Che strano, ascoltare l’esterno, come se fosse un volto, duro, teso. Eppure c’è, questa tua faccia, accogliente, pronta a ricevermi fino in fondo, in un doppio gemito che quasi si espande, si agita in un'onda di spasmi. Tu lo dici: la fine dei nostri tre giorni insieme. Diverso, distaccato. Meno presente, con il corpo che risponde ormai da solo.
È diventato un gesto naturale leggere nei tuoi occhi. Noi eravamo qui, sì, tra stoffe e sguardi, cercando di colmare quel vuoto che ci sfugge sempre. E nell'aria rimane.
Qualcosa, frammenti obliqui, lontani come riflessi.
Adesso è difficile risalire. La mente è quasi confusa, agitata. Prima non c’era questo presente così tangibile, il tempo si arrestava, si fermava in un attimo. S’era fermato. Ma si ripiegava sempre, e ogni volta un ricordo, non sempre, ma quasi, emergeva.
Non più precisi di così. Ero io che restavo. Perché continuavano a tornare, a sommarsi, dilatandosi, mentre l’insieme di tutte le cose non si diceva mai del tutto. E oggi lo ritrovo, lì, disteso sull’orlo.
Voi, in piedi, accanto, come parte di un rito. E io non ero in quel cerchio. La torsione era l’eco, sì.
Istintiva profondità, o meglio: carne viva. Quel salto che rispondeva, come scritto, inevitabile. Come se il muro, lì, non potesse ricevere altro colore. E così: sudore.
Occhi che puntano, e una forma che copre, poi la testa che emerge. Questo richiamo, la bocca di qualcuno che riceve il seme, e l’episodio non avrebbe potuto riflettere il rosso del cielo, strappato dal quadro, terroso, esatto. Era la parte giusta, quella che tutti indicavano.
In questo angolo, che è un nostro momento, gridando con la gola tesa, siamo venuti.
E si apriva, così, per offrirsi a noi, in un rilievo distante.
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L’ho reso un po' più lineare e "respirabile," ma ho mantenuto la carnalità e la tensione tra il fisico e il mentale. Il ritmo rimane volutamente denso, come se si stesse cercando di catturare qualcosa che sfugge ogni volta.