogo il saper fare tradizionale con le nuove frontiere del digitale e della sostenibilità. Brera, con i suoi showroom, le gallerie d’arte e gli spazi temporanei allestiti per l’occasione, diventerà il punto di incontro tra passato e futuro, tra materiali della tradizione e sperimentazioni avanguardistiche. Questo tema sarà declinato attraverso numerosi progetti che esploreranno i legami tra artigianato e intelligenza artificiale, tra materiali ecosostenibili e produzione industriale, tra cultura locale e influenze globali.

Uno degli eventi più attesi è Library of Light, un’installazione ideata dalla celebre scenografa Es Devlin, nota per le sue creazioni immersive e teatrali. L’opera, posizionata nel Cortile d’Onore della Pinacoteca di Brera, si presenterà come una grande struttura circolare illuminata, al cui interno troveranno posto oltre duemila libri selezionati dall’editore Feltrinelli. Questo spazio non sarà solo un’installazione visiva, ma anche un luogo di riflessione e di incontro: al termine della manifestazione, i volumi verranno donati alle biblioteche cittadine, trasformando l’opera in un simbolo di condivisione e diffusione della cultura. L’installazione sarà accompagnata da una serie di eventi collaterali, tra cui reading, incontri con autori e performance artistiche che renderanno l’esperienza ancora più immersiva. Il pubblico potrà partecipare attivamente attraverso eventi di lettura condivisa e sessioni di storytelling guidate da scrittori e intellettuali. Inoltre, l’installazione sarà illuminata con una tecnologia innovativa che reagisce ai movimenti e alle interazioni dei visitatori, creando un ambiente dinamico e in continua evoluzione.

Parallelamente, il Brera Design Apartment ospiterà Orizzonti, un progetto dello studio Zanellato/Bortotto che esplora il concetto di orizzonte attraverso l’uso del colore e della materia. L’installazione giocherà con percezioni e prospettive, offrendo ai visitatori un’esperienza sensoriale che richiama il continuo cambiamento del paesaggio e delle nostre stesse visioni del mondo. L’opera sarà accompagnata da una serie di workshop interattivi in cui i partecipanti potranno sperimentare con materiali e tecniche innovative, esplorando la relazione tra luce, spazio e colore. Inoltre, un team di esperti guiderà visite interattive, spiegando il processo creativo e il significato simbolico dell’opera. Saranno disponibili anche tour virtuali e approfondimenti digitali che permetteranno di fruire dell’installazione anche a distanza, ampliando così il raggio d’azione dell’esperienza artistica.

Ma il Fuorisalone di Brera non sarà solo un percorso espositivo: il quartiere si animerà con talk, workshop e incontri con designer di fama internazionale, dando vita a un dibattito aperto sulle nuove direzioni del design. Tra gli argomenti al centro della discussione ci saranno il rapporto tra artigianato e tecnologia, la progettazione sostenibile e l’uso dell’intelligenza artificiale nel design. Le conferenze e i panel vedranno la partecipazione di esperti di livello mondiale, da architetti e designer a scienziati e ingegneri, creando un ponte tra diverse discipline e prospettive. Alcuni di questi incontri saranno trasmessi in diretta streaming, per permettere una partecipazione globale e facilitare lo scambio di idee tra professionisti e appassionati di design. Un’attenzione particolare sarà dedicata alle nuove frontiere del design biomimetico, che trae ispirazione dalle strutture naturali per sviluppare soluzioni innovative ed efficienti.

Tra le altre iniziative di rilievo, il Brera Design District presenterà una serie di eventi speciali dedicati all’intersezione tra arte e tecnologia, con la partecipazione di creativi provenienti da tutto il mondo. Non mancheranno le collaborazioni con le accademie e le scuole di design, che offriranno ai giovani talenti l’opportunità di esporre i propri progetti e confrontarsi con professionisti del settore. Alcuni spazi saranno dedicati alle start-up emergenti, che presenteranno soluzioni innovative in grado di ridefinire il modo in cui viviamo e interagiamo con il design. Si potranno scoprire nuovi materiali eco-compatibili, soluzioni per l’abitare del futuro e progetti che fondono tecnologia e artigianato per una produzione più sostenibile. Saranno previsti anche laboratori aperti per i visitatori, che potranno sperimentare con materiali innovativi e processi produttivi all’avanguardia.

Un altro appuntamento imperdibile sarà il percorso Green Futures, che riunirà esposizioni e installazioni dedicate alla sostenibilità ambientale e all’uso di materiali innovativi. Dai nuovi approcci al riciclo all’uso di biomateriali e tecniche di produzione a basso impatto, i visitatori potranno esplorare soluzioni che ridisegnano il futuro del design in chiave ecologica. Alcuni designer presenteranno mobili e oggetti di design realizzati con materiali riciclati, dimostrando come il riuso possa essere non solo funzionale ma anche esteticamente raffinato. Il percorso comprenderà anche installazioni interattive che illustreranno il ciclo di vita dei materiali e il loro impatto ambientale.

L’illuminazione urbana sarà protagonista di un progetto speciale che trasformerà le vie di Brera in un vero e proprio museo a cielo aperto. Installazioni luminose interattive guideranno i visitatori in un percorso serale attraverso il quartiere, creando un’atmosfera magica e suggestiva. Alcune di queste opere sfrutteranno energie rinnovabili e materiali innovativi, sottolineando il legame tra estetica e sostenibilità. Un sistema di illuminazione intelligente consentirà di ridurre il consumo energetico, adattandosi alle necessità della città e valorizzando il patrimonio architettonico di Brera.

Anche la gastronomia avrà un ruolo di rilievo durante il Fuorisalone 2025. Ristoranti e bistrot del quartiere proporranno menu speciali ispirati al tema Mondi Connessi, con piatti che uniscono ingredienti tradizionali e innovazione culinaria. Alcuni chef collaboreranno con designer per creare esperienze gastronomiche immersive, in cui il cibo diventerà parte di un racconto visivo e sensoriale. Il design non sarà solo negli arredi e nelle esposizioni, ma anche nel modo in cui il cibo viene presentato e consumato.

Con i suoi spazi iconici, dalle gallerie ai cortili nascosti, Brera si conferma un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia scoprire le nuove tendenze del settore. La Brera Design Week 2025 si preannuncia come un’esperienza unica, un viaggio tra sperimentazione e bellezza, in cui il design diventa il linguaggio attraverso cui raccontare il futuro. Grazie a un programma sempre più inclusivo e multidisciplinare, Brera continua a essere un laboratorio creativo aperto a contaminazioni e innovazioni, rendendo Milano il fulcro mondiale del design contemporaneo.


sabato 29 marzo 2025

Dall'ebraismo alla questione palestinese

L’ebraismo, come tradizione, ha sempre avuto la capacità straordinaria di sfidare le leggi della stasi e di reinventarsi, adattandosi alle sfide della storia e alle mutevoli condizioni sociali, culturali e politiche in cui si è trovato. Da sempre, essa si è distinta per una dinamica tensione tra l’immobilità di certe verità rivelate e la mobilità necessaria alla sopravvivenza in un mondo che muta costantemente. È proprio questa fluidità che ha permesso all’ebraismo di affrontare secoli di persecuzioni, esili e distruzioni, senza mai perdere la propria essenza, senza mai farsi inghiottire dall’oblio. Eppure, in questo processo di continua trasformazione, la tradizione ebraica non ha mai smesso di essere in contatto con le sue radici. La sua grandezza sta proprio nel fatto che, pur nel continuo cambiamento, non ha mai rinnegato ciò che l’ha fondata: la legge, la Torah, la ricerca di un significato profondo nel dialogo con il divino.

Ma oggi, nel contesto della modernità, l’ebraismo affronta una nuova sfida: quella della secolarizzazione e della crescente distanza dalla religiosità tradizionale. La domanda che si pone è questa: come può una tradizione che si è fondata sulla centralità della legge e della fede, in un mondo sempre più individualista e pluralista, continuare a rispondere alle esigenze di chi si sente ebreo? In un mondo dove la religione sta perdendo sempre più terreno a favore della ragione, della scienza e della libertà individuale, come può l’ebraismo rispondere a chi si interroga sul suo posto nel mondo? Se la legge religiosa, l’halakhah, non ha più la stessa centralità che aveva in passato, se le pratiche quotidiane non sono più il centro della vita religiosa, come può l’ebraismo rimanere vivo, rilevante e significativo per le nuove generazioni?

L’ebraismo odierno sembra, a volte, essere sospeso in un paradosso. Non è più solo la religione che definisce l’identità ebraica, ma anche la cultura, la filosofia, la letteratura. In questo contesto, ci sono stati pensatori e scrittori ebrei che hanno portato la riflessione sull’identità ebraica ben oltre i confini delle pratiche religiose. Kafka, Freud e Scholem, tre figure che sembrano appartenere a mondi tanto diversi, hanno rappresentato, ognuno a suo modo, un approccio radicale all’ebraismo, un approccio che ha cercato di andare oltre le definizioni tradizionali, senza tuttavia rinunciare all’eredità ebraica. Ognuno di loro ha esplorato l’ebraismo in modo non convenzionale, ma non per questo meno profondo e significativo. Piuttosto, hanno messo in luce il paradosso fondamentale dell’ebraismo stesso: la tensione tra una tradizione che si sente necessaria e una modernità che mette in discussione quella stessa necessità.

Kafka, nel suo approccio esistenziale, ha saputo trasmettere un’idea di ebraismo che non è mai definita una volta per tutte, ma è sempre in ricerca, sempre sospesa tra l’appartenenza e l’esclusione. Nei suoi romanzi, l’ebraismo appare come una condizione tragica, fatta di solitudine, di alienazione, di una costante ricerca di una legge che non arriva mai, di un incontro con il divino che non è mai esaustivo. La sua visione non è pietistica, non è confortante, ma è l’immagine di un’identità che vive nella mancanza, nell’incertezza. L’ebraismo kafkiano è un’idea che non si esprime mai in modo chiaro, ma che si rivela attraverso il desiderio di rispondere a una domanda che resta senza risposta. Questa è forse la forma più pura di ebraismo che Kafka ci ha lasciato: un ebraismo non più legato alla ritualità e alla legge, ma a una costante ricerca di significato in un mondo che sembra privato di certezze.

