Ah, mio caro, unico lettore,, se mai vi è stato un uomo a cui l’universo ha concesso il dono di trasformare la propria anima in una meraviglia mostruosa, ebbene, quel giovane fu certamente Rimbaud. Egli, con una voluttà degna di un dio decaduto, si abbandonò all’arte del disordine — non un disordine volgare, badate bene, ma una squisita disgregazione di ogni senso e di ogni pensiero, come solo un autentico esteta potrebbe mai concepire.
Rimbaud, nella sua consapevolezza sfolgorante, intuì che per raggiungere il sublime, per scrutare l'ignoto, occorreva smarrirsi. Non vi è scienza nella moderazione; l’artista deve innanzitutto sconvolgere ogni fibra del proprio essere. Egli si immerse nei bagordi con la grazia di un principe in esilio, non per capriccio, ma per necessità. Oh, non aspettatevi che la gente comune comprenda una tale ambizione! A che pro spiegare l’immensità a chi è abituato a vivere nelle ristrettezze del pensiero?
Ah, la sofferenza! Che dolce maledizione. Per essere poeta, Rimbaud comprese che occorre essere maledetto, l’eletto tra i dannati. Non si nasce poeta, si diventa. E lo si diventa solo dopo aver camminato attraverso le fiamme dell’inferno interiore, solo dopo aver abbracciato l’orrore della conoscenza che annienta. "Io è un altro", ci dice, con l’ironia pungente di chi ha visto troppo. Noi non siamo altro che strumenti divini, e come il povero ottone che si desta tromba, non possiamo far altro che obbedire alla sinfonia cosmica che ci attraversa. Il pensiero non ci appartiene; ci attraversa, ci possiede, come un amante troppo ardente.
Ah, se solo quei vecchi imbecilli che si proclamano autori sapessero! L’uomo che crede di creare non è altro che un collezionista di ombre. Sono i folli, gli illuminati, coloro che hanno osato trasformare la propria anima in un orrore splendente, che toccano il vero. Sì, bisogna farsi veggente! Non basta coltivare il giardino dell’anima, bisogna devastarlo, piantarvi fiori velenosi e aspettare che sboccino in visioni.
Rimbaud ci invita a perdersi nelle forme più oscure dell’amore, della sofferenza, della follia, per estrarre dai veleni della vita la quintessenza. E che importanza ha se, in questo viaggio verso l’ignoto, si perde la ragione? Che importanza ha se il poeta, stremato dalle sue visioni, crepa come un Icaro che ha volato troppo vicino al sole? Ah, ma nel suo crollo, egli avrà visto cose che nessun altro ha osato vedere, e su quelle ceneri, altri folli prenderanno il suo posto, pronti a cadere da orizzonti sempre più alti.