Sudario che non è, ma si spalanca,
come un sipario mesto e disvelato,
nel buio fitto d’ombre che si incarna,
fra mura d'aria e veli di passato,
silente manto che il destino attanca,
sospeso in bilico sull’orlo amato,
residuo vuoto d’un respiro infranto,
eco sottile d’un vagito andato.
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Curvata soglia dove il tempo langue,
in lenta agonia di giorni e ore stanche,
e si contorce in spasmi d’esistenza,
come un torrente che si placa e spande.
Nel lento gorgo che lo spazio strugge,
si perde il senso e l’ordine si frange,
si spezza il ritmo in polvere ed assenza,
come un miraggio che al sole si spande.
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Non v'è sostanza oltre quel muro scuro,
solo il silenzio che si fa prigione,
né luce che vi brilli o segno duro,
solo un confine fatto d’illusione.
E mentre l’aria si fa densa e greve,
un soffio si disperde nella sera,
che s’apre al nulla, in abbandono oscuro,
senza un domani, senza primavera.
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Rimane il vuoto, eterno e immutabile,
testimone d’un grido non più udibile,
che giace là, tra le pieghe dell’invisibile,
ombra svanita d’un istante irrefrenabile.
Rimane il tempo, spezzato e frantumato,
un vetro d’ore che il vento ha disperso,
un attimo solo, infinito e disperso,
che vaga muto nel cielo ormai dischiuso.
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Non è buio, né spazio, ma un’idea sfuggente,
qualcosa che si insinua tra il visibile e l’invisibile,
come un sussurro che non diventa mai parola,
un’eco fragile che si perde prima ancora di risuonare.
Non è solido, non è liquido: è una sospensione,
una nebbia densa di assenze, un ricordo senza volto.
Si agita ai margini del pensiero,
dove ogni certezza si sgretola,
e si fa ombra, frammento, traccia.
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È un’increspata forma priva di sostanza,
che sfiora il reale senza mai attraversarlo,
un confine mobile, un respiro interrotto,
un frammento di nulla che vibra e si consuma.
Si avvolge in spirali invisibili,
si piega sotto il peso della sua stessa assenza,
come un riflesso in uno specchio rotto,
dove tutto è distorto, deformato, evanescente.
Eppure, in questo torcersi silenzioso,
sembra lottare contro un vuoto che non può vincere,
contro un’assenza che lo abbraccia, lo soffoca, lo definisce.
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Nella sua rovina, c’è un moto incessante,
un tentativo continuo di esistere,
di aggrapparsi a un significato che sfugge,
come acqua tra le dita, come vento in un pugno chiuso.
Si rigenera in un ciclo di nascita e distruzione,
ma ogni rinascita è un nuovo fallimento,
un altro passo verso l’oblio,
una nuova danza nel vuoto senza fine.
E così vaga, senza direzione né scopo,
un’ombra inquieta nel cuore del nulla,
che esiste solo nel perdersi,
che vive solo nell’annientarsi.
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Nascere? No, non è altro che un abisso che si spalanca senza avvertimento,
un precipizio che ci inghiotte ancora prima di capirlo,
un burrone nascosto dietro l'illusione di una luce.
Non c'è piede che trovi appiglio, né mano che afferri salvezza:
è solo un cadere continuo, inesorabile, senza scampo.
Ogni respiro è un eco vuoto, ogni movimento un'ombra che si perde.
Non c'è peso nella caduta, né sostanza nel movimento,
solo un lento svanire, una discesa interminabile verso il nulla.
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E quel grido, oh, quel grido che pare segnare l'inizio,
non è che una menzogna, una beffa dell'origine che non esiste.
È un urlo privo di voce, un lamento mai pronunciato,
il riflesso distorto di qualcosa che non è mai stato.
Un'eco che si spegne prima ancora di nascere,
un rintocco muto nel silenzio dell'essere che manca.
Il tempo stesso si confonde, si piega su sé stesso,
perché non c'è origine né fine, solo un inganno perpetuo.
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E la caduta continua, sempre più profonda, sempre più lontana,
una spirale che ci trascina senza pietà, senza ritorno.
Non c'è resistenza, non c'è risalita,
solo l'accettazione del vuoto che tutto avvolge.
L'abisso si fa eterno, si fa tutto, si fa noi stessi,
e il capitombolo non è che la nostra natura più vera.
Un passo falso che mai abbiamo scelto,
un tuffo nell'oblio che da sempre ci appartiene.
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Il nulla ci accoglie come suo figlio prediletto,
ci stringe nelle sue braccia fredde e silenziose,
e noi, smarriti, non possiamo che abbandonarci,
perché nascere, dopotutto, non è mai stato altro che morire.