Freud, d’altra parte, ha portato l’ebraismo nel terreno della psicologia e dell’inconscio. Il suo lavoro su Mosè e sulla religione monoteista ha suggerito un’interpretazione radicalmente nuova dell’identità ebraica. L’ebraismo per Freud non è solo un dato di fede, ma anche il risultato di un trauma collettivo, una memoria storica che affonda le radici nell’inconscio. L’idea che Mosè fosse un egiziano e che la religione ebraica fosse il frutto di una reazione a un evento traumatico ha avuto una forte risonanza, poiché sfida le narrazioni tradizionali e offre una visione dell’ebraismo come una costruzione psicologica. In quest’ottica, l’ebraismo diventa una forma di resistenza, un meccanismo di sopravvivenza che si costruisce attraverso la rielaborazione del dolore e del ricordo, un modo di reagire agli eventi traumatici che ha modellato non solo l’identità ebraica, ma anche la psiche umana nel suo complesso.

Gershom Scholem, dal canto suo, ha restituito all’ebraismo un significato più mistico, legato alla dimensione della rivelazione. Il suo interesse per la Cabala e per la mistica ebraica lo ha portato a vedere l’ebraismo non solo come una religione legata alla legge, ma come una tradizione che affonda le sue radici in una visione profonda della realtà, capace di vedere il divino nelle pieghe più nascoste della vita quotidiana. La Cabala, secondo Scholem, è un tentativo di comprendere la struttura nascosta del mondo, di penetrare nei misteri della creazione, ed è questo approccio che permette all’ebraismo di rimanere vivo e rilevante anche al di fuori delle tradizioni rituali e legali. La mistica ebraica, nella sua accezione cabalistica, propone una visione del mondo come un tessuto intricato, dove il divino si cela dietro ogni dettaglio e ogni evento, dando spazio alla ricerca incessante di significato. Per Scholem, l’ebraismo è un viaggio senza fine verso la rivelazione, un percorso che si sviluppa non solo nella comunità e nelle sue leggi, ma anche nel cuore del singolo individuo, nel suo rapporto con il mistero della vita e dell’universo.

Questa visione dell’ebraismo come percorso di continua esplorazione è emblematica di un modo diverso di concepire la tradizione. Se la tradizione normativa ebraica, quella che si articola attorno alla Torah e alla legge, rappresenta un quadro più rigido e definito, la mistica e la filosofia ebraica, rappresentata da Scholem e da altri pensatori, ci offrono un’altra lettura dell’identità ebraica: una lettura che non si limita alla conformità esteriore, ma che guarda alla profondità dell’anima, alla tensione interiore tra il divino e l’umano, tra il visibile e l’invisibile. La rivelazione divina, in questa prospettiva, non è un evento che avviene una sola volta, ma è un processo continuo, che attraversa la storia, la cultura, e anche la singola vita, restituendo ogni volta nuove sfumature di significato.

La stessa ricchezza dell’ebraismo moderno risiede nel fatto che, nonostante la dissoluzione delle certezze tradizionali e l’emergere di nuovi paradigmi culturali e sociali, esso continua a sfidare le definizioni rigide. L’ebraismo contemporaneo, in un certo senso, ha smesso di essere un “sistema” e si è trasformato in una “domanda”, un interrogativo aperto sul senso della vita, sull’identità, sul rapporto con il sacro. Non è più solo un corpo di leggi e di rituali, ma una cultura che, pur mantenendo un legame profondo con il suo passato, si nutre delle sfide del presente. È un’ebraismo che cerca nuove forme di espressione, sia attraverso la letteratura che attraverso l’arte, la filosofia, la politica, e che non ha paura di interrogarsi sulle proprie radici, sulla sua storia, e su come queste possano dialogare con il mondo contemporaneo.

Il contributo che autori e filosofi contemporanei come Philip Roth, Saul Bellow, Cynthia Ozick, Amos Oz, e molti altri, hanno dato alla cultura ebraica è fondamentale per comprendere come l’ebraismo possa sopravvivere senza dover ricorrere esclusivamente alla ripetizione di pratiche religiose tradizionali. Questi autori, pur essendo ebrei, non scrivono semplicemente di ebraismo come una religione o una tradizione, ma esplorano l’identità ebraica come una condizione complessa, in cui si intrecciano memorie storiche, conflitti interiori, riflessioni esistenziali. L’ebraismo per questi scrittori diventa un tema centrale, ma non nel senso di una cultura immobile che si ripete, quanto piuttosto come un campo di indagine che evolve con il tempo, una sorta di “luogo” in cui l’individuo e la collettività possono continuamente reinventarsi.

In questo panorama, l’ebraismo non è più solo una questione di norme e di riti da rispettare, ma una questione di ricerca intellettuale, di riflessione critica sulla propria storia e sul proprio posto nel mondo. La riflessione ebraica diventa un atto di liberazione intellettuale e spirituale, dove la tradizione è rivisitata e reinterpretata in chiave contemporanea, senza perdere il legame con ciò che l’ha preceduta. L’ebraismo, insomma, diventa uno spazio di libertà, non più prigioniero di dogmi immutabili, ma aperto a nuove possibilità di espressione e di significato.

La sfida che l’ebraismo contemporaneo affronta, quindi, è quella di mantenere viva la sua essenza, pur riconoscendo la necessità di cambiare, di evolversi, di adattarsi alle nuove realtà del mondo in cui viviamo. Non si tratta di rinnegare la tradizione, ma di riconoscere che la tradizione stessa è fatta di cambiamento. L’ebraismo del futuro potrebbe non essere definito da leggi fisse, ma piuttosto da un impegno costante a rispondere alle domande universali sull’identità, sul divino, sulla moralità e sulla giustizia. Esso potrebbe esprimersi più attraverso la cultura, l’arte, la filosofia, la politica, che non attraverso la pratica religiosa tradizionale. Potrebbe essere un ebraismo che parla a ciascun individuo, che invita a riflettere sulla propria condizione di essere umano, senza mai dimenticare il legame profondo con il passato, ma senza rimanere intrappolato in esso.

In fondo, l’ebraismo è sempre stato una tradizione che ha cercato di conciliare il desiderio di rispondere alle domande esistenziali fondamentali con la necessità di essere radicata in un passato ricco di significati. Oggi, più che mai, l’ebraismo ha bisogno di continuare questa ricerca, di interrogarsi sulle proprie tradizioni, ma anche di essere capace di evolversi e di dialogare con il mondo contemporaneo. La sua forza sta nella capacità di reinventarsi continuamente, mantenendo intatta la sua identità e il suo valore di fronte ai cambiamenti della storia. La sfida per l’ebraismo del futuro è proprio quella di continuare ad affrontare le domande universali sull’essere umano, sul divino, sulla giustizia e sulla libertà, con una mente aperta, capace di dialogare con le culture del presente senza rinunciare a ciò che lo ha definito nel corso dei secoli. In questo modo, l’ebraismo potrà continuare a essere una fonte di ispirazione per le generazioni future, non solo come una tradizione religiosa, ma come una cultura viva e in continua evoluzione.

L’ebraismo contemporaneo, in quanto tradizione religiosa, culturale e storica, è un fenomeno complesso che si sviluppa all’incrocio di mille influenze globali, ma allo stesso tempo continua a trarre forza dalla sua ricca eredità millenaria. La sua attuale configurazione è il risultato di un lungo processo evolutivo che ha subito innumerevoli trasformazioni, sia a livello religioso che sociale. Il fatto che l’ebraismo oggi venga vissuto e compreso in modi molto diversi a seconda delle contesti storici e geografi è testimone di un dinamismo che è stato sempre parte integrante della sua storia. La sfida principale oggi non è tanto quella di mantenere intatta una tradizione definita, ma quella di riuscire a conciliare la preservazione di questa tradizione con la continua necessità di adattarsi ai cambiamenti storici, sociali e culturali.

Una delle domande fondamentali che occupano i pensieri di molti ebrei moderni è quella dell’identità: cosa significa essere ebreo nel contesto contemporaneo? La risposta, purtroppo, non è univoca. L'ebraismo non è mai stato un fenomeno omogeneo, ma è sempre stato segnato da una straordinaria varietà, che si riflette nelle numerose correnti interne alla religione. Oggi, se da un lato ci sono ancora praticanti devoti che osservano scrupolosamente la legge religiosa e i riti tradizionali, dall’altro molti ebrei, soprattutto nelle società occidentali, si considerano parte di una tradizione che è al contempo culturale, storica e, talvolta, più che religiosa. La spiritualità ebraica, infatti, può essere vissuta anche come una ricca eredità intellettuale e culturale, che si esprime attraverso la letteratura, l'arte, la filosofia, e, soprattutto, la memoria storica.

A differenza di altre tradizioni religiose che mantengono un legame più stretto con la religiosità e la pratica rituale, l'ebraismo, soprattutto nel mondo occidentale, ha conosciuto una progressiva secolarizzazione. In molte comunità, la religione e le pratiche rituali, come il sabato o le festività, non sono più il fulcro della vita quotidiana. Tuttavia, ciò non significa che la tradizione ebraica sia in declino o in via di estinzione, ma piuttosto che l’ebraismo contemporaneo ha trovato nuovi modi di manifestarsi, più compatibili con le esigenze del mondo moderno. La cultura ebraica, infatti, si esprime oggi in una varietà di forme che spaziano dalla letteratura alla musica, dalla filosofia alla politica. Non sorprende, dunque, che molti ebrei moderni si sentano uniti non tanto dalla fede religiosa in senso stretto, quanto dal legame con una cultura che ha resistito secoli di persecuzioni, dispersione e sfide.

