sabato 26 luglio 2025

Anime in transito. Metempsicosi e metamorfosi del soggetto

In principio, c'è un malinteso. Un gioco linguistico, uno slittamento semantico, una parola intraducibile che inciampa tra le labbra di Molly Bloom. È l'alba della modernità letteraria, e nella camera da letto di un'ordinaria coppia di Dublino si consuma un incontro comico e vertiginoso con l'ignoto: "Metempsicosi", dice Leopold Bloom, scandendo la parola come se fosse una formula magica, un enigma antico sospeso tra superstizione e filosofia. Non sa davvero cosa significhi, eppure la pronuncia. Così come Joyce la scrive, e la lascia vibrare, mentre Nietzsche, altrove, ne trasforma il senso in un'alchimia spirituale.

La metempsicosi, nella sua accezione più tradizionale, è la trasmigrazione delle anime. Ma questo significato lineare non basta a contenere le forze che lo attraversano. Nel tempo si scompone, si deforma, si reincarna. È un mito, un'idea, un miraggio che prende mille volti: reincarnazione per i pitagorici, resurrezione nel platonismo cristianizzato, dissoluzione e rinascita nella modernità letteraria.

Per Joyce, metempsicosi è una parola goffa, comicamente fuori posto tra le lenzuola di casa Bloom. Ma è anche un indizio. Come se la coscienza, scivolando da un personaggio all'altro, da un pensiero all'altro, non fosse altro che una forma di reincarnazione narrativa. Ogni flusso di coscienza è una migrazione, ogni pensiero una metamorfosi.

Nietzsche, invece, prende la parola e la reinventa. La libera dalla sua origine metafisica e la fa esplodere in una parabola del divenire. In Così parlò Zarathustra, la metempsicosi è la mutazione dello spirito: non più passaggio da un corpo all'altro, ma trasfigurazione interna. Il cammello, il leone, il bambino: tre stadi, tre visioni, tre aperture verso la libertà.


[1. Joyce e la metempsicosi come flusso narrativo]

Nel mondo joyciano, la parola è sempre doppia: dice e disdice, mostra e occulta. "Metempsicosi" diventa un oggetto narrativo, un fossile linguistico che Bloom cerca goffamente di decifrare, e Molly ascolta con perplessa ironia. L'intera scena, tra i più celebri episodi comici dell'Ulisse, non è solo uno scambio domestico: è una riflessione semiotica in forma di teatro da camera.

Bloom non capisce il significato della parola, e ciò nonostante prova a spiegarlo. Il suo tentativo è emblematico del gesto joyciano: la parola, anche se non è posseduta, può essere giocata, manipolata, desiderata. La metempsicosi è, per Bloom, un oggetto opaco, ma proprio per questo potente. Ciò che non si comprende appieno può produrre effetti reali. È un concetto che, pur nel suo non-sapere, genera mondi.

Questa è la vera reincarnazione in Joyce: il pensiero che si fa carne del testo. Le anime non trasmigrano da un corpo all'altro, ma da una mente all'altra, da una frase all'altra. Il flusso di coscienza è reincarnazione perpetua: un'idea che nasce nella testa di Stephen Dedalus, passa nella voce narrante, si deposita in una digressione, poi riaffiora nei pensieri di Bloom. Non c'è centro, non c'è gerarchia: c'è movimento.

Ecco allora che la metempsicosi è anche lo stile stesso dell'Ulisse: una forma narrativa che muta pelle di continuo, passando dal racconto lineare al dialogo interiore, dalla parodia alla solennità mitica, dal realismo grottesco al flusso epifanico. Joyce non descrive la metempsicosi: la pratica. La realizza a livello linguistico, sintattico, ontologico. Il suo romanzo è metempsicotico perché è fatto di trapassi, transiti, reincarnazioni stilistiche.

In questa luce, anche la scelta di ambientare l'intera vicenda in una sola giornata diventa paradossale: il tempo si contrae mentre la forma si espande, l'io si smembra in cento voci e tutte queste voci sono, in fondo, il gesto di un'unica anima che muta.

[2. Nietzsche: metamorfosi e trasvalutazione]

Nietzsche, dal canto suo, non crede in un'anima immortale. Eppure riprende la parola "metempsicosi" per rovesciarne il senso. La sua versione è secolarizzata, vitalistica, drammatica: non più trasmigrazione dopo la morte, ma metamorfosi nel vivo dell'esistenza. Il cammino dello spirito non è lineare, ma ciclico, articolato, denso di pericoli e di rivelazioni.

Il cammello rappresenta l'uomo morale, gravato dal peso della cultura, della religione, delle aspettative sociali. La sua forza è servile: sopporta, si piega, resiste. Ma non crea. La sua libertà è passiva: fa bene ciò che gli è stato chiesto. Vive nel dovere, e chiama questo dovere "scelta".

