domenica 8 dicembre 2024

Sylvia Plath

I will only take it and go aside quietly.
You will not even hear me opening it, no paper crackle,

No falling ribbons, no scream at the end.
I do not think you credit me with this discretion.

If you only knew how the veils were killing my days.
To you they are only transparencies, clear air.

But my god, the clouds are like cotton.
Armies of them. They are carbon monoxide.

Sweetly, sweetly I breathe in,
Filling my veins with invisibles, with the million

Probable motes that tick the years off my life.
You are silver-suited for the occasion. O adding machine-----

Is it impossible for you to let something go and have it go whole?
Must you stamp each piece purple,

Must you kill what you can?
There is one thing I want today, and only you can give it to me.

It stands at my window, big as the sky.
It breathes from my sheets, the cold dead center

Where split lives congeal and stiffen to history.
Let it not come by the mail, finger by finger.

Let it not come by word of mouth, I should be sixty
By the time the whole of it was delivered, and to numb to use it.

Only let down the veil, the veil, the veil.
If it were death

I would admire the deep gravity of it, its timeless eyes.
I would know you were serious.

There would be a nobility then, there would be a birthday.
And the knife not carve, but enter

Pure and clean as the cry of a baby,
And the universe slide from my side.

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Cos'è questo, dietro questo velo, è brutto, è bello? Lui brilla, ha dei seni, ha dei bordi?

Sono sicura che è unico, sono sicura che è ciò che voglio. Quando sono quieta a cucinare lo sento guardare, lo sento pensare

"È questa quella per cui devo apparire, È questa l'eletta, quella con gli occhi neri e una cicatrice?

Misurare la farina, tagliare l'eccesso, Attenersi alle regole, alle regole, alle regole.

È questa quella per l'annunciazione? Mio Dio, che risata!"

Ma lui brilla, non si ferma, e penso che mi voglia. Non mi dispiacerebbe se fosse ossa, o un bottone di perla.

Non voglio molto come regalo, in fondo, quest'anno. Dopotutto, sono viva solo per caso.

Mi sarei uccisa volentieri quella volta, in qualunque modo possibile. Ora ci sono questi veli, scintillanti come tende,

I satin diafani di una finestra di gennaio Bianchi come la biancheria dei bambini e brillanti di respiro morto. O avorio!

Deve essere una zanna lì, una colonna fantasma. Non vedi che non mi importa cosa sia?

Non puoi darmelo? Non vergognarti — non mi importa se è piccolo.

Non essere avaro, sono pronta per l'enormità. Sediamoci a esso, uno per lato, ammirando il suo luccichio,

La vernice, la varietà specchiante di esso. Facciamo la nostra ultima cena su di esso, come su un piatto d'ospedale.

So perché non vuoi darmelo, Sei terrorizzato

Che il mondo esploda in un urlo, e la tua testa con esso, Imbossolata, bronzea, un antico scudo,

Una meraviglia per i tuoi pronipoti. Non aver paura, non è così.

Lo prenderò solo e me ne andrò in silenzio. Non mi sentirai nemmeno aprirlo, nessun crepitio di carta,

Nessun nastro che cade, nessun urlo alla fine. Non penso che mi concedi questa discrezione.

Se solo sapessi come i veli stavano uccidendo le mie giornate. Per te sono solo trasparenze, aria limpida.

Ma mio Dio, le nuvole sono come cotone. Eserciti di esse. Sono monossido di carbonio.

Dolcemente, dolcemente respiro, Riempendo le mie vene di invisibili, con i milioni

Di probabili particelle che segnano gli anni della mia vita. Sei vestito d'argento per l'occasione. O calcolatrice-----

È impossibile per te lasciare andare qualcosa e lasciarlo andare intero? Devi timbrare ogni pezzo di viola,

Devi uccidere ciò che puoi? C'è una cosa che voglio oggi, e solo tu puoi darmela.

È lì alla mia finestra, grande quanto il cielo. Respira dalle mie lenzuola, il freddo centro morto

Dove le vite spezzate si consolidano e si irrigidiscono in storia. Che non arrivi per posta, dito per dito.