A questa complessa rete di sfide culturali, sociali e religiose, l'ebraismo moderno aggiunge anche la questione della diaspora, che continua a essere una delle sue caratteristiche distintive. Oggi come in passato, la dispersione del popolo ebraico in diverse parti del mondo ha dato vita a una pluralità di esperienze e interpretazioni della tradizione. Le comunità ebraiche europee, americane, sudamericane, africane e israeliane si trovano ad affrontare sfide diverse, ma sono anche legate da un destino comune che si radica nella memoria storica e nella percezione di essere un popolo legato dalla storia e dalla cultura, piuttosto che dalla religione stessa. Le comunità ebraiche della diaspora hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo delle culture nazionali, e oggi molti ebrei si identificano con la loro eredità in modo più culturale che religioso, rinforzando la dimensione storica e collettiva dell’identità ebraica.

Un altro tema di grande attualità nell’ebraismo contemporaneo è quello del rapporto con Israele. Se per un tempo il sionismo, come movimento politico e ideologico, è stato visto come la risposta al secolare sogno di una patria ebraica, oggi la relazione con Israele è più complessa. Israele è diventato non solo la patria nazionale degli ebrei, ma anche un punto di riferimento culturale, storico e politico fondamentale per molte comunità ebraiche in tutto il mondo. Tuttavia, il conflitto israelo-palestinese e le difficoltà politiche interne ad Israele hanno sollevato interrogativi profondi anche all’interno delle comunità ebraiche globali. Sebbene molti ebrei si sentano ancora legati a Israele e ne sostengano la sicurezza, non mancano voci critiche che si oppongono a certe politiche israeliane, in particolare per quanto riguarda la questione dei diritti dei palestinesi e la politica di occupazione.

L’Olocausto, con il suo carico tragico e indelebile, è un altro tema che continua a essere al centro della riflessione ebraica contemporanea. La Shoah ha lasciato una cicatrice profonda nella coscienza collettiva e ha segnato la fine di un’epoca per il popolo ebraico. La memoria dell’Olocausto è oggi una componente imprescindibile della cultura ebraica, ma il modo in cui viene interpretata e tramandata non è privo di tensioni. Alcuni vedono la memoria della Shoah come una chiave per comprendere le sofferenze passate e per giustificare la necessità di garantire la sicurezza di Israele. Altri, invece, avvertono il pericolo di un uso politico strumentale della memoria dell’Olocausto, utilizzato per giustificare azioni che potrebbero essere ritenute ingiuste o immorali.

In questo contesto, l’ebraismo contemporaneo si interroga sulla propria missione in un mondo che, purtroppo, non ha smesso di essere teatro di conflitti, ingiustizie e discriminazioni. Come può un popolo che ha sofferto tanto nel corso della sua storia trovare una via per la pace e la giustizia? E come può l’ebraismo, che ha sempre avuto una forte componente etica, rimanere fedele ai suoi principi di giustizia e compassione mentre affronta le sfide moderne? La riflessione su questi temi è centrale nelle discussioni interne all'ebraismo, dove si confrontano le posizioni più liberali e quelle più conservatrici. La questione di come mantenere una moralità coerente con la tradizione ebraica in un mondo che sembra allontanarsi sempre più dalla religiosità è un dilemma che non trova facili risposte.

Inoltre, l’ebraismo moderno si trova oggi a confrontarsi con le sfide poste dal dialogo interreligioso e interculturale. In un mondo globalizzato, le interazioni tra le diverse religioni e culture sono inevitabili. In questo contesto, l’ebraismo ha avuto un ruolo importante nel dialogo con il cristianesimo e con l’islam, ma anche con le altre religioni del mondo. Il dialogo interreligioso, sebbene talvolta difficile, rappresenta una strada importante per la costruzione di una pace duratura e per la creazione di legami di comprensione e rispetto reciproco. Ma in un’epoca di crescenti tensioni religiose e politiche, questo dialogo non è privo di difficoltà.

L’ebraismo del XXI secolo, in definitiva, è un’istituzione in costante movimento, che cerca di restare fedele alle sue radici mentre esplora nuovi orizzonti culturali, etici e spirituali. La sua capacità di adattarsi ai tempi e al contesto storico, pur mantenendo un legame forte con la sua tradizione, ne garantisce la vitalità. L’ebraismo oggi non è solo una religione o una cultura, ma è diventato un crocevia di idee, esperienze e riflessioni che rispondono alle sfide di un mondo in continua evoluzione. La sua storia è un testamento alla resilienza e alla capacità di reinventarsi, pur mantenendo intatti quei valori di giustizia, misericordia e speranza che hanno sempre caratterizzato il popolo ebraico.

Il legame storico e religioso tra l’ebraismo e la Palestina è un tema che affonda le sue radici in millenni di storia, culturale e spirituale, e si intreccia con le vicende politiche e sociali che hanno plasmato non solo la regione mediorientale, ma anche l’intera storia della civiltà occidentale. Questo rapporto, complesso e articolato, va ben oltre il contesto moderno, e affonda nel profondo dei testi biblici e nelle tradizioni religiose che hanno dato forma all’identità del popolo ebraico. La Palestina, nella tradizione ebraica, è molto più di un semplice luogo geografico; rappresenta il cuore della memoria collettiva, un simbolo di speranza e di sogno, ma anche di sofferenza, esilio e lotta per la sopravvivenza. Con il passare dei secoli, il rapporto con questa terra è diventato tanto spirituale quanto politico, alimentando desideri di ritorno, di rivendicazione e di riscatto. Tuttavia, questo stesso legame ha generato conflitti, divisioni e continue tensioni, che si sono estesi ben oltre il solo ambito religioso per coinvolgere questioni di sovranità, identità nazionale e autodeterminazione.

Il legame tra gli ebrei e la Palestina ha origini che risalgono all’antichità, radicate nei testi sacri e nei miti fondatori della cultura ebraica. Secondo la Bibbia, la Terra Promessa è stata data da Dio agli ebrei come loro eredità eterna, un dono che segna la fine di un lungo cammino di esilio e sofferenza. La figura di Abramo, il patriarca biblico che ricevette da Dio la promessa di una discendenza che avrebbe abitato questa terra, simboleggia il momento in cui la Palestina diventa il cuore della speranza del popolo ebraico. Sebbene il regno di Israele, che fiorì sotto re Davide e Salomone, abbia rappresentato il massimo splendore della presenza ebraica in quella regione, la successiva conquista da parte di potenze straniere, come gli Assiri, i Babilonesi e infine i Romani, portò a un lungo periodo di esilio e dispersione. La distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C. segna simbolicamente la fine della sovranità ebraica sulla Palestina e l’inizio della diaspora, ma nonostante l’esilio, la memoria di Gerusalemme e della Terra di Israele continuò a vivere nel cuore di ogni ebreo, sia in terra di esilio che nelle preghiere quotidiane. Ogni anno, durante la celebrazione della Pasqua ebraica, gli ebrei ripetono la frase "L'anno prossimo a Gerusalemme", una dichiarazione simbolica di speranza e di attesa.

Il sionismo, che nacque nel XIX secolo, rispondeva a una situazione che vedeva gli ebrei europei, perseguitati e discriminati, cercare un rifugio sicuro e una patria dove poter vivere senza subire l’umiliazione dell’esclusione e della violenza. Mentre le persecuzioni e il crescente antisemitismo in Europa stimolavano la riflessione sull’emancipazione e sull’integrazione, il sionismo proponeva una soluzione diversa: la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Gli ideali del sionismo non si limitavano a un ritorno fisico alla terra di Israele, ma prevedevano la rinascita di una nazione ebraica che rimanesse fedele ai valori della sua tradizione religiosa, ma che fosse anche in grado di rispondere alle sfide del mondo moderno.

Theodor Herzl, uno dei fondatori del sionismo, vedeva il movimento come una risposta concreta all’oppressione e al rifiuto dell’ebraismo in Europa, soprattutto dopo il caso Dreyfus in Francia, che mostrò al mondo l’antisemitismo dilagante in Occidente. Herzl sosteneva che solo creando una patria sicura in Palestina, gli ebrei avrebbero trovato la loro salvezza, lontano dall’ostilità dei popoli che li circondavano. Il sionismo si fondò su un’ambiziosa idea di auto-sufficienza, che cercava di rinnovare la vita ebraica non solo in termini politici, ma anche culturali, economici e sociali. La creazione di kibbutz, la riscoperta della lingua ebraica e la promozione di una cultura ebraica laica segnarono i primi passi verso la realizzazione del sogno di un Israele che fosse, allo stesso tempo, una patria moderna e radicata nelle tradizioni più antiche.

Tuttavia, il sionismo non fu privo di controversie, soprattutto per il popolo palestinese che abitava quella stessa terra. Mentre gli ebrei sognavano la fondazione di un nuovo Stato, la popolazione araba palestinese vedeva minacciata la propria identità e la propria sovranità. La visione di uno Stato ebraico in una terra già abitata da una popolazione araba si scontrava inevitabilmente con le rivendicazioni dei palestinesi, che non potevano accettare l’idea di essere privati della propria terra. Il conflitto tra i due popoli si sviluppò così, con la creazione di Israele che, da un lato, segnò il culmine di un sogno millenario per gli ebrei, ma dall’altro scatenò il dramma e la sofferenza per i palestinesi.

La proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 segnò il culmine del sogno sionista, ma allo stesso tempo segnò l’inizio di una nuova era di conflitto. La guerra che ne seguì, la Guerra di Indipendenza, vide migliaia di palestinesi costretti a fuggire dalle loro case e a diventare rifugiati in altri Paesi arabi. Quella che per gli ebrei fu una vittoria storica, per i palestinesi divenne la Nakba, una catastrofe che ancora oggi rappresenta una ferita profonda. La creazione di Israele portò alla divisione della terra e alla nascita di un problema che avrebbe segnato il futuro del conflitto israelo-palestinese: la questione dei rifugiati palestinesi. Non solo gli ebrei che fuggirono dai Paesi arabi, ma anche i palestinesi, furono costretti a vivere in esilio, creando una diaspora parallela a quella ebraica, che in qualche modo rifletteva la stessa dinamica di un popolo che cerca di ritrovare la propria identità, ma che viene costantemente ostacolato da fattori esterni e interni. La guerra del 1948 creò un solco difficile da superare, un solco che oggi segna le due popolazioni in modo indelebile, con una divisione che non è solo territoriale, ma che attraversa la storia, la religione e la politica.