Il leone, al contrario, è l'animale della ribellione. Ruggisce contro il drago che dice "Tu devi". Spezza le catene, dice no. Ma ancora non è libero. La sua è una libertà negativa, definita per opposizione. La sua forza è reattiva.

Solo il bambino, nella sua innocenza radicale, può ricominciare. È il vero spirito libero: non perché non conosce il male, ma perché ha attraversato la negazione e ora gioca. Il gioco è creazione pura. È dire sì al mondo, senza più nostalgia per il passato, senza più paura del futuro.

In questa sequenza, Nietzsche non propone una scala morale, ma un ritmo ontologico. Si tratta di morire a ciò che si è stati per diventare ciò che non si è ancora. La metempsicosi diventa dunque pedagogia esistenziale: un processo di trasvalutazione dei valori, una pratica della rinascita.

[3. Derrida: l’anima come differenza]

Quando Jacques Derrida pronuncia il nome “metempsicosi”, non lo fa per evocarne la sostanza, ma per mostrarne la fessura. Ciò che chiamiamo anima non è mai stabile, mai identica a sé. Non c’è trasmigrazione da un punto A a un punto B, ma un incessante slittamento: un’anima che, per esserci, deve sempre differirsi da se stessa, deve sempre essere “altrove”.

La différance derridiana è precisamente questo: l’assenza di un punto di partenza stabile, la messa in crisi della presenza. Se la metempsicosi era la sopravvivenza dell’anima in un altro corpo, ora essa è sopravvivenza come tale: sur-vie, un vivere-oltre che è già nella scrittura, nella traccia, nel non-presentarsi dell’origine.

In questa prospettiva, ogni anima che migra è già sfasata, già scissa. Ciò che trasmigra non è l’io, ma il suo simulacro, il suo doppio, la sua ombra scritturale. Non vi è mai “identità” che passi da un corpo all’altro: solo una catena di differenze. In questo senso, Derrida fa della metempsicosi non un evento metafisico, ma una struttura dell’esperienza: noi viviamo sempre nel corpo dell’altro, dentro un linguaggio che ci precede e ci eccede.

Il soggetto non è che una fiction che si reinscrive, si ripete, si deforma. Il mito dell’anima che sopravvive trova la sua verità in questo svanire continuo. Non reincarnazione, dunque, ma iterazione. Non continuità, ma ritardo.

[4. Deleuze: divenire e metempsicosi come fuga]

In Deleuze, la metempsicosi non è né sostanza né mito, ma funzione del divenire. Niente anime, niente corpi fissi: solo flussi. Il soggetto è un campo di forze che mutano, che si smontano. Ogni identità è temporanea. Ogni corpo è macchina desiderante. Nessun io si trasmigra, perché nessun io esiste. Esistono invece divenire-donna, divenire-animale, divenire-impercettibile.

La metempsicosi in Deleuze non è il passaggio da un corpo all’altro, ma l’attraversamento delle forme: il corpo che muta le sue connessioni, che si deterritorializza, che fugge. Non si tratta di conservare qualcosa da reincarnare, ma di perdersi, di decostruirsi, di creare nuove costellazioni.

Nel suo sodalizio con Guattari, Deleuze descrive soggettività multiple, composte, nomadi. La reincarnazione si trasforma in ligne de fuite: una via di fuga dai dispositivi che normalizzano. Divenire è sempre metempsicosi in senso radicale: non si rinasce come se stessi, ma si attraversa l’impossibile. Si diventa altro.

[5. Bataille: l’anima che si spezza]

Georges Bataille, invece, porta il concetto nel territorio del sacro. La metempsicosi, nella sua visione, non è la salvezza dell’anima ma la sua lacerazione. L’essere è esperienza dell’eccesso, della dismisura, dell’impossibile. La vera rinascita è nella perdita.

L’anima non trasmigra, si dissolve. Ogni atto sacro è un atto di distruzione: erotismo, riso, sacrificio, scrittura. La metempsicosi è l’abbandono dell’identità, lo scandalo della soglia. Non si passa da un corpo all’altro, ma da un ordine all’altro. Dal profano al sacro, dalla misura alla vertigine. L’anima non “si salva”, si consuma, si spezza, si espone.

Per Bataille, dunque, l’esperienza interiore è una discesa nell’assenza. Ogni io che si crede eterno è già morto. L’unico modo di rinascere è perdersi. L’unico modo di vivere è attraversare la morte.

[6. Agamben: soglia, potenza e disattivazione]

Giorgio Agamben affronta il tema della metempsicosi a partire dal concetto di soglia: il luogo in cui la vita si fa forma, e la forma si svuota. La sua riflessione sulla potenza come apertura radicale — la potenza-di-non — permette di leggere la metempsicosi non tanto come passaggio da una vita a un’altra, ma come messa in questione dell’attualità stessa dell’essere.

Nel pensiero agambeniano, l’anima non si reincarna, ma viene disattivata: non si compie, non si identifica. La vera trasmigrazione è nell’abbandono del dispositivo, nella sospensione della funzione. Così come la liturgia può essere svuotata del suo fine cultuale, così anche la soggettività può liberarsi dai ruoli che la incarnano.