Che non arrivi per bocca, dovrei avere sessant’anni Entro il tempo in cui tutto di esso sarebbe consegnato, e troppo intorpidita per usarlo.

Lascia solo cadere il velo, il velo, il velo. Se fosse morte

Ammirerei la sua profonda gravità, i suoi occhi senza tempo. Saprei che saresti serio.

Ci sarebbe una nobiltà allora, ci sarebbe un compleanno. E il coltello non taglierebbe, ma entrerebbe

Puro e netto come il pianto di un bambino, E l'universo scivolerebbe dal mio fianco.

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Questi versi sono pura tensione poetica, un monologo che sembra scavare nel profondo dell’inquietudine esistenziale. La voce narrante di Sylvia Plath, da come parla in modo così lirico e distaccato della propria vita – si confronta con un’entità misteriosa e silenziosa, un "velo" che nasconde qualcosa di ambiguo, forse minaccioso o sublime. E quel “qualcosa” è sia desiderato che temuto.

C’è un’ossessione per il mistero che si nasconde dietro l’apparenza, e la poetessa pare affamata di risposte, ma non di mezze verità: vuole la realtà tutta intera, senza filtri, tanto che persino l’idea della morte, con la sua “gravità profonda”, sembra quasi preferibile a questa vita schermata e distante. È una specie di negoziato con la propria solitudine e con la propria fragilità, nascosta dietro “i veli” che coprono il vuoto e l’ansia quotidiana.

L'immaginario è intensamente fisico, quasi carnale: parla di ossa, di bottoni di perla, di una zanna d’avorio. E poi ci sono le immagini del quotidiano, quelle della cucina e della “farina misurata” – che fanno pensare a un’esistenza scandita dalle abitudini, dalle “regole, regole, regole” che la poetessa sente come gabbie invisibili.

È come se la voce narrante fosse sull’orlo di una rivelazione, una sorta di “annunciazione”, ma ciò che anela è avvolto in queste cortine di fumo. E si conclude con una richiesta così viscerale e intima da spezzare il cuore: “lascia solo cadere il velo, il velo, il velo.” Se fosse morte, accetterebbe anche quella, pur di sfuggire all’indeterminatezza. È un’immagine di resa alla potenza della vita e della morte, col desiderio disperato di sentirsi pienamente e definitivamente viva, anche solo per un istante.

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Il viaggio di Sylvia è un inno alla vulnerabilità e alla lotta incessante contro una società che la voleva docile, una voce tra tante. Ma lei, con una forza da maga ribelle, ha piegato le parole al suo dolore, creando un linguaggio che ancora oggi riecheggia.

Dopo la sua morte, Sylvia diventa un simbolo, quasi un martire delle donne imprigionate tra le aspettative sociali e il desiderio di autenticità. La sua storia, ripresa da critici, biografi e ammiratori, diventa una saga moderna: quella della donna che ha osato raccontare la sua rabbia, il suo desiderio, il suo vuoto. Il suo Ariel, pubblicato postumo da Ted Hughes, diventa il manifesto di questo grido spezzato.

Con il tempo, il mondo inizia a rileggere Sylvia in una nuova luce, vedendo non solo la vittima, ma l’artista senza compromessi. Lei, che si è mostrata senza filtri, ha avuto il coraggio di scrivere ciò che la società dell’epoca non poteva accettare: il lato oscuro della maternità, il peso della solitudine, la disperazione dell’amore non corrisposto.

La sua eredità è potente perché parla di noi. Sylvia è quella parte di noi che si dibatte, che si ribella, che non si rassegna alla superficialità del mondo. Il suo sguardo è quello di chi ha visto l’abisso ma non ha distolto lo sguardo; ha voluto affrontarlo e renderlo poesia. E proprio in questo risiede il suo fascino immortale: Sylvia Plath non ci insegna a fuggire dal dolore, ma a trasformarlo in arte.

