E dunque allo scopo di razionalizzare la nostra devastazione esattamente con una falsa consapevolezza assuefatta, e di eliminare la nostra facoltà di vedere chiaramente quello che ci sta sotto il naso e di immaginare cosa ci sia un po’ più in là, abbiamo dovuto distruggere la nostra capacità mentale.
Amore e violenza, a rigore, dovrebbero ben essere polarità opposte.
L’amore lascia vivere il prossimo, ma con interesse ed attaccamento.
La violenza cerca di limitare l’altrui libertà, di costringere il prossimo ad agire come vogliamo noi, ma, per l’esattezza delle cose, con disinteresse ed indifferenza verso l’esistenza e il destino degli altri.
Con questa violenza mascherata da amore stiamo riuscendo a distruggerci.
Gli uomini non divengono ciò che la natura li ha destinati ad essere, ma ciò che la società fa di loro.
Pressioni, queste, intese precisamente a distruggere la maggior parte delle sue potenzialità, impresa che, nel complesso, è coronata da successo: all’epoca in cui il nuovo essere umano ha circa quindici anni, ci ritroviamo con un essere simile a noi, con una creatura semi-folle, più o meno integrata ad un mondo pazzo.
Questa è, ai nostri tempi, la norma.
Siamo distanti dalla spicciola psicologia d’accatto che cerca invece la normalizzazione dell’uomo a questo mondo.
I sentimenti generosi vengono, per così dire, rinsecchiti, cauterizzati, strappati, amputati per renderci adatti al nostro approccio col mondo, mai con nessun dio, soli.
Le nostre azioni corrispondono alla nostra esperienza del mondo: noi ci regoliamo alla luce di ciò che secondo noi una situazione comporta o non comporta; ossia, ciascuno si occupa più o meno di ontologia, ha delle opinioni personali su ciò che è e su ciò che non è.
Siamo un’intera generazione di esseri talmente estraniata dal mondo interiore che vi sono molti che sostengono che esso non esiste, e, anche se esiste, non vale la pena di occuparsene; che, anche se possiede un qualche significato, non è fatto di solido materiale scientifico e quindi occorre renderlo solido, misurarlo e calcolarlo; quantificare l’estasi e l’agonia del cuore in un mondo in cui, quand’anche il mondo interiore venga per la prima volta scoperto, noi non possiamo che sentirci defraudati e derelitti, giacché senza il mondo interiore l’esteriore perde ogni significato e senza l’esteriore l’interiore perde ogni realtà.
Quando accade che i nostri mondi personali siano riscoperti e che si permetta loro di ricomporsi, scopriamo sulle prime uno scempio.
Corpi morti a metà, genitali dissociati dal cuore, cuori scissi dalla testa, testa avulsa dai genitali.
Tutto questo quasi come in un perfetto loop.
Nessuna unità interiore, solo senso della continuità di una perduta comunità, quanto ne basta per affermare l’identità, questo moderno oggetto di idolatria.
Corpo, mente, spirito, strappati gli uni dagli altri dalle interne contraddizioni, scagliati in diverse direzioni.
L’uomo staccato dalla propria mente, ed egualmente tagliato fuori dal proprio corpo, creatura mezzo impazzita in un mondo folle.
Quando il terribile è già accaduto, non possiamo attenderci altro se non che l’oggetto del proprio io si faccia eco esterna delle distruzione già occorsa interiormente.
Queste affermazioni in certo senso sono vere? Descrivono la creatura spaventata, domata, abbietta che siamo ammoniti ad essere se vogliamo essere normali, offrendoci l’un l’altro reciproca protezione dalla nostra stessa violenza?
Ricorre, frequentemente, l’accenno alla sicurezza, alla stima degli altri.
Si suppone, quale ragione di vita, uno debba volere, se l’essere o il rappresentarsi.
“Ottenere il piacere della stima degli altri”, altrimenti è uno psicopatico (Theodore Lidz, The family and Human Adaptation, Londra 1964).
Siamo in un mondo in cui l’interiore è già scisso dall’esteriore.
Ci ritroviamo nella necessità di conoscere relazioni e comunicazioni, ma questi schemi di comunicazione, disturbati, riflettono il disordine dei nostri mondi personali di esperienza sulla cui repressione, negazione, scissione, introiezione, proiezione, dissacrazione e profanazione generale si fonda la nostra civiltà.
Siamo ridotti tutti quanti a figli di chissà quale profezia alla rovescia che hanno appreso a morire nello spirito ed a rinascere nella carne.
Vista in questi termini la nostra funzione pare essere quella di reprimere l’eros della propria creatività, di produrre una falsa sensazione di sicurezza, di negare la morte con l’evitare la vita, di togliere di mezzo la trascendenza, di far credere in dio evitando l’esperienza del vuoto, di creare, così, in breve, l’uomo ad una dimensione, di incoraggiare il rispetto, il conformismo, l’obbedienza, di metterci fuori combattimento, instillando la paura di fallire, stimolando il rispetto per il lavoro, in quanto fonte di reddito, provocando il rispetto della “rispettabilità”.
Conquistata secondo i criteri di cui sopra.
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