La metempsicosi è quindi il gesto che espone il corpo alla sua possibilità senza necessità: l’anima, in questo senso, è ciò che resta quando ogni identità è sospesa. Un soggetto che passa, ma non per reincarnarsi: passa per mostrare il suo passaggio, renderlo inoperoso, pensarlo come pura soglia.

[7. Cixous: l’anima è scrittura, la scrittura è corpo]

Per Hélène Cixous, la metempsicosi è esperienza del desiderio femminile. Non esiste anima separata dal corpo, ma scrittura che incarna. La écriture féminine è già reincarnazione: è passaggio da un corpo all’altro, è migrazione del senso, è corpo che scrive, scrittura che geme, che ride, che si fa carne.

Scrivere è trasmigrare. Ogni parola viene da un altrove, da un ventre, da un sogno. Per questo l’anima non è un’essenza: è un esercizio. Le donne, escluse dal Logos, dalla trasmissione del nome e della legge, hanno sempre praticato la metempsicosi silenziosa, la reincarnazione attraverso i segni, i miti, i racconti.

Cixous restituisce all’anima la sua corporeità erotica, la sua molteplicità. La vera reincarnazione è il piacere: essere mille, essere molte, essere mutanti. Ogni donna che scrive partorisce un mondo, e in quel mondo l’anima non si salva — gode.

[8. Blanchot: l’opera e la voce dell’invisibile]

Maurice Blanchot non dice mai “anima”, ma ne parla costantemente. L’anima è ciò che manca. Ciò che l’opera cerca di inseguire senza mai afferrare. L’opera d’arte è sempre postuma, come l’anima che giunge troppo tardi per salvarsi.

La metempsicosi in Blanchot non è passaggio, ma attesa. Non è sopravvivenza, ma sopportazione dell’invisibile. Il soggetto non reincarna, ma scompare nel linguaggio. La letteratura è il luogo di questa scomparsa: non rappresenta l’anima, la lascia parlare nel vuoto.

Come nei racconti di Kafka, ogni io è già morto. E tuttavia continua a parlare. Questo è il vero scandalo: la voce dell’anima non è la salvezza, ma la testimonianza della sua assenza. Non rinasce: resta. Come resto, come traccia, come impossibile da vivere.

[9. Kristeva: abiezione, maternità e soggettivazione metempsicotica]

Julia Kristeva affronta la questione della soggettività nei termini del rapporto con l’abiezione, il corpo materno e il semiotico. In questo quadro, la metempsicosi non è passaggio metafisico, ma lacerazione del simbolico: ogni soggetto è il risultato di una perdita. Per diventare io, bisogna aver abbandonato la madre. L’anima, se c’è, è quel residuo.

La trasmigrazione è l’effetto del linguaggio che si innesta sul corpo: una scissione, un’esclusione, ma anche un rimosso che ritorna. La metempsicosi, allora, è pulsione che si fa parola, trauma che si ripete. Scrivere è un modo per reincarnare ciò che è stato espulso: dare forma all’informe, dire il non-detto.

Il soggetto è sempre in transito. La soggettività non è mai piena, ma sempre mancante. In questo senso, ogni soggetto è un’anima in trasmigrazione: non tra corpi, ma tra linguaggi, tra simboli, tra sintomi.

[10. Nancy: l’anima condivisa]

Jean-Luc Nancy rompe con l’idea cristiana e cartesiana dell’anima come sostanza individuale. Per lui, l’anima è apertura, esposizione. Non è ciò che abita un corpo, ma ciò che lo mette in relazione. Non si migra da un corpo all’altro: si è sempre già in una condizione di essere-con.

La metempsicosi, in questo quadro, non è un evento che accade a un soggetto: è il soggetto stesso come evento. L’io è metempsicotico perché è sempre diviso, pluralizzato, reso vulnerabile. L’anima è ciò che non si possiede, ma che si dona.

Per Nancy, allora, la vera metempsicosi è l’amicizia, la prossimità, la comunità senza fondamento. Ciò che trasmigra non è l’identità, ma l’esperienza della co-esistenza. Un soggetto è reincarnazione continua, perché è sempre-altro-da-sé.

[11. Mbembe: la diaspora come metempsicosi storica]

Achille Mbembe rilegge la storia del colonialismo, della schiavitù e del razzismo globale come storia di metempsicosi forzate. La tratta atlantica è il momento in cui milioni di corpi neri sono stati separati dalla loro terra, dai loro nomi, dalle loro anime.

Ma è anche il momento in cui questi stessi corpi hanno cominciato a reincarnarsi in altri linguaggi, altre culture, altre forme di vita. La diaspora è una metempsicosi politica: un’anima collettiva che non si lascia ridurre alla morte, ma sopravvive, si reinventa, resiste.