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Eterno vomito che scava, lacera e inganna,
moto incessante, crudele flusso che dilaga,
abisso senza pace, voragine profonda,
un abbraccio che arde e avvelena, fuso nel peccato,
osceno come un gioco di mani intrecciate nel buio,
tra la materia greve, densa, immota,
e il vuoto insonne che chiama,
un canto di assenza che risuona,
giocando al nulla con il potere del silenzio,
celato in grembo, dentro un ventre cieco,
dove il tempo si curva e si sgretola in polvere.
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E tu, forma senza forma, dissolto e furioso,
che sussurri nella cieca furia,
un’eco che rimbalza tra le pareti del tutto,
sospeso, per sempre in bilico,
in un’alterazione che non trova misura,
tra il volto del desiderio e il freddo muro del rifiuto.
Intrecci la trama di un tempo morto,
di un respiro mai nato, di un desiderio smorzato,
sospeso nel nulla che non si ferma,
in bilico tra il tutto, un tutto gridato,
e il non voluto, che svanisce prima di essere.
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Eterno inganno, vomito che non si placa,
che mai si consuma, mai si spiega,
ci contendi il respiro, lo strappo, il ricordo,
come un’ombra che danza sui resti di ciò che è stato,
la vertigine di un baratro che si stringe,
mentre il vuoto dilaga, soffoca, si prende,
tutto ciò che rimane.
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Non dire nulla: il nulla è già parola,
e nella sua assenza tutto accade.
È forma che si piega, si distorce,
si svela in un sussurro che non c’è,
trama che si dissolve nel pensiero,
ombra che scivola tra mani vuote,
silenzio che s’increspa e si rifrange
nel riflesso di un’idea senza volto.
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Non dire nulla: lascia che il silenzio
abbracci il vuoto come fosse eterno,
che il gioco dello sfarsi, del cadere,
sia un andare che non conosce mete.
È deriva che affonda e poi risale,
un approdo mai scritto, mai voluto,
onda che torna senza mai la riva,
portando indietro il tempo e la memoria.
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Non dire nulla: lascia che il tuo fiato
respiri l’assenza, la sua forma pura,
ché ogni parola frantuma l’istante,
ogni suono è un grido che scompare.
Nel vuoto, l’essenza trova dimora,
un peso d’assente che è tutto e niente,
inesplicabile eppure concreto,
come un miraggio che ci tiene in vita.
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Non dire nulla: osserva come cresce
il senso nel tacere, nel restare.
Ogni eco si perde, ogni voce tace,
e in questo silenzio il mondo si crea.
Lascia che il nulla sveli il suo segreto,
che l’assenza si spieghi in un abbraccio.
È lì che tutto vive e si trasforma,
nel nulla che contiene l’universo.
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E allora il verbo tace e si disgrega,
come un'eco che lentamente si dissolve nell’aria,
lanciando ombre indecise e fuggevoli sulla realtà,
mentre il silenzioso spazio si richiude,
diventa un confine angusto, un abisso che inghiotte ogni suono.
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Inizia a sparire ogni traccia di movimento, ogni pulsazione,
come se la vita stessa fosse una fiammella che si spegne,
una scintilla che svanisce nell'immenso vuoto che ci circonda,
mentre il tempo, immobile, si rifugia nella sua eternità,
sospeso tra un istante che non arriva e uno che non se ne va.
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S’infetta il senso, la sua purezza si corrompe,
la limpidezza della parola si fa impura,
diventa grigia, sfocata, incapace di trattenere il suo significato.
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Il pensiero, una volta chiaro, ora diventa fluido,
si sgretola come sabbia tra le dita,
trasformandosi in nulla, in una polvere invisibile.
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Il significato si contorce e perde la sua forma,
come una statua che si dissolve nell’aria umida della sera,
diventando poltiglia, disperdendosi nel vento,
scivolando in una distorsione senza ritorno,
in una distorsione che è la fine del pensiero,
che è la fine dell'idea, della luce, della speranza,
fino a franare nel totale,
come una roccia che crolla in un vuoto senza fine,
un vuoto che non ha inizio né fine,
ma che ingloba tutto in un abisso senza speranza.
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I frammenti che restano sono scaglie senza forma,
cadono, spariscono, annichiliti dalla vastità del nulla.
Irreparabili, quasi invisibili,
irrimediabile, perfetto nulla,
un annichilimento che non lascia traccia,
un disfacimento totale che cancella ogni residuo di essenza,
un silenzio che non chiede perdono,
un silenzio che diventa il tutto, che ingloba l’infinito.
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Un’assenza che non è più assenza, ma presenza,
che riempie ogni angolo, ogni spazio, ogni respiro,
un’assenza che tutto avvolge e consuma,
che rende ogni cosa superflua,
che fa della vita e della morte una stessa cosa,
un’idea che non esiste più,
un niente che è diventato ogni cosa.