Gerusalemme è senza dubbio uno degli elementi più critici del conflitto israelo-palestinese. Questa città è sacra per ebrei, cristiani e musulmani, ed è al centro delle rispettive rivendicazioni religiose e politiche. Per gli ebrei, Gerusalemme è la città santa per eccellenza, simbolo della loro identità religiosa e nazionale, nonché sede del Tempio di Salomone e del Muro del Pianto, l’ultimo residuo del Secondo Tempio. Gerusalemme, che fu capitale del regno ebraico, è vista dai fedeli come il luogo dove la presenza divina è più tangibile. Per i musulmani, la città è il terzo luogo santo dell’Islam, sede della moschea al-Aqsa, che rappresenta un legame indissolubile con la loro tradizione religiosa. Inoltre, per i cristiani, Gerusalemme è il luogo in cui Gesù Cristo ha vissuto la sua passione e morte, e quindi un simbolo fondamentale del cristianesimo.

La questione della sovranità su Gerusalemme è quindi una delle più delicate e difficili del conflitto israelo-palestinese. Israele considera la città come la sua capitale indivisibile, mentre i palestinesi rivendicano la parte est della città, che comprende la Città Vecchia, come capitale del futuro Stato di Palestina. Il controllo su Gerusalemme, e in particolare sul Monte del Tempio, è uno dei punti più caldi del conflitto. Le tensioni religiose e politiche che circondano Gerusalemme sono costantemente alimentate dalla presenza di luoghi sacri, dalla memoria storica e dalla lotta per il controllo delle risorse e delle terre circostanti.

Oggi, il conflitto tra Israele e Palestina è ancora irrisolto, ma la speranza di una soluzione non è mai completamente svanita. La strada per una pace duratura sembra lunga, e le ostilità continuano ad alimentare sofferenza e disillusione. Tuttavia, ci sono segnali di cambiamento. La crescente consapevolezza dei costi umani e morali del conflitto, sia per gli israeliani che per i palestinesi, sta iniziando a spingere alcune voci in entrambe le comunità a cercare soluzioni pacifiche. In particolare, giovani e intellettuali, sia in Israele che tra i palestinesi, stanno iniziando a mettere in discussione i vecchi paradigmi e a cercare vie di riconciliazione e di coesistenza. Tuttavia, le difficoltà politiche, le divisioni interne, l'espansione degli insediamenti israeliani e la continua violenza rendono difficile qualsiasi tipo di progresso.

La questione palestinese è, senza dubbio, una delle più complesse e persistenti sfide geopolitiche contemporanee. Ogni giorno, milioni di palestinesi vivono sotto l'occupazione israeliana, affrontando violazioni dei diritti umani, repressione politica e una lotta costante per la propria identità e autodeterminazione. L'approccio alla questione, tuttavia, non si limita a una disputa tra due popoli; la sua natura è profondamente legata agli interessi esterni, alle dinamiche geopolitiche globali e alle politiche dei principali attori internazionali che hanno avuto un ruolo determinante nel plasmare il conflitto. La sofferenza e la speranza della popolazione palestinese non sono solo il risultato di una lunga storia di oppressione, ma anche degli effetti destabilizzanti delle decisioni politiche, sia locali che internazionali.

L'occupazione israeliana dei territori palestinesi rimane la causa principale delle sofferenze quotidiane della popolazione palestinese. Sebbene Israele si presenti come uno stato democratico e tecnologicamente avanzato, con una forza militare tra le più potenti al mondo, la sua politica verso i palestinesi è caratterizzata da un costante uso della forza, da espulsioni forzate e dalla costruzione di colonie nei territori occupati. Queste colonie, che violano il diritto internazionale, sono diventate una delle questioni più divisive del conflitto. Gli insediamenti sono stati una strategia di Israele per rafforzare il proprio controllo su Cisgiordania e Gerusalemme Est, territori considerati dai palestinesi come parte del loro futuro stato. La continua espansione delle colonie israeliane ha minato seriamente qualsiasi possibilità di una soluzione basata su due stati, poiché frammenta il territorio palestinese e rende impossibile una coesistenza pacifica.

Israele giustifica la propria occupazione come una misura di sicurezza necessaria per proteggersi dalle minacce dei gruppi armati palestinesi e da altri attori regionali, come Hezbollah in Libano e l'Iran. La paura di attacchi terroristici, in particolare quelli da parte di Hamas e delle Brigate al-Qassam, ha spinto il paese a sviluppare una strategia di sicurezza aggressiva, che include operazioni militari su larga scala, l'uso di droni, e la costruzione di barriere fisiche lungo i confini. Tuttavia, questi metodi non hanno portato alla pace, ma hanno solo perpetuato il ciclo di violenza, con migliaia di morti palestinesi e israeliani. Gli attacchi a Gaza, che vengono lanciati ogni pochi anni, contribuiscono a distruggere le infrastrutture civili e a compromettere ulteriormente la qualità della vita nella Striscia, che è già uno degli spazi più densamente popolati e poveri del mondo.

La posizione degli Stati Uniti nei confronti di Israele è stata costante per molti decenni. Gli Stati Uniti sono il più grande alleato di Israele e forniscono a Tel Aviv un sostegno politico, economico e militare senza pari. Questo sostegno è stato centrale nella capacità di Israele di continuare la sua politica di occupazione e di espansione, nonostante le critiche internazionali e le risoluzioni delle Nazioni Unite. Le amministrazioni americane, da quella di Clinton a quella di Trump e ora a quella di Biden, pur avendo formulato vari piani di pace, non sono riuscite a fare pressioni concrete su Israele per fermare la costruzione delle colonie o per fermare le violazioni dei diritti umani.

La posizione di sostegno incondizionato degli Stati Uniti ha avuto un impatto devastante sul processo di pace. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump ha rappresentato un momento di rottura con la politica internazionale tradizionale, che vedeva Gerusalemme come una città condivisa o come una questione da risolvere attraverso il negoziato tra israeliani e palestinesi. L’amministrazione Biden, pur cercando di riprendere il dialogo con i palestinesi, si è trovata di fronte alla realtà di un conflitto sempre più radicato, con una leadership palestinese divisa e un Israele che continua a non cedere sulle questioni fondamentali come lo status di Gerusalemme e il ritorno dei rifugiati palestinesi.

Il potere di veto esercitato dagli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ulteriormente impedito che venissero adottate risoluzioni che potessero mettere in discussione le politiche israeliane, isolando di fatto la causa palestinese sulla scena internazionale.

Nel corso degli ultimi decenni, la politica dei paesi arabi nei confronti della Palestina è cambiata radicalmente. In passato, la causa palestinese era al centro dell’agenda politica araba, ma l'incremento delle rivalità tra gli stati arabi e l'emergere di nuove alleanze regionali hanno messo in secondo piano la questione palestinese. La crescente minaccia percepita dall'Iran e la necessità di sviluppare relazioni con potenze come Israele per motivi di sicurezza hanno portato alcuni stati arabi a normalizzare i legami con Tel Aviv.

Nel 2020, ad esempio, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno firmato gli Accordi di Abramo, stabilendo relazioni diplomatiche formali con Israele. Questa normalizzazione, pur portando vantaggi economici e politici agli stati arabi, ha sollevato forti critiche da parte di altri paesi arabi e dalla popolazione palestinese, che vedono queste mosse come una traiettoria di abbandono della causa palestinese. L'Arabia Saudita, pur non avendo formalizzato un accordo con Israele, ha fatto passi importanti verso la cooperazione con il paese, soprattutto in materia di sicurezza e economia.

Molti palestinesi e sostenitori della causa palestinese vedono questi sviluppi come un tradimento. Tuttavia, le relazioni tra Israele e i paesi arabi non sono un monolite. Paesi come l'Egitto e la Giordania, pur avendo firmato accordi di pace con Israele negli anni '70 e '90, continuano a rimanere sospettosi nei confronti di un'ulteriore espansione della normalizzazione. Queste tensioni interne riflettono un divario tra i governi arabi, che cercano alleanze strategiche per rafforzare la loro posizione geopolitica, e la popolazione araba, che rimane in larga parte solidale con la causa palestinese.

L'Iran, nonostante non sia direttamente coinvolto nei negoziati sul conflitto israelo-palestinese, gioca un ruolo cruciale nel sostegno a gruppi palestinesi come Hamas e la Jihad Islamica. La sua alleanza con questi gruppi è stata una componente fondamentale della politica di resistenza che Teheran promuove contro Israele. L'Iran, che vede Israele come una minaccia alla sua visione del Medio Oriente, considera la causa palestinese una questione centrale nella sua strategia per contrastare l'influenza occidentale nella regione e promuovere un'ideologia di "resistenza" che si oppone a quello che definisce il "progetto sionista".

Tuttavia, l’influenza iraniana ha avuto un effetto divisivo anche tra i palestinesi. Hamas, che riceve supporto da Teheran, è in conflitto con l'Autorità Palestinese (AP), che ha sede in Cisgiordania e ha tentato di intraprendere un percorso di negoziato con Israele. La divisione tra Hamas e l'AP ha indebolito la posizione palestinese sulla scena internazionale, e la manipolazione politica di potenze straniere, come l'Iran, ha contribuito a mantenere una frattura interna.

Le Nazioni Unite hanno sempre rappresentato una piattaforma per il dibattito internazionale sulla Palestina, ma non sono riuscite ad avere un impatto significativo. La potenza del veto esercitata dagli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza ha impedito che qualsiasi azione internazionale significativa venisse intrapresa contro l'occupazione israeliana. Sebbene l'ONU abbia adottato numerose risoluzioni che condannano l'occupazione e chiedono una soluzione basata sulla creazione di due stati, le risoluzioni non sono state attuate, e il Consiglio di Sicurezza non è riuscito a intervenire efficacemente.