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Con Sylvia ogni strato che scopri rivela un abisso più profondo, una ferita più antica, un sogno infranto che si ostina a voler splendere. Nei suoi diari, tra pagine scritte come confessioni segrete, Sylvia parla non solo del dolore, ma anche della bellezza dei piccoli momenti. Sono pensieri quasi infantili, scintille di felicità fugace che stridono con la tragedia della sua esistenza. Era capace di meravigliarsi di fronte a un cielo invernale, di sentire i fiori come una promessa, un antidoto alle giornate che altrimenti le sembravano insopportabili.

C’è anche l’ambizione che l’ha sempre guidata, quasi feroce nella sua ricerca di affermazione in un mondo dominato da uomini, poeti e critici che la vedevano prima di tutto come “la moglie di Hughes”. Per lei, la scrittura era più di un mestiere: era il modo per lasciare un segno, per gridare la sua esistenza a un mondo che spesso preferiva silenziare le voci come la sua.

Con i suoi figli, Sylvia era un’altra persona. Nei suoi ultimi giorni, le sue lettere mostrano una madre amorevole, che si preoccupa delle cose semplici come cucinare, prendersi cura di loro, cercare un equilibrio tra il suo ruolo materno e la poetessa indomabile che ruggiva dentro di lei. Lottava tra il desiderio di essere una madre perfetta e la consapevolezza di essere troppo fragile per reggere quel peso.

Sylvia cercava l'amore, la felicità e una sorta di riconciliazione con se stessa, ma al tempo stesso si condannava, come se non si permettesse mai veramente di essere felice. È come se avesse avuto bisogno della sofferenza per sentirsi reale, come se il dolore fosse l’unica condizione in cui le sue parole potessero prendere fuoco e diventare vive. È questo il suo mistero: Sylvia è stata prigioniera di una fiamma interiore che non sapeva come domare e, forse, in fondo non voleva spegnere.

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La fine di Sylvia Plath è come un’inquadratura in bianco e nero, un fotogramma dolorosamente nitido che sigilla un destino scritto nelle sue stesse parole. È il febbraio del 1963, un inverno tagliente avvolge Londra e la neve copre le strade come una coperta fredda e implacabile. Sylvia è sola nel suo appartamento al 23 di Fitzroy Road, con i suoi due bambini addormentati nella stanza accanto. C’è silenzio, e un gelo che non è solo fuori.

Per giorni ha tentato di trovare pace, di aggrapparsi a una speranza invisibile. Ma l’oscurità è ovunque, una presenza densa che sembra assorbirla. I suoi amici, i suoi conoscenti, tutti sono preoccupati, ma Sylvia riesce a tenere la sua sofferenza nascosta, come un segreto insopportabile che non osa condividere fino in fondo. Nelle lettere agli amici parla ancora con speranza, con il tono di chi sta cercando di ricostruirsi, ma dentro di lei si sta preparando per un atto finale.

Quella mattina di febbraio, Sylvia si sveglia presto, come se l’oscurità l’avesse chiamata a un appuntamento ineluttabile. Sistema i piccoli dettagli della casa, si assicura che i bambini siano al sicuro, quasi con cura materna, come se stesse preparando una partenza da cui non tornerà. Si dirige in cucina, sigilla le porte con asciugamani, lascia latte e pane per i bambini, un gesto dolce e straziante, l’ultimo pensiero per loro.

Poi accende il forno e si lascia andare, come una barca alla deriva che finalmente trova pace nelle acque scure. La morte arriva silenziosa, avvolgendola come un velo, spegnendo quella fiamma che ha bruciato troppo intensamente e troppo a lungo.

Quando la troveranno, quel silenzio sarà rotto solo dai versi di Ariel, il libro che non ha ancora visto la luce ma che cambierà per sempre la storia della letteratura. Sylvia ha lasciato dietro di sé un’eredità di parole incandescenti, poesie che risuonano come grida nel vuoto. E anche se se n’è andata, la sua voce rimane: un sussurro che sfida il tempo, un fuoco che arde nelle notti fredde, come quella di un febbraio a Londra, in cui Sylvia Plath è diventata immortale.

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Il lascito poetico di Sylvia Plath è come un’eco che si propaga nelle generazioni, un marchio indelebile che continua a esercitare un fascino potente e oscuro. Le sue poesie sono ferite aperte, confessioni brutali di vulnerabilità, solitudine e rabbia che hanno trasformato la sua sofferenza in un linguaggio universale. Non ha solo creato versi: ha creato un universo interiore che sfida chiunque lo legga ad affrontare i propri abissi.