Per Mbembe, l’anima nera è un archivio di reincarnazioni: nei tamburi della capoeira, nei gospel, nei romanzi afrofuturisti, nei corpi queer neri che sfidano le norme del potere. Ogni reincarnazione è lotta. Ogni trasmigrazione è memoria attiva.

[12. Conclusione comparativa: reincarnazioni del concetto, genealogie della soggettività]

Metempsicosi: una parola sola, mille transiti. Dal mito greco alla parodia joyciana, dal divenire nietzschiano al differire derridiano, ogni autore ha preso in carico l’enigma dell’anima in viaggio. Ma ciò che davvero accomuna questi approcci non è un comune oggetto, bensì una comune operazione: la decostruzione dell’identità, la messa in crisi dell’unità del soggetto, la sua riapertura al molteplice.

Joyce trasforma la metempsicosi in forma narrativa, facendo dell’anima un dispositivo stilistico. Nietzsche la reinterpreta come pedagogia del divenire, attraversamento esistenziale. Derrida la mostra come differenza, slittamento che disfa la presenza. Deleuze la fa esplodere come linea di fuga, divenire senza io. Bataille la spezza nell’eccesso, nell’abiezione, nella sovranità del sacro.

Agamben ne fa soglia e inoperosità. Cixous la reinventa come erotica della scrittura. Blanchot la consegna alla voce dell’invisibile. Kristeva la incarna nella lacerazione simbolica del linguaggio materno. Nancy la riconosce nell’apertura intersoggettiva. Mbembe la storicizza nella diaspora postcoloniale.

Non c’è dunque una metempsicosi, ma molte. E ciascuna ci parla del nostro tempo: un’epoca in cui le identità si moltiplicano, si frantumano, si mescolano. Un’epoca che ha perso la fede in un’anima eterna, ma non ha smesso di cercare forme di sopravvivenza, di trasmissione, di trasformazione.

[13. Sintesi critica: verso una politica delle anime migranti]

La metempsicosi, come concetto, ha subito una trasmigrazione semantica. Da credenza religiosa a figura filosofica, da escatologia a poetica del sé, da mito ontologico a strumento di analisi culturale. In questo transito, ha perso la sua funzione rassicurante, e ha acquisito una potenza critica: mettere in discussione il soggetto, i suoi limiti, le sue metamorfosi.

Oggi, parlare di metempsicosi significa interrogare il modo in cui viviamo la trasformazione. In un mondo segnato da crisi ecologiche, dislocamenti di massa, transizioni di genere, mutazioni tecnologiche, l’anima non è più un’essenza ma una soglia, una frontiera, una possibilità.

Questa metamorfosi chiama in causa anche l’etica e la politica. Come ci relazioniamo agli altri se siamo sempre-altro-da-noi? Come pensiamo il diritto, la responsabilità, la memoria, se l’identità è un processo e non un dato? La metempsicosi diventa allora non solo un concetto filosofico, ma un gesto: un atto di ospitalità, di ascolto, di reincarnazione dell’altro dentro di noi.

Una politica delle anime migranti non presuppone la fissità di un'origine, ma l’apertura radicale all’esperienza dell’altro. È in questa apertura — tra il riso di Molly Bloom, la vertigine di Nietzsche, la molteplicità di Deleuze, la diaspora secondo Mbembe — che forse possiamo ancora oggi sentire, anche solo per un istante, la voce dell’anima che trasmigra: non per salvare sé stessa, ma per reinventare il mondo.


Surrealismo e Fantastico: The Infinite Madness of Dreams, Centro Culturale Bafile – Caorle (VE) Fino al 31 agosto 2025


La mostra Surrealismo e Fantastico: The Infinite Madness of Dreams si inserisce nel più ampio progetto culturale del Comune di Caorle per trasformare la località veneta in un polo d’arte contemporanea e storica, capace di dialogare con il turismo e le nuove generazioni. Curata da Matteo Vanzan, la rassegna porta in scena oltre 60 opere tra pittura, grafica, scultura, incisione, installazioni e manifesti, creando un percorso visivo che parte dalle radici storiche del Surrealismo per approdare alle sue evoluzioni e contaminazioni contemporanee.

L’allestimento, concepito come esperienza immersiva, distribuisce le opere in nuclei tematici che rifuggono la semplice cronologia e preferiscono una logica evocativa e onirica.

Il titolo stesso – la follia infinita dei sogni – mette in chiaro l’intento: non illustrare il Surrealismo, ma attraversarlo come spazio di esperienza. L’aggettivo “infinito” rimanda non solo all’estensione del sogno, ma alla sua capacità di metamorfosi, di perpetua generazione di senso, mentre “madness” (follia) è ciò che sfida la ratio, e dunque legittima l’arte a penetrare nell’invisibile.