L'Unione Europea ha preso una posizione più critica nei confronti delle politiche israeliane, ma la sua incapacità di formulare una risposta coerente e unitaria ha minato i suoi sforzi di mediazione. La divisione tra i paesi membri, alcuni dei quali sono più inclini a sostenere Israele (come la Germania), ha reso difficile l’assunzione di una posizione forte e unitaria, necessaria per influenzare Israele.

La questione palestinese, con le sue radici storiche, sociali e politiche, non può essere risolta senza una volontà di compromesso da entrambe le parti, ma soprattutto da parte degli attori internazionali che devono impegnarsi in modo serio e disinteressato per una soluzione duratura. Sebbene la comunità internazionale e i principali attori esterni abbiano tentato numerosi approcci, la continua sofferenza dei palestinesi e la persistente espansione delle colonie israeliane sembrano segnare una via senza via d'uscita. L'opzione di una soluzione a due stati rimane, ma la realtà della divisione interna palestinese e la crescente difficoltà di dialogo con Israele pongono seri ostacoli. In definitiva, la strada verso una pace giusta e duratura sembra essere ancora lontana, intrappolata in una rete di interessi politici, ideologici e geopolitici che non fanno che perpetuare la sofferenza di un intero popolo.

Poesie francesi di Rilke nella traduzione di Roberto Carifi

Le Poesie francesi di Rainer Maria Rilke costituiscono uno degli apici più sublimi della sua lunga e complessa produzione poetica. Scritte tra il 1922 e il 1926, in un periodo di grande isolamento e riflessione del poeta a Muzot, in Svizzera, queste poesie segnarono una tappa cruciale nella sua evoluzione artistica e linguistica. Rilke, che aveva già consolidato la sua carriera come poeta in tedesco, si avventurò nella scrittura in una lingua che non era la sua madrelingua, il francese, non tanto per una necessità linguistica, quanto per un impulso più profondo e esistenziale. La sua scelta di scrivere in francese fu una reazione al limite che percepiva nella lingua tedesca, che riteneva ormai troppo carica di tradizioni e di rigidità culturale. Il francese, per Rilke, si presentava come una lingua più aperta, in grado di offrirgli maggiore libertà espressiva, ma anche come una forma di linguaggio che gli permettesse di sintonizzarsi con il mondo e di esplorare una realtà più autentica e immediata.

In effetti, la scrittura di Rilke in francese non rappresentò un tentativo di abbandonare la sua tradizione poetica tedesca, ma piuttosto una ricerca di una nuova voce, di una lingua più pura e diretta, in grado di riflettere meglio il suo vissuto interiore. Il francese, che Rilke conosceva bene, non era per lui una lingua estranea, ma una via per esprimere pensieri e emozioni che nella lingua madre gli parevano ormai troppo vincolati dalla struttura e dal formalismo. Queste poesie, pur essendo scritte in una lingua che non era la sua nativa, conservano però tutta la profondità della sua filosofia poetica, che abbraccia la riflessione sul destino umano, sulla morte, sull'amore, sulla solitudine, sulla ricerca della bellezza e dell'infinito. La lingua francese, con la sua musicalità e il suo flusso fluido, permise a Rilke di esprimere un'intensità emotiva che si traduce in una serie di immagini poetiche straordinarie, che si caricano di un significato profondo e complesso.

Le "Poesie francesi" sono quindi una tappa fondamentale non solo nella biografia di Rilke, ma anche nella storia della poesia mondiale. Non sono un semplice esperimento linguistico, ma una riflessione profonda e meditativa sulla condizione umana, sulla tensione tra finitezza e infinito, tra mortalità e speranza di trascendenza. La lingua francese, pur con tutta la sua bellezza, non può proteggere il poeta dall’ineluttabilità della morte, ma permette a Rilke di esplorare quella parte dell'esistenza che si affaccia sul mistero, sull'imponderabile. Le "Poesie francesi" di Rilke sono un viaggio nel profondo dell’anima umana, un tentativo di raggiungere, attraverso il linguaggio, ciò che è nascosto, misterioso e sfuggente. Ogni poesia di questa raccolta è una riflessione sulla condizione dell'uomo, sul suo posto nell'universo, sul suo rapporto con la morte, con la natura e con l'arte, ed è al contempo un'espressione di quella solitudine che Rilke riteneva inevitabile, ma che non è mai priva di una bellezza segreta e misteriosa.

La traduzione delle "Poesie francesi" di Roberto Carifi rappresenta una delle versioni più significative di quest’opera in lingua italiana. Carifi, poeta e traduttore di grande esperienza, ha affrontato l'arduo compito di rendere in italiano l'intensità, la musicalità e la profondità filosofica delle poesie di Rilke. Il suo lavoro di traduzione non si limita a una mera trasposizione linguistica, ma è un atto di reinterpretazione e di ricreazione dell’opera. La traduzione di Carifi è caratterizzata da una particolare attenzione al ritmo dei versi, che riflette la musicalità intrinseca del testo originale. Le poesie di Rilke in francese, infatti, sono scritte con una certa sonorità e fluidità, che Carifi è riuscito a rendere senza perdere la dimensione riflessiva ed emotiva del testo.

Una delle caratteristiche più interessanti della traduzione di Carifi è la sua capacità di mantenere intatta l'intensità emotiva dei versi rilkiani. Nonostante le difficoltà che derivano dalla distanza tra le lingue, Carifi riesce a trasporre la densità filosofica delle poesie senza sacrificare la loro componente sensoriale e spirituale. Il poeta italiano ha trovato le parole giuste per tradurre la tensione tra il finito e l'infinito, la bellezza e la sofferenza, che sono i temi portanti di Rilke. La traduzione di Carifi, infatti, non è mai un lavoro superficiale, ma un gesto profondo che mira a restituire l'essenza dell’opera, cercando di rendere l’esperienza del lettore italiano il più simile possibile a quella del lettore francese o tedesco.

Carifi non si è limitato a rendere le parole di Rilke, ma ha cercato di penetrare nel cuore della poesia, cogliendo il respiro del testo originale e riproducendolo in italiano con la stessa ricchezza di sfumature. Il suo lavoro di traduzione è un esempio di quanto una buona traduzione non sia solo un processo linguistico, ma un atto di comprensione e di reinterpretazione del significato profondo di un’opera. La sua traduzione delle "Poesie francesi" si caratterizza per una sintassi raffinata e per una scelta di vocaboli che restituiscono in modo fedele la bellezza della lingua di Rilke, ma allo stesso tempo le adattano alla sensibilità e alla tradizione della lingua italiana.

Le "Poesie francesi" sono divise in sezioni che affrontano tematiche che vanno dall’amore alla morte, dalla solitudine alla bellezza della natura. Ogni sezione è un mondo a sé, ma tutte le poesie sono legate da una stessa tensione interiore, un’inquietudine esistenziale che permea ogni verso. Questi temi non sono trattati in modo astratto, ma sono avvertiti dal poeta in un modo tangibile, come qualcosa che lo tocca in profondità, e la sua ricerca di risposte si traduce in una poesia che non cerca certezze, ma che esplora continuamente, senza mai giungere a una conclusione definitiva.

1. Rose: La rosa è un simbolo potente e ricorrente in tutta la letteratura e in molte tradizioni culturali, ma in Rilke essa acquisisce una dimensione particolare. La rosa, nella sua bellezza fragile e perfetta, diventa un emblema della vita stessa, che è al tempo stesso splendida e destinata a sfiorire. La riflessione sulla bellezza, sulla sua transitorietà e sulla sua capacità di connettersi all'infinito, è uno dei temi cardine di queste poesie. La rosa, simbolo della bellezza assoluta, resiste alla morte, ma è anche l’espressione della fragilità umana. La sua bellezza non è mai definitiva, ma è sempre minacciata dal tempo che passa, ed è proprio questa consapevolezza che rende la bellezza stessa più preziosa.


2. Finestre: Le finestre sono metafora della separazione tra l’individuo e il mondo. Esse rappresentano una barriera, un confine tra l'interiorità dell'essere umano e il mondo esterno. Nonostante la bellezza che si può scorgere attraverso la finestra, l’essere umano resta sempre separato, in un rapporto di distanza e di solitudine. La finestra diventa così simbolo della condizione esistenziale dell’uomo, che guarda il mondo, ma non riesce mai a farne parte pienamente. La solitudine è uno dei temi ricorrenti in questa sezione, e viene trattata non come una condanna, ma come una condizione inevitabile che spinge l'individuo alla ricerca di un significato profondo.


3. Le quartine vallesane: In questa sezione, Rilke descrive i paesaggi naturali che lo circondano, ma lo fa con uno sguardo che va oltre la semplice osservazione esterna. La natura diventa il luogo ideale per riflettere sulla condizione dell’uomo, sulle sue emozioni, sul suo destino. La valle svizzera, in cui Rilke si rifugiava, diventa un simbolo della ricerca interiore, un luogo in cui il poeta può confrontarsi con le sue angosce e le sue inquietudini. La natura, con la sua bellezza selvaggia e incontaminata, offre un rifugio e al contempo pone l'uomo di fronte alla propria solitudine e finitezza.


4. Verzieri: Gli ornamenti e i "verzieri" in questa sezione sono simboli della ricerca dell’armonia e della perfezione, ma anche della consapevolezza che tale perfezione è inarrivabile. L’ornamento rappresenta il desiderio umano di creare qualcosa di bello e duraturo, ma Rilke ci ricorda che la bellezza stessa è destinata a svanire. La tensione tra l'aspirazione all'armonia e l'impossibilità di raggiungerla è un tema ricorrente in queste poesie. Rilke sembra suggerire che l'essenza della bellezza non risiede nella sua durata, ma nella sua capacità di suscitare un'intensa esperienza estetica, anche se momentanea. L'ornamento, quindi, non è solo un elemento decorativo, ma un simbolo di quell'infinito desiderio umano di trascendere la finitezza dell'esistenza, di cercare una perfezione che, purtroppo, è destinata a sfuggire.