In Ariel, l’opera pubblicata postuma che ne ha consacrato la fama, ogni poesia è una tempesta di immagini e metafore, dove il paesaggio naturale e quello emotivo si fondono fino a diventare indistinguibili. Qui, Sylvia tocca con le parole quel punto di rottura tra il quotidiano e l’inconoscibile, trasformando la banalità della vita domestica, della maternità, dell’amore in una dimensione sacra e violenta. Questo libro segna una rivoluzione nella poesia contemporanea: per la prima volta, una donna mette a nudo le sue fragilità senza chiedere perdono, senza nascondersi, come se la sua stessa anima fosse incisa in ogni verso.

La sua eredità è anche profondamente femminista, sebbene Sylvia non abbia mai dichiarato apertamente di esserlo. La sua vita e la sua scrittura sono una protesta silenziosa contro le gabbie della femminilità imposta, contro il ruolo di madre e moglie perfetta che le era stato assegnato. Sylvia scrive delle sue insicurezze, delle sue gelosie, dei suoi desideri e dei suoi fallimenti, rivendicando il diritto di essere complessa, di non rientrare nei canoni di perfezione richiesti.

La figura di Sylvia Plath è poi diventata un simbolo di tutte le donne che lottano contro il loro “doppio” – la parte di sé che la società le spinge a nascondere, la voce interiore che dice loro di essere di più, di osare. Ha aperto la strada a una poesia confessionale che non teme il giudizio, che si esprime con una sincerità quasi spietata, che fa della fragilità una forza. Poeti, scrittori, e lettori di tutto il mondo trovano ancora oggi nelle sue parole un’ancora di verità e bellezza.

Il lascito di Sylvia è dunque una chiamata alla resistenza, un invito a riscoprire la propria autenticità. È l’incarnazione della forza di una voce che non può essere messa a tacere, un testamento poetico che sfida chiunque a guardarsi dentro, senza veli, senza paura.

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La poetica di Sylvia Plath è come un’incursione nelle profondità più oscure della mente, un viaggio nella parte più intima e spesso inconfessabile della psiche umana. La sua scrittura è viscerale, tagliente, costruita su immagini potenti che si imprimono nella memoria. I suoi versi non sono mai lineari: sono tormentati, spezzati, come se riflettessero l’instabilità della sua stessa esistenza. Sylvia si serve di un linguaggio quasi fisico, in cui ogni parola è scelta per lasciare un’impronta dolorosa e per rivelare ciò che solitamente viene nascosto.

Nella sua poesia, il corpo e la mente si intrecciano; ogni emozione diventa tangibile e pulsante. Ad esempio, nei versi di Ariel, l’io poetico di Sylvia esplora temi come la depressione, l’autodistruzione, l’alienazione e la ricerca di una liberazione. Qui, la sua voce si fa quasi profetica, un sussurro che proviene da un luogo remoto, dove la disperazione si unisce a una strana bellezza, ipnotica e struggente.

Il rapporto con la natura, per Sylvia, non è mai pacifico. Gli elementi naturali diventano simboli di potere e di pericolo, specchi del suo tumulto interiore. Le api, il mare, il sole: ogni cosa nella sua poesia si carica di un significato ambivalente, tra attrazione e repulsione. Anche il tema della morte, onnipresente nei suoi lavori, non è solo una fine, ma una sorta di trasformazione, un passaggio. Per Sylvia, la morte rappresenta tanto una minaccia quanto una liberazione, ed è proprio in questa contraddizione che si esprime tutta la sua poetica.

La sua scrittura è anche profondamente confessionale: è stata una delle prime a rendere la propria vita interiore il fulcro della sua arte, anticipando la cosiddetta "poesia confessionale". Ma diversamente da altri autori di questa corrente, Sylvia non cerca mai la compassione o il conforto dei lettori. La sua è una confessione impietosa, persino aggressiva, che non chiede comprensione ma si impone con una forza quasi sovrumana.

