Un tempo avevo parole gentili sulle labbra, eppure ora le ho perse tutte, come se si fossero dissolte nell’aria o fossero state rubate da notti troppo lunghe e senza sogni. Rimango con sigilli di segreti che sanno di veleno, e ogni pensiero che trattengo sembra corrodere dall'interno, lasciando un retrogusto amaro che non riesco a scacciare. Le mie membra, un tempo forse vigorose, oggi si trascinano con la pelle raggrinzita, priva di quella leggerezza che chiamiamo gioia, e che ormai è solo un’eco lontana, persa tra i ricordi di quando sapevo ancora ridere.
Sono stato dimenticato, lasciato in balìa di un destino che assomiglia a una trincea scavata in una terra arida, dove non cresce nulla se non la fatica di stare in piedi. La mia mente, come un ramo che si spezza facilmente, è fragile, ma non porta nuovi germogli, non offre alcuna promessa di rinascita. Rimango a galleggiare tra pensieri scuri, che hanno il sapore antico delle vendette consumate in silenzio, lontano da sguardi indiscreti.
Ovunque mi volti, vedo solo vanità prive di sostanza, borie che si trascinano senza il conforto di un libro o di un leggio su cui appoggiare le parole, senza che alcuna storia possa riscattarle. Questo secolo – che è l’ennesimo e non ha pietà – mi offre solo le ire più sterili, e l’unico linguaggio che mi è concesso è quello delle calunnie, che s’insinuano come serpi nei miei giorni.
E così, maligno e silenzioso, lo zero del mio ergastolo si distende davanti a me, senza fine né appello. Resto prigioniero di un nulla che si fa sempre più denso, come se l'assenza stessa fosse una condanna da scontare all'infinito.
E in questa prigione senza sbarre visibili, ogni giorno si ripete uguale all'altro, scandito da un tempo che non porta mutamenti, ma solo l’eco di passi che non si avvicinano mai davvero. Le mura sono fatte di pensieri rimuginati all’infinito, un labirinto mentale dove ogni corridoio riconduce allo stesso punto, come se fosse stato progettato apposta per non lasciarmi scampo.
Fuori, il mondo si muove indifferente, ma io rimango immobile, spettatore forzato di un teatro dove le maschere non cadono mai. Ogni volto che incontro porta con sé ombre di menzogne e sorrisi falsi, e non so più distinguere se sia il loro riflesso a contaminarmi o se sia io a leggere malizia ovunque. Ciò che un tempo chiamavo fiducia è diventato un lusso che non posso permettermi, come una veste preziosa che non indosso da anni, logorata e ormai irriconoscibile.
Talvolta provo a scrutare l’orizzonte, ma i contorni si confondono e l’aria sembra densa come nebbia. Le parole che vorrei dire – quelle rimaste sepolte sotto strati di silenzio – si fermano in gola, come pietre che non riescono a rotolare giù. Anche il desiderio di raccontarmi è diventato estraneo, e preferisco custodire i miei segreti con il medesimo veleno che li ha generati, sapendo che nessuno potrebbe comprenderli davvero.
Mi aggrappo allora a frammenti di memoria, cercando di dare forma a qualcosa che assomigli a una verità. Ma i ricordi, come foglie troppo vecchie, si sbriciolano al tocco. A volte mi domando se non sia la mia stessa mente a cancellare ciò che non vuole più ricordare, come un carceriere zelante che decide cosa posso conservare e cosa no.
Eppure, in questo nulla che mi avvolge, una parte di me resiste ancora, come una brace che non si spegne del tutto. È fievole, quasi impercettibile, ma c’è. Non è speranza, né una promessa di liberazione, ma forse solo l’abitudine alla resistenza, l’istinto primordiale di restare in piedi anche quando ogni ragione sembra svanita.
Così continuo a camminare, seppure a passi lenti, su questa strada che non porta a nessuna meta, consapevole che lo zero del mio ergastolo non mi lascerà tregua. Ma forse, in quell’assenza di futuro, esiste una sorta di crudele coerenza che, in un modo distorto, riesco quasi ad accettare.