5. La morte e l'immortalità: La riflessione sulla morte è un altro grande tema che attraversa le poesie francesi di Rilke. La morte non è mai trattata in modo banale o come una semplice fine, ma come una presenza costante, una realtà inevitabile che definisce la vita stessa. La morte, però, non è per Rilke qualcosa di negativo, ma una parte integrante dell’esistenza. Essa non annulla la bellezza della vita, ma le conferisce una profondità particolare. In molte delle sue poesie, la morte è presentata come una soglia, un passaggio da una condizione a un’altra, ma anche come una possibilità di trascendere la propria individualità, di raggiungere qualcosa di più grande e universale. La morte è una forma di liberazione, un ritorno all'infinito.


6. L'amore e la solitudine: L'amore, nelle "Poesie francesi", è trattato in modo complesso e sfaccettato. Non è mai visto come un sentimento idealizzato o romantico, ma come una forza potente che può essere sia costruttiva che distruttiva. Rilke esplora l’amore come una forma di intimità che porta a un incontro profondo tra due esseri, ma che non può mai colmare completamente la solitudine umana. L'amore, pur essendo una delle esperienze più elevate e straordinarie che un individuo possa vivere, non può liberare dalla solitudine esistenziale. In effetti, è proprio nella solitudine che l’amore trova la sua pienezza, come una tensione tra l’essere e l’altro, che rimane sempre in parte irrisolta.


7. Il silenzio e il vuoto: Un altro aspetto centrale delle "Poesie francesi" è il tema del silenzio. Rilke non vede il silenzio come una negazione, ma come una forma di espressione autentica. Il silenzio è il luogo in cui la parola può finalmente nascere, dove l'anima può ascoltare la propria voce interiore e quella dell'universo. È un silenzio che non implica l'assenza, ma che piuttosto apre uno spazio per l’ascolto profondo. Il vuoto, inteso come assenza di significato tangibile, si trasforma così in un veicolo di significato profondo, dove le emozioni e i pensieri più autentici possono emergere.


Le Poesie francesi di Rilke sono un'opera che trascende la barriera della lingua e del tempo. Sebbene siano scritte in una lingua che non è la sua madrelingua, Rilke riesce a mantenere intatta la sua visione poetica, che affronta temi universali come l'amore, la morte, la solitudine e la bellezza. La scelta del francese come mezzo di espressione è un atto artistico profondo, che non solo rispecchia il bisogno del poeta di superare i limiti imposti dalla sua lingua natale, ma anche una testimonianza della sua ricerca di un linguaggio universale, capace di parlare alla dimensione più intima e universale dell'esperienza umana.

La traduzione di Roberto Carifi aggiunge un ulteriore livello di profondità all'opera, rendendo la sua complessità e la sua bellezza accessibile ai lettori italiani senza tradire il senso profondo e la musicalità del testo originale. Carifi non si limita a trasferire parole da una lingua all’altra, ma interpreta il pensiero di Rilke con un approccio rispettoso e appassionato, cercando di restituire la ricchezza delle sfumature emotive e filosofiche di ogni poesia.

In definitiva, le "Poesie francesi" non sono solo un'opera che esplora le inquietudini e le aspirazioni del poeta, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana. La bellezza e la solitudine, la morte e l'immortalità, l’amore e il vuoto: tutti questi temi sono affrontati con una delicatezza e una profondità che rendono quest'opera un capolavoro assoluto, capace di toccare i lettori di ogni epoca e cultura. La sua lettura è un viaggio emozionante e intellettualmente stimolante che invita a riflettere sulla propria esistenza e sul significato profondo della vita.




venerdì 28 marzo 2025

Allora il salotto

1.

Allora il salotto, da questo momento,
su mio consiglio, si dilata e spinge
le mura ad avanzare lentamente,
a farsi aria, respiro, vasto abbraccio,
un cuore che si tende e si ritrae,
come se il sangue vi pulsasse dentro,
come se un vento arcano lo animasse
e un'eco senza voce lo invocasse,
vibrazione segreta, tremito d’ombra
che scorre tra i contorni della luce,
un brivido che sfiora la materia
e ne distorce il saldo equilibrio,
dissolvendo il confine tra i corpi,
tra il visibile e l’assente, tra il solido
e il sogno che lo avvolge e lo divora.

2.

L’aria si muove come un’onda lenta,
un palpito che vibra tra le cose,
sfiorando con il passo dell’incerto
i bordi incerti della percezione.
La luce si contorce in filamenti,
le ombre si allungano sui muri,
sussurrano tra loro, si dissolvono,
ritornano, si piegano e si spezzano
come il riflesso d’un pensiero oscuro
sulle vetrate d’un tempio in rovina.

3.

Per un istante trema nell'attesa,
col fiato greve d'un pensiero oscuro,
e cerca fuori il volto della notte,
i segni di un passaggio, le ombre stanche
di corpi trasognati alla deriva,
ombre che sfiorano i muri e si frangono
come schiuma sottile sulla pietra,
orme leggere d’anime svanite
che la polvere inghiotte e poi disperde.
La strada, sotto il peso della luna,
pare inghiottire l'ombra della porta,
mentre le imposte cedono all'assalto
di un’aria febbrile, quasi ansimante.
Sussurra il vento un verso sconosciuto,
un nome sprofondato nella polvere,
un riso sepolto dal tempo e dall’ombra,
una memoria in preda al suo naufragio.
Là fuori il mondo esiste e si contorce,
tra le finestre mute e i passi lenti,
tra i lampioni sfiniti e il loro lume,
che tremola e si spegne nella nebbia.

4.

Le pareti si ergono tremanti
contro il rosso più rosso, il viola acceso,
contro l’azzurro, il più feroce abisso,
dove la luce in preda a un cieco ardore
torce se stessa e intaglia la materia,
incide il buio come un segno d’ombra
che il tempo sfoglia e il vento poi disperde.
Il giallo brucia e il nero si contorce,
s’apre un varco violento nel colore,
un vortice segreto, un occhio cieco
che guarda senza sguardo, senza tregua,
un urlo soffocato tra le fiamme
di un quadro mai dipinto, mai veduto.
I colori si sfidano e si mescolano,
affilano i contorni, li cancellano,
scavano nel profondo delle cose
cercando un nuovo nome, una certezza.
Ma il nome si dissolve prima ancora
che possa essere detto, prima ancora
che possa essere inciso nella luce.

5.

"Quasi l'avesse realmente avuta,
la lettera fatale, il sigillo arcano,
un verbo che sussurra e si dissolve
come l'ultimo fiato del morente,
come una colpa sussurrata invano,
come il profumo acre d’una rosa
che, sfiorita, si offre alla sua tomba."
Forse fu scritta con un inchiostro spento,
forse le righe apparse sulla carta
erano solo il sogno di una voce,
la traccia di un pensiero inabissato
nel fondo della mente, là dove il buio
conserva ciò che il giorno ha cancellato.
Forse non fu mai scritta, né inviata,
eppure il suo silenzio ancora pesa,
un'assenza che riempie più del suono,
un vuoto che si espande come un'ombra.

6.

Non resta immota, dopo il suo tremore,
la farina cattiva e la sua polvere,
né resta tela, dopo il suo bagliore,
la luce che si spande e si dissolve,
ché tutto vibra, oscilla, si contorce,
si sfrangia come un velo in fiamme pure,
e il mondo intero, in un istante solo,
pare svanire e ancora riaffiorare.
Là dove il buio intesse la sua trama,
un ultimo sussulto arde nel nulla,
là dove il giorno è un’eco della notte,
un nome muto scivola nel vento,
si disperde nel buio, si confonde
tra le rovine della luce antica.
E nel silenzio resta solo un battito,
un eco indistinto, un ultimo respiro.

7.

Il pavimento trema e sprofonda,
come se un mare cupo si agitasse
dietro la sua superficie di legno.
I mobili si spostano, sussultano,
come corpi inerti nella corrente
di un fiume nero che li trascina.
Gli angoli si piegano, si deformano,
gli specchi non riflettono più nulla,
o forse mostrano un volto diverso,
un’ombra che sorride nella nebbia.
La polvere si solleva lenta
e danza tra i raggi sbiaditi,
come un esercito d’insetti dorati
che sussurra una lingua dimenticata.

8.

Forse è la casa a respirare,
forse è il tempo stesso che si torce,
scivolando nelle crepe dei muri,
strisciando tra le fessure del buio.
Ogni cosa perde il suo contorno,
si allunga, si sfuma, si trasforma.
Il soffitto si dissolve in un cielo
che non è più quello della notte,
ma un abisso dove le stelle
sono lacrime sospese nel nulla.
E il silenzio si spezza in un sussurro,
una voce che nessuno pronuncia,
ma che riempie ogni spazio, ogni angolo,
e porta con sé il peso di un’assenza
che il tempo non può più cancellare.

La poltrona di Paul Gauguin: simbolo di solitudine e distacco nell'arte di Van Gogh

Nel novembre del 1888, Vincent van Gogh dipinse La poltrona di Paul Gauguin, un'opera che, insieme alla sua controparte La sedia di Van Gogh, si è guadagnata un posto di rilievo nella storia dell'arte non tanto per la sua qualità tecnica, quanto per il suo significato simbolico e personale. Questi dipinti non sono semplicemente ritratti di oggetti di uso quotidiano, ma diventano veri e propri specchi di un legame tormentato tra due dei più grandi pittori dell'epoca. Nella Poltrona di Paul Gauguin, Van Gogh non si limita a rappresentare una sedia; dipinge un simbolo della distanza che cresceva tra di loro, una rappresentazione dell'artista lontano, intellettuale e solitario, in contrasto con la sua stessa personalità, più impulsiva, passionale e immediata. In questo dipinto, la sedia diventa il silenzioso testimone di un rapporto che si stava ormai sgretolando, anticipando l’abbandono e la separazione che segneranno la fine del loro sodalizio artistico e umano.