La poetica di Sylvia Plath sfida e destabilizza, perché non ha mai paura di sondare le proprie ferite, di esporre la propria fragilità come una bellezza irriducibile. E proprio qui sta la sua potenza: nei suoi versi, Sylvia non ci lascia mai indifferenti. Attraverso una lingua tagliente e visionaria, ci costringe a confrontarci con la nostra umanità più fragile e più vera.

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In Daddy, Sylvia Plath affronta il rapporto complesso e devastante con la figura paterna, trasformandolo in una sorta di rito esorcistico, un addio feroce e liberatorio. Questa poesia è uno dei suoi testi più potenti e controversi, un viaggio nella psiche di una donna che ha vissuto la perdita del padre come una ferita mai guarita, una frattura che ha segnato profondamente tutta la sua vita e la sua poetica.

Scritta in versi duri e ritmati, Daddy si presenta come un dialogo con un fantasma: quello del padre, morto quando Sylvia aveva solo otto anni. La sua assenza diventa una presenza ingombrante, un’ombra costante che si insinua in ogni aspetto della sua identità. Nella poesia, Sylvia usa immagini estreme, quasi scioccanti, comparando il padre a un nazista, mentre lei stessa si identifica come vittima di una persecuzione opprimente. Il padre viene descritto come un tiranno, un essere quasi mitico e terribile, la cui morte ha lasciato un vuoto riempito solo da una sofferenza inconsolabile.

La poesia oscilla tra amore e odio, tra adorazione e rabbia. È come se Sylvia fosse costretta a confrontarsi con la figura paterna, a lottare per liberarsi da un legame che l’ha dominata, quasi fosse una prigionia. La metafora del nazismo e dell'Olocausto, anche se controversa, serve a rendere l’idea di un’oppressione che va oltre la morte, un legame che Sylvia percepisce come un’eredità di sofferenza e subordinazione.

In Daddy, l’immagine paterna si fonde con quella del marito Ted Hughes, in un gioco di riflessi in cui le due figure maschili sembrano sovrapporsi. Il “daddy” diventa così una figura archetipica, simbolo di tutti gli uomini che hanno tentato di controllarla, di imprigionarla, di soffocare la sua voce. Nel finale, Sylvia dichiara di aver finalmente “ucciso” il padre: è un’affermazione simbolica, il tentativo di spezzare una dipendenza emotiva che le ha avvelenato l’esistenza.

La poetica di Sylvia, in Daddy, raggiunge una forza inaudita: è il grido di una donna che affronta le proprie paure, che svela la propria fragilità con una violenza quasi crudele, ma anche con una sorprendente determinazione. La poesia diventa così un atto di emancipazione, un modo per riscrivere la propria storia e prendere il controllo del proprio dolore. È un addio, un lamento, un grido di ribellione, e, infine, una dichiarazione di libertà.

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In Daddy, Sylvia Plath non si limita a narrare il trauma della perdita o l’abbandono paterno; si addentra in un processo di resa dei conti che mescola mito, psicoanalisi e immagini violente. La poesia non è solo una lettera d’addio: è una sorta di tribunale emotivo in cui la figura del padre viene messa sotto accusa, dissacrata e infine distrutta. Plath usa il linguaggio come un’arma, un modo per sfidare e disintegrare il potere simbolico di un uomo che non è più lì, ma che continua a dominare la sua esistenza.

Il ritmo stesso di Daddy è martellante, ossessivo, quasi cantilenante, simile a una filastrocca infantile che si trasforma in un incubo. Ogni verso colpisce come un pugno, scandendo un’ossessione che è stata trattenuta troppo a lungo e che ora esplode in tutta la sua potenza. La struttura della poesia richiama infatti la rabbia di una bambina che non si sente compresa, e che continua a cercare il proprio posto tra il desiderio di riconciliazione e il bisogno di rivalsa. La ripetizione dell’epiteto “daddy” crea un effetto spiazzante, trasformando la parola in qualcosa di inquietante, quasi minaccioso.