L’esposizione si apre con un richiamo alle radici concettuali del movimento: la psicoanalisi di Freud, il Manifesto del Surrealismo di André Breton (1924), la scrittura automatica. Le prime sale sono una sorta di anticamera teorica dove il visitatore prende coscienza del fatto che il Surrealismo non è uno stile, ma un atteggiamento mentale. Si pongono le basi per ciò che verrà dopo: l’abbandono del controllo razionale e l’apertura al flusso psichico.

i maestri storici

In questa sezione trionfano i grandi nomi:

  • Salvador Dalí: presente con incisioni e manifesti storici, tra cui materiali originali delle mostre di Tokyo (1964), New York (1965) e Ginevra (1970). Le sue opere esposte rivelano l’ossessione per il doppio, per l’eros e per il tempo che si deforma.
  • Max Ernst: maestro del collage e del frottage, presenta lavori dove il caso diventa struttura creativa.
  • Joan Miró: linee infantili, simboli arcaici, movimento coreografico del segno.
  • Giorgio de Chirico: con opere degli anni ’70, mostra come la Metafisica italiana abbia anticipato e influenzato profondamente la sensibilità surrealista.
  • André Masson, Wilfredo Lam, Roberto Matta, Leonor Fini, Maurice Henry completano questo pantheon di autori che hanno contribuito a costruire un immaginario collettivo non razionale.

Una delle intuizioni più forti della mostra è che il Surrealismo non è solo un movimento visivo: è un metodo di conoscenza. Il visitatore, tra una sala e l’altra, attraversa paesaggi mentali, creature ibride, ambienti impossibili. L’arte non rappresenta: evoca. Non descrive: trasforma.

Molte opere mettono al centro l’infanzia come luogo mentale. In Dalí, ma anche in Miró e in Topor, la dimensione infantile è una grammatica istintiva, un universo prima del linguaggio, dove la magia è ancora possibile. Lo stupore, il perturbante, il grottesco sono elementi ricorrenti. È il “meraviglioso”, caro ai surrealisti, che torna sotto forma di rito e risveglio.

Tra le figure più forti dell’esposizione spicca Leonor Fini, artista visionaria capace di trasformare il corpo femminile in soggetto sacro e simbolico. Le sue figure ibride, androgine, sono epifanie erotiche e spirituali, corpi-dèi che sfidano ogni dicotomia. Fini si fa portavoce di un Surrealismo al femminile, che rifiuta di essere musa e si fa oracolo.

Una sezione importante è riservata agli artisti italiani contemporanei, come Giacomo Barboni, Gianni Mantovani, Naby ed Elena Prosdocimo. Le loro opere proseguono la ricerca surrealista in chiave attuale, contaminandola con media digitali, installazioni luminose, scultura e segno gestuale. Il sogno diventa tecnologia emotiva, il fantastico si fonde con l’interattività e l’immaginario post-umano.

A differenza del Surrealismo storico, il “fantastico” qui si declina in senso più ampio: come dimensione alternativa dell’esperienza, come ipotesi poetica. Non è solo “irreale”, ma è irregolare: uno sguardo che disfa le regole. Lo si ritrova in arte, ma anche in musica, letteratura, cinema. La mostra lo mostra contaminato da fumetto, copertine di vinili (i Pink Floyd, King Crimson, Miles Davis), cinema espressionista e cyberpunk.

Una mostra come Surrealismo e Fantastico ha anche un valore profondamente educativo. In un contesto come quello caorlense, solitamente destinato alla fruizione balneare e turistica, l’arte viene introdotta come spazio di dislocazione della percezione. Qui il visitatore non impara date o stili, ma è spinto a sentire.

La proposta non mira a una cronologia didattica del Surrealismo, bensì a una esperienza pedagogica non lineare: ci si muove tra i segni come in un sogno, e si impara ad abbandonare le difese razionali. Il messaggio implicito è che anche il sogno è cultura, e che l’infanzia del pensiero va custodita come una forma di resistenza al conformismo.

Le opere esposte, soprattutto nella sezione contemporanea, ci portano a riconsiderare la nozione di “normalità” estetica. Il Surrealismo, in fondo, è una scrittura visiva della devianza.

Lo è quando Topor disegna corpi deformati da fantasie sessuali represse.
Lo è quando Leonor Fini esplora il confine tra maschile e femminile con iconografie ambigue.
Lo è, infine, quando Lam richiama gli spiriti dell’oceano attraverso tratti che sembrano provenire da un alfabeto alieno.

Caorle si fa così crocevia di un immaginario marginale e necessario, che diventa ancora più potente nella sua emersione dentro un contesto popolare e stagionale.

Un altro punto forte è la possibilità di interrogarsi sull’esistenza di un Surrealismo italiano, o almeno di una sua declinazione nostrana.

Nonostante l’Italia non abbia avuto un André Breton, ha espresso autori potentemente visionari: da De Chirico ad Alberto Savinio, da Scipione a Fabrizio Clerici, da Leonor Fini (argentina ma milanese d’adozione) a Cesare Zavattini.

Il “fantastico” italiano, spesso più narrativo che simbolico, dialoga con il Surrealismo francese in modo sotterraneo: non lo imita, ma lo attraversa. La mostra suggerisce questa direzione, senza tematizzarla esplicitamente.