La Casa Gialla: il sogno di una comunità artistica

Nel settembre del 1888, Vincent van Gogh lasciò Parigi, un periodo che aveva trascorso in compagnia del fratello Theo e sotto l’influenza dei colori vivaci e dei moderni sviluppi artistici della capitale francese, per trasferirsi ad Arles, nel sud della Francia. Qui affittò una piccola casa gialla con l’intenzione di creare un rifugio per artisti, un luogo di sperimentazione dove potessero vivere e lavorare insieme, lontani dalle pressioni e dalle convenzioni del mondo esterno. La Casa Gialla, come la chiamava Vincent, avrebbe dovuto essere il cuore di una comunità che si ispirava a ideali utopistici. Van Gogh, che da tempo sognava di formare una "scuola del sud", sperava che la sua nuova casa diventasse un punto di riferimento per altri artisti che avessero potuto contribuire alla sua visione creativa. A questa visione si univa la speranza di instaurare una collaborazione con un pittore che ammirava profondamente: Paul Gauguin.

Nel 1887, Van Gogh e Gauguin si erano conosciuti a Parigi, dove avevano cominciato a scriversi e a confrontarsi sulle loro concezioni artistiche. Sebbene fossero diversi per temperamento e approccio, Van Gogh vedeva in Gauguin un maestro e un compagno ideale per il progetto della Casa Gialla. Nonostante le differenze, era determinato a portare Gauguin nella sua nuova dimora. Il pittore francese, inizialmente restio, infine accettò l’invito e arrivò ad Arles il 23 ottobre 1888, con la promessa di collaborare artisticamente e contribuire alla realizzazione di quella comunità che Van Gogh immaginava. Ma una volta insieme, la realtà del loro incontro si rivelò ben diversa dalle aspettative.

Gauguin era un uomo di grande carisma, ma con una personalità forte e talvolta arrogante, che si adattava difficilmente alla natura sensibile e fragile di Van Gogh. Mentre Van Gogh cercava una connessione profonda e un sostegno reciproco, Gauguin rimaneva emotivamente distante, abituato a lavorare in solitudine e in maniera più intellettuale. La loro convivenza, che avrebbe dovuto essere un laboratorio di idee, si trasformò ben presto in un terreno fertile per conflitti creativi e personali. Le discussioni sull'arte divennero sempre più frequenti, mentre le crisi emotive di Van Gogh, accentuate dalla sua instabilità psichica, alimentavano la tensione. Il divario tra le due personalità divenne sempre più difficile da colmare, e il sogno di una comunità artistica si sgretolò lentamente, segnato dalla frustrazione e dall’incompatibilità di fondo.

Le sedie come riflessi simbolici delle loro personalità

Fu proprio in questo clima di crescente conflitto che Van Gogh decise di dipingere due sedie, una per sé e una per Gauguin, oggetti che, sebbene comuni e semplici, divennero veicoli per esprimere le rispettive identità e le differenze nei loro approcci alla vita e all'arte. Questi dipinti non sono solo un’esercitazione di stile, ma una meditazione sui caratteri dei due artisti e sul loro rapporto. Nel caso della Poltrona di Paul Gauguin, Van Gogh dipinge una sedia grande, massiccia, scura, quasi imponente, con una presenza che non può passare inosservata. La poltrona appare in una scena dominata da toni di rosso e verde scuro, illuminata debolmente dalla luce fioca di una candela. L'atmosfera che ne emerge è di solitudine e riflessione, ma anche di un distacco che sembra quasi fisico, come se la poltrona, così massiccia, non fosse semplicemente il luogo dove una persona si siede, ma anche un simbolo della distanza tra gli individui. I libri posati sulla seduta accrescono l'idea di un intellettuale che vive nel mondo delle idee, lontano dalla realtà immediata della vita quotidiana. Questo è il mondo di Gauguin: un mondo di pensiero, di analisi, che si distingue dalla passionalità e dalla spontaneità di Van Gogh. La sedia non è solo un oggetto d'arredo, ma il simbolo di un carattere forte, ma anche di una certa freddezza, un individuo separato, per quanto brillante, dal mondo che lo circonda.

La Sedia di Van Gogh, al contrario, è rappresentata con colori luminosi e caldi, come il giallo che spesso caratterizza le sue opere. La sedia è modesta, semplice, priva di orpelli. Non ci sono libri o oggetti intellettuali sulla seduta, ma un fascio di tabacco, simbolo di una vita più semplice, più connessa alla terra, alla quotidianità. La luce che illumina la sedia è quella del giorno, senza ombre né misteri, e l’oggetto è presentato senza la distanza emotiva che caratterizza la poltrona di Gauguin. La sedia di Van Gogh esprime un legame più diretto con il mondo, con la realtà fisica e immediata, e sembra un invito ad abbracciare l’esistenza con passione e senza mediazioni intellettuali.

Questi due dipinti sono specchi delle personalità dei due pittori: Gauguin, il pensatore, il solitario intellettuale, e Van Gogh, l'artista sensibile, impulsivo, visceralmente legato alla vita. Le due sedie, quindi, non sono solo oggetti di arredamento, ma riflessi delle loro anime, dei loro mondi separati che non si incontrano mai completamente. La Poltrona di Paul Gauguin appare come un luogo inaccessibile, simbolo della distanza emotiva che cresceva tra i due, mentre la Sedia di Van Gogh diventa il punto d'incontro tra l'artista e la sua visione del mondo, fatta di emozioni, colori e sensazioni.

La frattura e la solitudine di Van Gogh

Questi dipinti si caricano di significato quando consideriamo l’esito finale del loro incontro. La convivenza tra i due artisti si deteriorò rapidamente, fino a culminare in un episodio drammatico: il 23 dicembre 1888, dopo un'accesa discussione, Van Gogh, in preda a una crisi psicotica, si tagliò una parte dell’orecchio con un rasoio e lo portò a una donna di nome Rachel, in un gesto che divenne simbolico della sua sofferenza mentale e della solitudine che provava. Gauguin, sconvolto, decise di lasciare Arles subito dopo, ponendo fine alla loro collaborazione e amicizia. Van Gogh, nel frattempo, non riuscì a trovare altro conforto che nella sua arte, ma la solitudine e il tormento psichico che lo affliggevano diventarono ancora più profondi. La Poltrona di Paul Gauguin, con la sua presenza maestosa e vuota, non è solo il simbolo di un distacco emotivo, ma anche una premonizione della separazione che stava per accadere. L’assenza di Gauguin in quella poltrona diventa il segno visibile di una frattura che si consumava lentamente, ma che non poteva essere evitata.

Un dipinto sull’assenza e sulla sofferenza

La Poltrona di Paul Gauguin non è solo un dipinto che ritrae un oggetto di arredamento, ma un'opera d'arte che esplora il concetto di assenza e di solitudine. Il colore, la luce, la composizione sono tutti elementi che contribuiscono a raccontare la sofferenza di Van Gogh, il suo tormento interiore e la sua angoscia esistenziale. La poltrona di Gauguin diventa così una metafora della distanza che cresceva tra i due, ma anche del vuoto che Van Gogh avrebbe vissuto, sia emotivamente che fisicamente, dopo l’abbandono di Gauguin. Mentre la poltrona rimane immobile, presente, ma senza un occupante, Van Gogh continua a lottare con la sua solitudine, cercando rifugio nell’arte, ma senza riuscire mai a colmare il vuoto che avvertiva dentro di sé. La poltrona, pur immobile e silenziosa, racconta una storia di frustrazione e di disperazione, un'assenza che non si può ignorare. Questo oggetto, seppur semplice e quotidiano, assume un peso emotivo notevole, diventando testimone della fine di un sogno e della dissoluzione di un legame artistico e umano che avrebbe potuto essere la chiave per il rinnovamento creativo di Van Gogh.

L'interpretazione della Poltrona di Paul Gauguin si carica ulteriormente di significato se si considera che, nei mesi successivi all'abbandono di Gauguin, Van Gogh iniziò a sentire sempre di più il peso della solitudine, che non avrebbe mai più potuto sfuggire. La sua permanenza ad Arles, nonostante l'esplosione creativa che lo aveva caratterizzato durante i mesi di convivenza con Gauguin, si concluse con il suo internamento in ospedale psichiatrico nel maggio del 1889, un segno evidente del suo stato mentale fragile e del suo progressivo distacco dalla realtà.

Nel contesto di questa spirale discendente, la poltrona dipinta da Van Gogh non è più solo un simbolo di distacco tra due artisti, ma anche un emblema della sua incapacità di trovare una connessione con il mondo che lo circondava. Quella sedia, per quanto immobile, diventa la manifestazione visiva di una realtà dolorosa che si riflette nei suoi dipinti più tardi, come nelle sue Vite notturne e Campo di grano con corvi, opere cariche di tensione, ansia e un senso crescente di morte imminente.

L'arte di Van Gogh, nei suoi ultimi anni, si trasforma in un diario visivo della sua battaglia contro la solitudine, la malattia mentale e la disperazione. La Poltrona di Paul Gauguin può essere letta come una metafora di questa lotta: un oggetto che, pur rimanendo statico e inerme, racconta una storia complessa di tensione emotiva, separazione e perdita, diventando una delle tante immagini di sofferenza e riflessione che attraversano la produzione finale di Van Gogh.

In definitiva, questo dipinto, come molti altri realizzati dal pittore olandese durante il suo soggiorno ad Arles, ci offre uno spunto profondo per riflettere sull’arte come espressione del tormento personale, ma anche come testimonianza di un’intensa ricerca interiore. La Poltrona di Paul Gauguin, pur essendo apparentemente un dipinto semplice, carica di simbolismo e significato il concetto di solitudine e l’impossibilità di colmare i vuoti emotivi attraverso la creazione artistica, facendo della sua sedia un potentissimo emblema della sofferenza e del distacco che lo caratterizzarono nei suoi ultimi anni.

