Entro nella notte, quell’abisso profondo che non è solo l’assenza di luce, ma un’entità viva, pulsante, che avvolge il mondo e lo consuma, lo trasforma in una materia informe, una massa eterea che non conosce forma né scopo, ma che esiste solo nella sua potenza oscura e invincibile. La notte è la vera padrona del nostro destino, una presenza che ci sovrasta e ci annienta, un’incognita che non possiamo sfuggire né superare. Non c’è spazio in cui essa non arrivi, non c’è angolo dove non penetri con la sua lunga e gelida mano. È la sua forza che definisce ogni cosa, che fa di noi semplici ombre, figlie del nulla, prigionieri di un tempo che scorre senza direzione. Non c’è più tempo per agire, né per pensare: solo la rassegnazione, una rassegnazione che si fa silenziosa e profonda, che si radica nell’essenza stessa del nostro essere, e che ci trasforma in spettatori impotenti della sua immensa vastità.
Scrivere, allora, è un atto che nasce dalla consapevolezza di questa potenza che ci schiaccia, di questa notte che non può essere né compresa né superata, ma che dev’essere, nel suo stesso essere, vissuta. Scrivere è entrare volontariamente in quel buio, farsi possedere da esso, diventare carne della sua carne, ombra della sua ombra. Non è più un atto di creazione, ma di sottomissione, un atto di fede cieca nella sua infinita oscurità. Scrivere è l’abbraccio di un silenzio che non ha mai fine, è l’accettazione di un mistero che non si svela mai, ma che ci invita incessantemente a cercare di coglierlo, anche se ogni tentativo si rivela vano. Scrivere è immergersi in un oceano senza onde, è camminare in un deserto senza orizzonti, è guardare negli occhi un vuoto che ci risponde senza parole, ma con un rumore sordo che ci penetra nell’anima. Scrivere è sopportare il peso di un’assenza che ci reclama, che non ci permette di sfuggire, che ci costringe a essere sempre più vicini, sempre più intimi a quel vuoto che ci è destinato.
La poesia, poi, è il tentativo di resistere, di non arrendersi completamente al nulla che ci circonda. È la ricerca di un senso che non c’è, di un’illuminazione che non giungerà mai, ma che ci incita a proseguire nel nostro cammino, nonostante la consapevolezza di essere perduti. La poesia è il sogno di un segno, di una traccia, di una scintilla che possa almeno suggerire l’esistenza di una verità, anche se incompleta, anche se imperfetta. Scrivere poesia è tentare di acciuffare l’impercettibile, di afferrare l’inafferrabile, di scoprire ciò che non può essere mai completamente scoperto. Ogni verso, ogni parola, ogni frase è una piccola, misera invocazione alla luce, una preghiera che non è mai esaudita, ma che ci mantiene vivi, ci tiene in piedi nel buio, ci impedisce di soccombere all’assoluta oscurità. La poesia è il suono di una solitudine che non è mai sola, perché nell’oscurità, pur nel suo mistero assoluto, noi continuiamo a cercare, a sperare, a implorare. Ogni parola è un tentativo di dare voce a un’esistenza che non trova mai il suo posto, che è sempre fuori posto, sempre distante dal suo scopo. Ma proprio in questa distanza, in questa separazione, risiede la sua essenza: la poesia non è mai completa, non è mai piena, ma è sempre una possibilità, un desiderio, una promessa che non si adempie mai completamente.
Cercare di distinguere qualcosa nella notte è come tentare di decifrare un codice che non è stato scritto per essere letto, è come cercare di mettere ordine in un caos che è per sua natura incorruttibile. La notte non ci permette di vedere mai completamente: ci mostra solo scorci, riflessi, ombre che si disintegrano al nostro tocco. Ogni tentativo di scoprire la verità si rivela futile, ogni speranza di illuminazione si dissolve nell’imperfezione della visione. Eppure, proprio in questo inadeguato tentativo, in questa continua ricerca senza speranza, risiede una bellezza che non si può cogliere, che non si può trattenere. La bellezza della notte non è quella della chiarezza, della luce che rende tutto evidente, ma quella del mistero che si fa infinito, che non ha bisogno di essere spiegato, ma che vive nel suo stesso essere inafferrabile. È una bellezza che non ha forma, ma che si nasconde in ogni respiro, in ogni attimo sospeso, in ogni attimo che non giunge mai a compiersi. La notte, nel suo infinito, è la madre di ogni cosa, il suo ventre che non partorisce mai completamente, ma che nutre, che prepara, che lascia crescere senza mai rivelarsi.
Accettare di non vedere nulla, di restare immersi in un buio che non offre risposte, che non promette né soluzioni né conforto, è l’unico atto di verità che ci è concesso. Non vedere nulla è l’unico modo per vedere tutto, è il momento in cui l’occhio, privato di ogni speranza di visione, si apre a una realtà che non ha bisogno di forme, di parole, di concetti. È il momento in cui il cuore smette di cercare e, nel suo abbandono, inizia a percepire il mondo in modo nuovo, senza l’inganno della luce, senza il peso delle immagini. In questo non-vedere, in questa sospensione assoluta, risiede la pura visione: quella che non è limitata dalla forma, dalla realtà, ma che è in grado di cogliere la profondità di ciò che esiste, senza mai poterlo possedere. È una visione che non è fatta di immagini, ma di sensazioni, di presenze invisibili che non si possono afferrare, ma che si sentono, che si percepiscono nell’anima. La notte, in fondo, non è che il simbolo di questa visione: essa è il vuoto che non è vuoto, l’assenza che è piena di tutto, il silenzio che risuona di tutte le voci non dette. E scrivere, allora, non è che un atto di fede cieca in questa notte, in questo mistero che non si può mai comprendere, ma che, nel suo stesso essere incomprensibile, ci rivela la sua pienezza.