La mostra è anche un atto di coraggio istituzionale. In una località turistica stagionale, proporre una rassegna così ambiziosa, con oltre 60 opere storiche e contemporanee, significa credere nella possibilità di una cultura che si intrecci al paesaggio.

La scelta di portare il Surrealismo a Caorle è simbolica: come se si volesse aprire un varco tra la vita ordinaria (le spiagge, il turismo, le fiere di paese) e la potenza del sogno.

Non è un’operazione nostalgica, né decorativa: è un richiamo.
Un richiamo al diritto di sognare, di essere devianti, di esplorare ciò che non si può dire in nessun altro linguaggio se non quello dell’arte.

Uscendo dalla mostra, si ha la sensazione di aver attraversato una soglia. Le immagini continuano a rimanere nella mente, come gli oggetti onirici che non riescono a dissolversi al risveglio. Questo è il più grande successo dell’esposizione: non si dimentica.

Resta la consapevolezza che il Surrealismo non è finito. Vive nelle immagini che non comprendiamo. Nelle frasi che ci restano in testa. Nei sogni in cui tornano visi che non abbiamo mai incontrato.

In questo senso, Surrealismo e Fantastico non è una mostra, ma un rito collettivo. Un modo per tornare al mistero. Per tornare a sé. Per tornare, finalmente, a sognare.


La vitalità della forma, la persistenza del mito: Arturo Martini alle Gallerie d’Italia di Vicenza


1. Introduzione

La mostra Vitalità del Tempo. Arturo Martini nelle collezioni d’arte di Intesa Sanpaolo, aperta al pubblico presso le Gallerie d’Italia di Vicenza fino al 16 novembre 2025, costituisce un’occasione di rilievo nel panorama espositivo italiano. Non si tratta unicamente di un omaggio a una delle personalità più emblematiche della scultura del XX secolo, ma di un progetto curatoriale che si distingue per la densità critica, la coerenza metodologica e l’accurata valorizzazione di un nucleo importante di opere, appartenenti alla collezione d’arte di Intesa Sanpaolo.

Attraverso un impianto espositivo raffinato, la mostra propone una lettura articolata dell’opera di Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947), ponendo l’accento su quella che si potrebbe definire una resistenza della scultura alle torsioni della modernità. Martini vi appare non tanto come un epigono dell’arcaismo o un nostalgico dell’organicità perduta, quanto piuttosto come un interprete profondamente consapevole della crisi della forma plastica e del suo disfacimento semantico all’interno dell’orizzonte culturale del Novecento.


2. La materia e il tempo: una costellazione simbolica

Il titolo della mostra – Vitalità del Tempo – suggerisce immediatamente una declinazione temporale della prassi plastica. La nozione di tempo, tuttavia, non è da intendersi nel suo significato lineare, cronologico, bensì nella sua accezione più stratificata e mitopoietica: un tempo che abita la materia, che la agita dall’interno, che la rende corpo di memoria e di futuro.

L'opera di Martini, in tal senso, si colloca al crocevia tra due polarità: da un lato la tensione verso l’archetipo, verso un’origine mitica e sedimentata nei linguaggi della civiltà mediterranea; dall’altro, la percezione ineluttabile della discontinuità storica, della frammentazione del senso, della disgregazione dell’ordine classico. La scultura, per Martini, non è mai uno strumento di affermazione identitaria o celebrativa, ma si configura come un campo di forze in cui convivono, in equilibrio instabile, forma e disfazione, classicismo e residuo, monumentalità e rovina.

Ne risultano corpi scolpiti che sembrano trattenere, nella loro epidermide materica, il tempo stesso del loro farsi e disfarsi. Emblematico è, in tal senso, l’uso differenziato della materia: dalla terracotta cruda al bronzo, dal gesso alla pietra tenera, ogni materiale porta in sé una specifica temporalità, una diversa qualità del gesto scultoreo.


3. Un modernismo laterale: l’antico come invenzione

Uno degli elementi di maggiore interesse emersi dal percorso espositivo è l’insistita rielaborazione del repertorio iconografico antico. Ma l’antico, in Martini, non è mai mera citazione né volontà di imitazione archeologica. È piuttosto ciò che resta, in forma di relitto o frammento, dopo la catastrofe della contemporaneità. L’arcaismo martiniano si manifesta allora come atto poetico di reinvenzione, come costruzione di una mitologia personale capace di confrontarsi con l’informe.

Nel dialogo con il Primitivismo novecentesco — e con autori a lui coevi come Lehmbruck, Maillol, Laurens — Martini rivendica un proprio percorso autonomo, nutrito di una tradizione plastica che ha i suoi riferimenti non solo nella scultura classica, ma anche nell’arte medievale, nel romanico padano, nel gotico transalpino, nella statuaria votiva. È in questa matrice eclettica che si radica la cifra stilistica di Martini, in cui la figurazione si carica di una tensione simbolica che eccede ogni naturalismo.