Plath attinge a simboli di dolore collettivo – i campi di concentramento, le persecuzioni – per descrivere la propria esperienza personale, come a voler rendere universale la sua sofferenza, come se il suo dolore privato avesse la stessa gravità di una catastrofe storica. Anche se questo accostamento può sembrare estremo, è emblematico della poetica di Sylvia: per lei, il dolore è totale, assoluto, e non può essere ridotto o normalizzato. La sua scrittura ci mostra come la sofferenza individuale possa assumere dimensioni epiche, diventando quasi un mito personale.

La poesia si chiude con un gesto di rottura definitiva: “Daddy, daddy, you bastard, I'm through.” È una dichiarazione finale che brucia, un taglio netto, eppure lascia un senso di ambiguità, come se quella liberazione fosse solo parziale, come se il fantasma del padre fosse destinato a non andarsene mai del tutto.

In Daddy, la poetica di Plath si fa così estrema, violenta e intransigente che diventa difficile separare la sua arte dalla sua vita. La poesia non è solo un testo: è un atto, una ribellione contro una figura onnipotente che ha imprigionato la sua esistenza. Daddy ci mostra una poetessa che non teme di esporre il proprio odio e il proprio dolore, trasformando la scrittura in un rituale di purificazione, un’esorcismo che, anche se doloroso, era forse l’unico modo per cercare la pace.

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I diari di Sylvia Plath sono uno specchio sincero e crudo della sua vita interiore, un viaggio intimo nelle sue paure, nelle sue aspirazioni, nelle insicurezze e nei momenti di gioia fugace. Sono documenti toccanti in cui emerge una voce diversa rispetto alle poesie: non ci sono immagini cesellate o metafore ardite, ma riflessioni nude e dirette, appunti della sua lotta quotidiana per trovare un equilibrio tra le sue molteplici identità. Sylvia è la poetessa brillante, ma anche la moglie, la madre, la figlia e, soprattutto, una donna alla ricerca di un posto in un mondo che spesso sembra volerla schiacciare.

Nei diari, si percepisce una tensione costante tra il desiderio di essere riconosciuta come una grande scrittrice e il bisogno di sentirsi amata e accettata. Sylvia parla con ferocia del proprio bisogno di successo, di fama, del desiderio di brillare, ma al contempo ammette di sentirsi costantemente inadeguata, tormentata da dubbi su se stessa e sul suo valore. Questa ambivalenza, che la spinge a volte a odiarsi, è centrale nei suoi diari: Sylvia sembra intrappolata tra un senso di insoddisfazione cronica e la necessità di dimostrare a se stessa di essere “abbastanza”.

Un altro tema ricorrente è il rapporto con Ted Hughes. I diari rivelano tanto la passione quanto la frustrazione che provava verso di lui, una relazione che la faceva sentire ispirata ma anche incatenata. È affascinante leggere il modo in cui descrive Hughes: lo ammira, ne parla con una venerazione quasi sacrale, eppure, allo stesso tempo, non riesce a liberarsi dalla sensazione di essere messa in ombra, di perdere sé stessa nel ruolo di “moglie di un poeta famoso”.

C’è poi il lato più oscuro: i diari testimoniano i periodi di depressione, le crisi che la colpiscono come ondate inaspettate. Sylvia racconta delle sue battaglie contro i pensieri ossessivi, della fatica di alzarsi la mattina, delle volte in cui si sente sopraffatta dalla vita. Ma c’è anche un senso di speranza disperata, una lotta contro quell'oscurità che la intrappola. Nei suoi appunti, spesso si impone di continuare a scrivere, di cercare il bello anche nei giorni più grigi, come se la scrittura fosse il suo ultimo baluardo contro il nulla.

Leggere i diari di Sylvia Plath è come entrare in un mondo dove la bellezza e il dolore si intrecciano in modo inscindibile. La sua mente è in perenne movimento, alla ricerca di risposte che sembrano sfuggirle, in un ciclo continuo di ambizioni e delusioni. I diari non sono solo pagine private: sono la testimonianza di una donna che ha tentato di dare un senso alla propria esistenza attraverso la parola scritta, una voce che si esprime senza filtri, lasciando ai lettori una traccia della sua complessa, tormentata e straordinaria umanità.

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