E proprio quando mi illudo di aver accettato questo vuoto, sento che qualcosa si muove, non fuori, ma dentro di me. È sottile, come un fremito impercettibile, una crepa nel vetro opaco che separa la mia esistenza dal resto del mondo. Forse è solo il riflesso della mia stessa malinconia, o forse un pensiero che cerca di germogliare nonostante tutto.
Non è una luce, né una redenzione. È più simile a un’inquietudine, come se il silenzio avesse improvvisamente preso a respirare, facendo scricchiolare le mura invisibili della mia prigione. Per quanto cerchi di ignorarlo, il pensiero cresce, e con esso cresce anche il fastidio di doverlo riconoscere. Perché nonostante tutto, una parte di me vuole ancora qualcosa.
Ma cosa?
Non riesco a dare un nome a questo desiderio scomodo. Non è gioia, né una speranza concreta. È piuttosto il bisogno di rompere il ritmo immutabile delle mie giornate, come se bastasse un solo gesto diverso per incrinare quel ciclo eterno di nulla. Eppure, ogni volta che provo a immaginare quel gesto, mi ritrovo bloccato. È come se avessi dimenticato come si fa a muoversi in un’altra direzione.
Forse l’unica via d’uscita non è fuggire, ma scavare. Affondare ancora di più in questo vuoto, fino a toccare il fondo, se mai ne esiste uno. Forse, se riuscissi a guardarlo da vicino, lo zero del mio ergastolo rivelerebbe una porta nascosta, un varco segreto che non riesco a vedere dalla superficie.
E così inizio a scavare, ma non con le mani. Scavo con i pensieri, lasciando che si srotolino uno dopo l’altro, anche quelli più scomodi, quelli che ho evitato di affrontare per troppo tempo. Ogni parola taciuta diventa una lama che taglia via un pezzo di questa prigione. Ogni ricordo amaro, una pietra che si sgretola sotto il peso del mio sguardo.
Mi accorgo che la vera condanna non è il vuoto che mi circonda, ma ciò che continuo a portare dentro. Le vendette mai consumate, le ire accumulate, i segreti velenosi. Sono io a essere il mio carceriere. E mentre questo pensiero mi attraversa, non provo sollievo, ma almeno sento di aver fatto un passo.
Forse lo zero non si trasformerà mai in uno, e forse non sarò mai libero. Ma in questa consapevolezza, trovo almeno una forma di tregua. E per la prima volta, il silenzio intorno a me sembra un po’ meno ostile.
Ma la tregua, come ogni cosa, è fragile. Non dura abbastanza da radicarsi. È solo un battito, un respiro di quiete che si dissolve non appena provo a trattenerlo. Perché il silenzio, anche se meno ostile, rimane comunque un avversario ostinato, pronto a riprendersi ogni spazio appena liberato.
E così, mentre cerco di affondare ancora di più in questo vuoto, mi accorgo che scavare ha un prezzo. Ogni pensiero srotolato diventa un filo che rischia di impigliarsi, una trappola sottile che mi riporta indietro, nel labirinto delle stesse ossessioni. A volte, mentre scavo, finisco per ritrovarmi esattamente dove avevo iniziato. E la frustrazione che segue è talmente densa da sembrare tangibile.
Mi siedo, esausto, e guardo quello che resta. Il nulla è ancora lì, immutabile, ma adesso so che non è infinito. Ha confini, per quanto sfumati e distanti. Forse non riuscirò mai a raggiungerli, ma sapere che esistono è già qualcosa.
E poi, senza preavviso, sento un suono. È debole, quasi impercettibile, ma è abbastanza per interrompere quel silenzio che ormai credevo eterno. Mi guardo intorno, cercando di capire se viene da fuori o se è solo nella mia testa. È una voce? No, sembra più un’eco lontana, come il rumore di passi su una scala di legno, o il fruscio di una pagina che si volta.
Mi alzo, spinto da una curiosità che credevo sepolta da tempo. Cammino verso quel suono, seguendolo come fosse un filo teso nel buio. E mentre procedo, qualcosa cambia. I contorni delle cose si fanno più nitidi, le ombre meno dense. Non è la libertà, né una salvezza improvvisa. Ma è movimento. È l’idea che, forse, non tutto è perduto.