Tra le opere esposte, risalta in particolare Donna che nuota sott’acqua (1921), lavoro seminale in cui il movimento impossibile dell’acqua si trasforma in scultura, e l’atto del nuotare — che è passaggio, immersione, scomparsa — diventa figura mitica. La corporeità, in Martini, si fa sempre narrazione: ma una narrazione interrotta, balbettante, prelogica, che sfugge alla linearità del racconto per aprirsi all’enigma.


4. Intimità e monumentalità: un binomio dialettico

Altro nodo critico che la mostra affronta con efficacia è quello della scala. L’opera di Martini attraversa costantemente il confine tra intimità e monumentalità, tra misura domestica e ambizione pubblica. Tuttavia, anche nei lavori destinati a contesti celebrativi o civici, la monumentalità è disattivata dall’interno: non vi è mai in Martini un compiacimento retorico o una volontà di enunciazione assertiva. La forma, anche quando si erge imponente, conserva sempre un fondo di esitazione, di pudore, di malinconia.

In Vittoria del Piave (1926), per esempio, la figura femminile eroica non è stilizzata secondo i canoni accademici del monumento celebrativo, ma possiede una fisicità radicata, tellurica, quasi ancestrale. È una vittoria muta, che non proclama ma trattiene, che si offre come presenza enigmatica più che come allegoria.

E ancora, in Maternità (1929), la monumentalità si volge in intimità, in silenzio, in una forma plastica che accoglie il peso della generazione come gesto archetipico. Si potrebbe affermare che in Martini ogni soggetto plastico è, al contempo, icona e corpo, enigma e carne.


5. La scultura come lingua impossibile

Un passaggio obbligato nell’analisi del percorso artistico di Martini è il suo celebre pamphlet La scultura lingua morta (1945). A lungo interpretato come una dichiarazione di fallimento o di rifiuto della pratica scultorea, il testo si presenta oggi, alla luce di un rinnovato interesse critico, come una riflessione radicale sul limite del linguaggio plastico nella società moderna.

La scultura, afferma Martini, è incapace di raccontare il mondo contemporaneo, troppo frantumato e inafferrabile per poter essere tradotto in forma stabile. Ma è proprio in questo scarto tra esigenza narrativa e impotenza formale che si situa la sua ricerca più autentica. La mostra di Vicenza, in tal senso, restituisce un’immagine non pacificata dell’artista: un Martini che abita la crisi, che ne fa materia di lavoro, che riconosce nella scultura non una lingua morta, ma una lingua che muore, che si spezza, che lotta per sopravvivere.

L’atto scultoreo, allora, non è più un gesto prometeico di dominio sulla materia, ma un atto quasi rituale, carico di fallimento e di ostinazione. Una pratica che tenta, ancora e sempre, di dare figura a ciò che non ha figura.


6. Il ruolo della collezione: conservazione, visione, restituzione

Particolare merito dell’iniziativa va riconosciuto alla struttura delle Gallerie d’Italia, e in particolare all’impegno culturale di Intesa Sanpaolo nel custodire e valorizzare il proprio patrimonio artistico. La collezione di opere di Arturo Martini, raramente esposta nella sua interezza, viene ora restituita alla visione pubblica con un apparato scientifico che ne garantisce la leggibilità e la contestualizzazione storica.

Il catalogo della mostra — ricco di contributi critici, apparati filologici, immagini d’archivio — si configura come uno strumento indispensabile non solo per il pubblico colto, ma anche per gli studiosi. In tal senso, Vitalità del Tempo rappresenta un esempio virtuoso di sinergia tra committenza, museologia e ricerca, capace di coniugare divulgazione e approfondimento.


7. Conclusione

La mostra di Vicenza riconsegna alla riflessione critica un artista complesso, la cui opera non può essere ridotta a facili classificazioni. Arturo Martini, figura irregolare e poetica, ha abitato il secolo con una radicalità silenziosa, interrogando senza tregua il senso della forma, la densità della materia, la possibilità stessa del fare scultura in un tempo che sembrava averla espulsa.

In un’epoca dominata dalla smaterializzazione delle immagini e dalla rapidità dei flussi visivi, la scultura di Martini si impone come atto di resistenza: un corpo nel tempo, un tempo nel corpo. Visitare Vitalità del Tempo significa misurarsi con un pensiero plastico che non vuole sedurre, ma inquietare; che non cerca la perfezione, ma l’imperfezione viva del mondo. E che, proprio per questo, continua a parlarci con voce antica e moderna insieme.

“A Kind of Language”: il disegno come origine invisibile e coraggiosa del sogno cinematografico

Mettere ordine nella mente significa spesso “fissare un’idea”. Questa espressione apparentemente semplice nasconde una potente metafora, che rimanda all’immagine di una farfalla trafitta da uno spillone: delicata, fragile, immobile ma perfettamente visibile nella sua complessità. È proprio questa l’essenza del disegno: arrestare l’evanescenza di un pensiero o di un’immagine che altrimenti rimarrebbe sfuggente, restituendola in un segno concreto, osservabile e condivisibile.

