domenica 11 giugno 2023

Diversità come Utopia


Fabio Galli 00

La mia frequentazione di Sandro Penna si riconosce spesso nei peggiori momenti di miei percorsi accidentati, con periodi di crisi del mio monopolio della parola scritta, ideologico o di relazioni con gli altri. E tali ricorsi si sono fatti più frequenti negli ultimi tempi..

Buon segno, pur se strano [come “una strana gioia di vivere” fosse] anch’esso. il mio, intendo. Non stupisca l’insistenza della mia rilettura poiché, in particolare per Sandro Penna, ogni operazione critica che pongo su di lui, per quanto modesta o totalmente inutile, provoca sempre, in me, come una sensazione di disagiata inadeguatezza al mondo.

Devo dire che il suo sentimento che Penna possedeva, quello più forte, quello più vero, quello per la vita, e non per l’immortalità, è ciò che mi viene in soccorso e questo avviene per ogni mio delusa od illusa decisione.

Anche aprirmi un nuovo, blog, un’altra sfida solitaria, è stata parte di questo mio continuo rimettermi in gioco.

Così come Penna non volle lasciare ai posteri lunghissimi carmi, la sua scrittura, ad ogni sua rilettura, diviene fatalmente il diario quasi monotematico per alcuni aspetti del mio miserrimo reale, replicare in infinite varianti, in una “coazione a ripetere”, una nenia che è fonte, essa stessa, di continuo e ribadito godimento, insopprimibile anche nel dolore. Nel più alto strazio di un lamentoso scrivere.

Penna suggerisce appena: subito dimentica e immediatamente confuta, in una sorta d’autoironia che pare poco erudita e che volutamente dissacra ogni possibile ascendenza culturale. Che c’é.

Primitivismo culturale, il confessato amore per Lautreamont e Rimbaud, vitalismo sensuale che passa anche attraverso Carducci e D’Annunzio e ha letto London, l’”Estetica” di Croce [di questo se ne pentì, oh se se ne pentì], Barres, Saint-Beuve, Leopardi, Gide, Mallarmè. I contatti con Saba [chiediamoci in che cosa e in quanto l’uno sia debitore all’altro; li accomuna senza dubbio la “dissociazione” dall’ermetismo].

Penna, con Pasolini, in una scuola romana, ne accenna il Mengaldo, un generico sfondo pascoliano-crepuscolare, con debiti verso Govoni e Palazzeschi. E, per certa epigrammatica essenzialità, e per la solarità estiva di alcuni quadri s’individua un’ascendenza pericolosamente dannunziana.

Dario Bellezza ha sempre sottolineato, invece, una consonanza con la pittura di Scipione. Mai capito dove ce lo vedesse, mentre me lo diceva.

Autore così nativo (naif, anche ma volutamente?) in Penna la “concentrazione del segno” è tale da far invidia a molti ermetici, restando testardamente nell’ambito della poesia di comunicazione. La sua vera grecità, è questo il suo fascino segreto: il breve segno significante; al di là di riferimenti a Saffo, Alceo, o forse a Mosco.

Penna è “classico” come lo sono le divinità del suo olimpo suburbano.

Un “tempo” che non è storico, ma biografico: mattini, notti, primavere ed estati. Le uniche storie accettate sono storie d’amore. Lontani da Kavafis ma vicini a una Bisanzio decadente. A volte i due poeti potrebbero essere confusi per certi scherzosi arcaismi verbali ma Penna è totalmente assente dalla storia.

In tutto questo ci sto dentro pur’io, se non vi schifa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(27 marzo 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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