L’uomo, fragile e sfuggente come un’ombra al tramonto, mi fissava con occhi pieni di una sfida morbida, quasi rassegnata. «Allora, su, mi stupisca, tiri fuori un’idea geniale» disse, con un tono che aveva il sapore amaro del disincanto. Io, come una statua di marmo, rimasi immobile, muto, arido. Nulla mi veniva in mente, nulla da offrire a quel gioco perverso di intelligenza e ironia.
Con un gesto stanco ma preciso, lui frugò nel suo zaino, tirando fuori un libricino consunto, vittima di troppe letture e troppa vita. Lo aprì a caso, come se stesse consultando un oracolo. Il suo viso, improvvisamente trasfigurato, si illuminò di una luce feroce, quasi divina, e iniziò a leggere con un’intonazione sacra e dissacrante al tempo stesso: «Invece di fissare il volto dei passanti, mi soffermavo sui loro piedi. Piedi che danzavano, correvano, si agitavano senza tregua – ma verso dove? La missione dell’uomo, mi parve chiaro, non è altro che sfiorare la terra, solleticare la polvere alla ricerca di un mistero vuoto, inutile, senza alcuna serietà».
Io, testimone muto di quella visione, ascoltavo rapito, mentre intorno a noi il Luxembourg si apriva come un sogno effimero, di quelli che al risveglio svaniscono come fumo. E, mentre lui parlava, mi sembrava di vedere tutto con nuova chiarezza: la gente che si agitava, i corpi che scivolavano avanti e indietro come fantasmi erranti, senza un senso, senza una destinazione. Non volti, non anime, solo piedi, solo passi. Passi inutili, come inutili erano le loro esistenze, condannate a una danza disordinata, un ballo tragico da cui non si può sfuggire.