“A Kind of Language”, la mostra allestita all’Osservatorio di Fondazione Prada e visitabile dal 13 aprile all’8 settembre 2025, si propone di esplorare questa dimensione nascosta ma cruciale del processo creativo cinematografico. Attraverso un’attenta selezione di materiali originali — schizzi, storyboard, bozzetti e appunti — la mostra ci guida dentro l’intimità di quel momento delicato e carico di potenzialità che precede la realizzazione di un film: il gesto del disegno.

Prima che le immagini in movimento si animino sullo schermo e raccontino la storia, esiste sempre un atto di estrema fragilità e coraggio, quel primo tratto che prende forma su carta, quell’idea resa visibile per la prima volta. È il segno che fissa l’ispirazione, che dà forma a ciò che ancora non esiste, aprendo la strada al sogno cinematografico.

La mostra non si limita a esporre semplicemente disegni: offre un vero e proprio viaggio all’interno della genesi creativa di registi, scenografi, animatori e artisti che contribuiscono a costruire mondi immaginari e racconti visivi. Attraverso una raccolta di materiali che raramente si mostrano al pubblico, “A Kind of Language” rivela come il disegno non sia solo un mezzo tecnico, ma un linguaggio primario, universale e insostituibile. Un linguaggio che precede la parola, il movimento, il suono, e permette di pensare e comunicare idee che altrimenti resterebbero nebulose.

Ciò che rende particolarmente affascinante questa mostra è la riflessione su un aspetto spesso trascurato: non è necessario “saper disegnare” nel senso tradizionale o accademico. Quello che conta davvero è la volontà di affrontare il foglio bianco, di tracciare una linea che dia forma a un’idea, di tradurre in segno visibile un’immagine interiore. Questo atto di coraggio, di mettere in gioco il proprio pensiero attraverso il disegno, è ciò che dà inizio a ogni opera cinematografica.

Il percorso espositivo ci invita ad osservare il disegno non come semplice strumento di pianificazione o riproduzione, ma come vero e proprio atto di pensiero e invenzione. Attraverso schizzi, studi di personaggi, bozzetti di ambientazioni e annotazioni, si vede come i creativi sperimentino con forme, proporzioni, atmosfere e movimenti, esplorando le possibilità narrative e visive di ciò che stanno per raccontare. Il disegno diventa così dialogo tra mente e mano, primo abbozzo di una realtà che prenderà vita sullo schermo.

Questa dimensione fragile, intima e preziosa del processo artistico rimane spesso invisibile allo spettatore, abituato a fruire solo del prodotto finito: il film. “A Kind of Language” si fa allora custode di questa intimità creativa, mostrando il luogo dove il sogno cinematografico si materializza nella sua forma più elementare, fatta di incertezza, immaginazione, controllo e disciplina.

Oltre al valore specifico per il cinema, la mostra propone una riflessione più ampia sull’importanza del disegno come codice visivo e linguaggio universale, che attraversa tempi e discipline. Non riguarda solo la preproduzione di un film, ma anche l’animazione, la videoarte, il design, la performance e altre forme contemporanee d’arte. Disegnare è un atto umano fondamentale, una modalità di vedere, pensare e creare che resta attuale e potente.

L’esperienza di visita ci porta così a riscoprire la forza poetica e il valore fondamentale del disegno, invitandoci a guardarlo non solo come semplice strumento tecnico, ma come un modo di pensare e un codice primigenio capace di generare mondi e racconti, di fissare e dare forma al sogno.

Un’altra prospettiva interessante emerge osservando i materiali in mostra: si può notare come il disegno consenta di preservare la “memoria del gesto creativo”, la traccia visiva che testimonia il percorso di pensiero, le variazioni, gli errori e le correzioni. Ogni tratto sulla carta racconta una storia parallela a quella che sarà narrata dal film, rappresentando un archivio vivente dell’immaginazione e della ricerca formale.

La mostra, visitabile fino all’8 settembre 2025, si inserisce nel più ampio progetto della Fondazione Prada di indagare le radici e i meccanismi del processo artistico, offrendo al pubblico strumenti nuovi per comprendere e apprezzare la complessità dell’opera cinematografica.

In conclusione, “A Kind of Language” si presenta come un invito a osservare con occhi nuovi la genesi del cinema e, più in generale, del processo creativo artistico. Ricorda a tutti noi che dietro ogni grande film, ogni grande racconto visivo, c’è sempre un piccolo gesto fragile ma fondamentale: una linea tracciata con coraggio su un foglio bianco. Una linea che, come la farfalla trafitta dallo spillone, resta impressa nella memoria visiva e nell’immaginazione di chi guarda, svelando la potenza del disegno come origine invisibile e coraggiosa del sogno cinematografico.