Arrivo a una porta. Non so se sia stata sempre lì o se l’ho creata io con i miei passi. La guardo per un istante, incerto. Poi la apro, senza pensare troppo.
Dall’altra parte, non c’è luce, né un paesaggio che mi attende. Solo un altro corridoio, simile al precedente. Ma c’è una differenza: questa volta non mi sembra di tornare indietro. Questa volta, sento che sto andando da qualche parte.
E mentre avanzo, con il suono che mi guida, capisco che non sto più cercando di fuggire dallo zero del mio ergastolo. Sto cercando di attraversarlo. Forse è l’unico modo per lasciarlo davvero alle spalle.
Il corridoio si distende davanti a me come una linea sottile, quasi impalpabile. Ogni passo sembra pesare il doppio, come se l’aria stessa opponesse resistenza. Eppure continuo ad avanzare, senza sapere esattamente cosa mi spinga a farlo. Forse è l’eco di quel suono che ancora mi accompagna, o forse è solo l’istinto che mi tiene in movimento, l’antica paura di fermarsi troppo a lungo e sprofondare.
Le pareti intorno a me sono lisce, senza alcun segno o appiglio. Non ci sono porte né finestre, solo quella continuità asfissiante che mi costringe a proseguire. Ma c’è una stranezza che non riesco a ignorare: man mano che avanzo, il corridoio sembra restringersi. Lentamente, quasi impercettibilmente, lo spazio si fa più stretto, come se cercasse di adattarsi al mio corpo, di modellarsi attorno a me.
Arriva un momento in cui il mio respiro sfiora le pareti. Devo inclinare la testa, abbassare le spalle. Ogni movimento diventa un atto misurato, preciso, come se il minimo errore potesse bloccare tutto. E in quell’angustia, qualcosa si risveglia. Un’antica sensazione di prigionia, un riflesso involontario che mi spinge a voler tornare indietro.
Ma non lo faccio.
Non perché sia coraggioso, ma perché voltarmi significherebbe ammettere che questo corridoio non ha una fine. E non sono pronto per quella verità.
Continuo a spingermi avanti, finché la strettoia diventa quasi insostenibile. Sento le pareti premere contro le mie costole, il respiro farsi corto. E poi, nel momento in cui penso che non riuscirò più a muovermi, accade qualcosa di inatteso.
Il corridoio finisce.
Non con una porta, né con una soglia. Semplicemente, si apre. Come se si dissolvesse di colpo, lasciandomi sospeso in uno spazio vasto e indistinto. Davanti a me si distende una stanza. È spoglia, senza mobili o decorazioni, ma c’è qualcosa al centro.
Un tavolo.
Mi avvicino, con il cuore che batte forte, e vedo che sopra c’è un libro. Sottile, con una copertina nera, priva di titolo. Lo tocco con esitazione, aspettandomi che svanisca sotto le dita. Ma rimane lì, concreto, come se mi stesse aspettando.
Lo apro.
Non ci sono parole all’interno, solo pagine bianche che si susseguono senza sosta. Scorro con le dita, aspettando che qualcosa appaia. E alla fine, quando ormai sto per richiuderlo, vedo una frase.
"Il tuo ergastolo finisce quando decidi di scrivere."
Rimango fermo, con lo sguardo fisso su quelle parole. C’è una penna accanto al libro, come se fosse stata lasciata apposta per me. Esito, incapace di capire se sia una trappola o una possibilità reale.
Poi la prendo, con la stessa cautela con cui si tocca un oggetto fragile. E scrivo.
Le prime parole sono incerte, tremolanti. Non so cosa sto raccontando, né se ha senso. Ma non importa. Ogni frase riempie un vuoto, ogni riga allarga lo spazio intorno a me. La stanza si espande, e con essa il mio respiro.
Non so se sto scrivendo per fuggire o per rimanere. Ma per la prima volta, sento che lo zero del mio ergastolo sta iniziando a cedere.