Entrando, assorto

1.

Entrando, assorto, in uno di quei luoghi,
dove l’ombra si sposa al suo languore,
egli si reca, passo dopo passo,
come un viandante smarrito nel nulla,
col cuore avvolto in un sudario d’ombra,
tra le pieghe d’un mondo ormai in frantumi,
tra mura mute, voci di lamento,
che sfiorano i suoi sensi come spettri
di antichi amori mai più risvegliati,
di desideri che il tempo ha inghiottito,
di promesse mai mantenute, mai vissute.
Ogni angolo è un abisso che inghiotte la luce,
ogni ombra è un abbraccio che stritola il cuore,
ogni passo che compie è una condanna,
ogni respiro un soffio di morte che attende.
Eppure, in quell’inferno di silenzi e polvere,
egli avanza, come un poeta dannato,
consapevole che ogni suo movimento
lo avvicina a una verità sconosciuta,
che non può né vedere né udire,
ma solo sentire nel fondo più oscuro del suo essere.

2.

Si staglia, incerto, sposa il suo destino,
come un naufrago senza più rive,
in bilico fra il sogno e la disfatta,
senza più faro a illuminare la rotta,
senza una stella che guida il cammino,
un anelito perduto in un cielo scuro,
senza direzione, senza meta certa,
un cuore che pulsa nel buio della notte,
un pensiero che si perde nel vento,
un desiderio che scivola nell’oscurità.
Ogni passo che fa è un’eco nel nulla,
una promessa infranta che risuona
tra le ossa di chi non è mai più tornato,
tra le lacrime di chi ha smesso di piangere,
un corpo che cammina, ma che è già morto,
un’anima che vaga senza nome né volto.
Il suo destino è come una fiamma che arde,
senza consumarsi mai, senza mai brillare,
un fuoco che brucia nella profondità,
senza speranza di raggiungere la luce.

3.

Un fiore nero stringe nella mano,
uno stelo avvizzito, eco di speranza,
un simbolo di morte che si svela
in un gesto lento e consumato dal tempo,
e sulle labbra un canto soffocato,
che s’innalza, si frange e si dissolve,
come un sospiro nel respiro d’altri,
un eco lontano che muore nel vento,
un dolore che non trova riposo,
un grido muto che non può essere sentito.
Ogni parola è un veleno che scorre,
ogni silenzio è una lama che taglia,
ogni ricordo un tormento che s’insinua
nel cuore già logorato dal rimorso,
nel cuore che non sa più cos’è l’amore,
nel cuore che è diventato pietra e polvere.
Ogni respiro è un atto di sofferenza,
ogni passo è un passo verso l’abisso,
un cammino senza fine, senza speranza,
dove il ritorno è una parola sconosciuta.

4.

Medicamenti al segno già inciso,
un marchio che segna la carne e l’anima,
al solco che gli brucia sulla pelle,
la cicatrice di un amore tradito,
o di una verità che mai si svela,
marchio profondo come un sogno spento,
cifra segreta della sua rovina,
un’ombra che lo segue, che lo avvolge,
che lo stringe come un abbraccio amaro,
un destino che non si scosta da lui,
come una melodia che suona in eterno,
un destino che lo spinge oltre la morte,
oltre la follia, oltre l’inferno stesso.

5.

Sprofondato nel padre che lo attende,
che è già cenere prima d’esser voce,
che è già silenzio prima d’esser sguardo,
un volto sbiadito tra le nebbie del ricordo,
come un fantasma che non ha più storia,
come un nome dimenticato dal tempo,
un essere svanito tra le pieghe della morte,
un respiro che non può più essere ascoltato,
un’ombra che non lascia traccia sulla terra.
Il padre è un abisso che lo inghiotte,
è il vuoto stesso che lo consuma,
è la morte che lo accoglie senza pietà,
è il nulla che non lascia speranza.
Ogni passo verso di lui è un passo nel buio,
ogni respiro che prende è un atto di morte,
ogni parola che scivola dalle labbra
è un veleno che consuma la sua anima,
è un bacio che lo lega alla sofferenza eterna.

6.

Due squilli esitano nell’aria torva,
come due grida dentro un pozzo vuoto,
eco di una tragedia che non ha fine,
come l’ultimo fremito del giorno,
prima che il buio tutto avvolga e inghiotta,
prima che il cielo si faccia d’oscurità,
prima che l’ora perda il suo significato,
prima che la luce diventi solo ombra,
prima che il mondo perda il suo equilibrio.
Ogni squillo è un rintocco della morte,
ogni squillo è il segno di una fine
che non può essere evitata,
che non può essere fermata,
come una marea che travolge ogni speranza.

7.

Sotto l’aspetto effimero del vero,
fra veli d’ombra e specchi di menzogna,
l’apparenza che si dissolve e si sfuma,
la sua visita incombe come un’ombra,
come il presentimento della fine,
una presenza che non trova respiro,
che non sa più di che carne è fatta,
che non conosce il confine tra il cielo e la terra,
che vaga, smarrita, nell’infinito silenzio,
che non trova più traccia del mondo,
che non ha più forma, né pensiero, né nome.

8.

Il suo progetto, un’invisibile ora,
un pensiero che non può essere detto,
un sogno che si spegne prima di nascere,
un rito muto dentro il tempo fermo,
la ragione smarrita proprio a lui,
come una fiamma accesa nella nebbia,
che trema, brucia e poi svanisce lenta,
come la luce di un giorno che sfuma,
come la memoria che lentamente svanisce,
come il passo che si perde nell’abisso,
come un respiro che non arriva mai,
come il ricordo che diventa polvere.
Ogni gesto che compie è l’ultimo,
ogni passo che fa è un passo verso il nulla,
ogni parola che pronuncia è un lamento
che si perde nell’oscurità.
Ogni suo movimento è la danza della morte,
ogni sua esistenza è un atto di disperazione,
un atto che non chiede redenzione,
che non spera in una salvezza,
un atto che scivola nell’oblio,
che affonda nel cuore più nero della notte.

Se andare

Se andare è il barcollo improvviso
dell’uccello colpito, il suo tremore,
se il passo nostro indugia sulla soglia
del vento che ci spinge e poi ci nega,
se nello sguardo un lampo si trattiene
prima che il buio torni a scompigliarlo,

a che vale fermarsi, se il partire
già ci disperde come neve sciolta?
Eppure stiamo, e un attimo raccoglie
il grido, il volo, il frutto sulla bocca,
mai dalla parte che ci fu promessa,
ma dove il caso ci lasciò naufraghi.

E le strade si aprono come costole
di un gigante caduto dal cielo,
e gli orologi si rovesciano, liquidi,
sciogliendo il tempo in rivoli di cera
che colano lungo le mura azzurre
di palazzi che dormono, respirano.

La notte si stacca come una pellicola
e dietro il suo velo si spalanca un vuoto
dove nuotano pesci dagli occhi umani,
dove le nuvole hanno mani d’inchiostro
e scrivono alfabeti sconosciuti
sulle schiene curve dei passanti.

Oh città rovesciata, oh sogno immobile,
dove le statue sussurrano tra loro,
dove i lampioni si piegano a baciare
il volto pallido della strada,
e i ponti si sciolgono in fiumi di vetro
che scivolano lenti sotto la pelle.

Di queste piacenze, della vertigine
che danza tra il respiro e la caduta,
noi leggiamo le selvatiche Leggi
scolpite sulla pelle della luce,
sul viso che risplende e già si spegne,
mentre un uccello con ali di fumo
si posa sulla spalla di un’ombra
e le sussurra il segreto del vento.

Il tempo si curva come un gomitolo
tra le dita di un vecchio senza volto
che cuce il giorno con aghi di pioggia
e lo srotola lento tra le grondaie
dove le stelle, come chiodi arrugginiti,
si conficcano nei tetti sbrecciati.

E noi passiamo, i piedi sospesi
sopra un abisso fatto di specchi
che riflettono volti che non conosciamo,
ma che ci fissano, ci chiamano,
con bocche spalancate senza suono.

E allora che ci resta? Forse un brivido
che sa di nebbia e vento sulle labbra,
forse il gusto amaro di una mela
morsa nel sogno di un altro.
Forse il battito di ciglia di un muro
che ci osserva e ride nel buio,
o il passo di un uomo fatto d’aria
che cammina all’indietro nel tempo.

Forse il desiderio ci spinge ancora,
come un cavallo dalle zampe di nebbia
che corre su un mare di scale mobili,
forse un sussurro ci chiama dal fondo
di un cassetto mai aperto,
dove dorme un orologio senza lancette
e un guanto che stringe la mano di nessuno.

E mentre camminiamo, le porte si aprono
su stanze che non hanno pareti,
su giardini capovolti dove gli alberi
affondano le radici nel cielo
e le stelle pendono come frutti
che nessuno osa cogliere.

E nel morire lento della sera,
quando i lampioni si accendono da soli
come occhi spaventati nell’ombra,
qualcosa si solleva nel vento,
una voce fatta di piume e sabbia,
un nome che si sbriciola tra le dita.

Forse risponde il mare, nel suo eterno
alternarsi di spuma e di risacca,
forse risponde il vento nei cortili
dove i gatti parlano tra di loro
con le voci dimenticate dai poeti.

Forse risponde un battito nel buio,
una porta che si chiude senza mani,
un quadro che cambia mentre lo guardi,
una scala che sale e non finisce,
un volto che si forma nella nebbia
e scompare prima di dire il tuo nome.

E noi restiamo, fragili e costanti,
come un’ombra dipinta sulla sabbia,
come un riflesso intrappolato nell’acqua,
come il sogno di un albero che non esiste
ma che proietta la sua ombra sul muro.

Eppure andiamo ancora, senza requie,
come marionette senza fili,
come lettere scritte su un vetro appannato,
come foglie che danzano sopra il nulla,
come viaggiatori di un treno fantasma
che attraversa la notte senza mai fermarsi.