La storia di Antonietta Portulano e Luigi Pirandello è una di quelle vicende che sfuggono ai riflettori della grande storia, ma che risuonano in ogni angolo nascosto della letteratura e della vita privata di uno degli scrittori più acclamati del Novecento. È una storia che non ha bisogno di grandi narrazioni epiche o di cronache roboanti, perché il suo dramma si consuma tutto nel silenzio, tra le mura di una clinica psichiatrica e le stanze di una casa vuota. È il racconto di un amore corroso dal tempo e dalla malattia, che si trasforma in una presenza invisibile, costante, ossessiva, un’ombra che si insinua tra le righe di opere immortali e nei pensieri di un uomo che, pur nella gloria, non smetterà mai di essere solo.
Antonietta Portulano non era una donna destinata all’ombra. Figlia di un ricco armatore siciliano, aveva ricevuto un’educazione borghese e, in gioventù, era una figura che non passava inosservata. Dotata di una bellezza sobria ma intensa, di un carattere fiero e di un’intelligenza acuta, aveva tutte le qualità per brillare nell’ambiente aristocratico e borghese della sua epoca. Luigi Pirandello la sposò nel 1894, un matrimonio che sembrava promettere stabilità e serenità, sebbene già allora si dicesse che Antonietta avesse un carattere difficile, incline a improvvisi scoppi d’ira e momenti di forte gelosia. Tuttavia, Pirandello, che all’epoca era ancora un giovane scrittore poco conosciuto, la scelse. Forse per amore, forse per il fascino di quell’unione che avrebbe consolidato la sua posizione sociale. Forse, più di ogni altra cosa, perché in quella donna forte e tormentata intuì un riflesso della propria inquietudine, un’eco di quella tensione interiore che sarebbe poi diventata il cuore pulsante della sua opera.
La coppia ebbe tre figli: Stefano, Lietta e Fausto. Ma la vita familiare, lungi dall’essere una quieta normalità borghese, divenne ben presto un campo di battaglia emotivo. Antonietta mostrava segni sempre più evidenti di squilibri mentali. I suoi attacchi di paranoia si manifestavano con ossessiva violenza nei confronti di Luigi, accusato spesso di tradimenti immaginari o di complotti contro di lei. Le liti divennero quotidiane, al punto che la casa di Pirandello divenne teatro di una guerra domestica che non lasciava scampo. Lui, scrittore in ascesa, cercava rifugio nei libri, nel teatro, nel lavoro incessante, mentre Antonietta si chiudeva in un mondo di sospetti e paure. Il loro rapporto si trasformò in un gioco crudele, una lotta fatta di silenzi pesanti, di parole taglienti e di notti insonni.
Nel 1904, un evento segnò un punto di non ritorno: il crollo finanziario dell’azienda di famiglia dei Portulano. Questo disastro economico gettò Antonietta in uno stato di angoscia e frustrazione da cui non si riprese mai del tutto. La sua mente, già fragile, cedette progressivamente. I sintomi del delirio paranoide si fecero più frequenti, fino a rendere impossibile la convivenza. Pirandello, impotente di fronte alla degenerazione della moglie, tentò per anni di gestire la situazione in casa, ma nel 1919 la situazione divenne insostenibile. Le urla, i sospetti, la disperazione, tutto divenne un peso che nemmeno il più grande dei drammaturghi avrebbe potuto trasformare in parola.
Antonietta fu internata in una clinica psichiatrica, a Roma. Da quel momento, la vita di Luigi Pirandello prese una piega definitiva. Lo scrittore continuò a vivere nella stessa casa in cui Antonietta aveva abitato, ma quelle stanze ora gli apparivano vuote, riempite solo dal fantasma della donna che un tempo amava. Ogni oggetto, ogni mobile, ogni angolo della casa portava il segno di una presenza che, seppur assente, non smetteva di esistere.
All’inizio, Pirandello si recava spesso a visitarla. Affrontava quei corridoi lunghi e spogli con il cuore pesante, sperando di intravedere negli occhi di Antonietta un barlume della donna che aveva conosciuto. Ma ogni volta tornava a casa con il peso di un dolore che lo dilaniava. Antonietta non lo riconosceva, lo guardava come si guarda un estraneo, e nei suoi discorsi frammentati emergevano solo fantasmi e paure. Le sue parole erano spezzate, scollegate, un eco distante di una mente ormai perduta in un labirinto senza uscita.
La disperazione fu tale che, dopo qualche tempo, Pirandello decise di interrompere le visite. Non riusciva più a sopportare quella visione. Ma se lui smise di andare, impose ai figli di continuare a farlo. Lietta, Stefano e Fausto andavano regolarmente a trovare la madre, cercando di colmare quel vuoto con la loro presenza. Ma nulla poteva restituire alla loro madre la lucidità, né a loro un’infanzia o una giovinezza che fosse normale.
Nel frattempo, la fuga divenne per Pirandello una necessità vitale. Ogni viaggio, ogni impegno di lavoro era un’occasione per allontanarsi dalla realtà insostenibile che lo attendeva a Roma. Scriveva febbrilmente, girava l’Europa, cercava nel teatro e nella letteratura un rifugio, ma nessuna distanza sembrava bastare per spegnere il dolore. Il dramma di Antonietta si insinuava nei suoi testi, nelle sue opere teatrali e nei suoi racconti. I suoi personaggi sembravano incarnare quella frammentazione interiore che lo stesso Pirandello viveva. La sua scrittura era un continuo interrogarsi sull’identità, sull’illusione, sull’apparenza che cela la realtà più cruda.
Col passare degli anni, Pirandello si ritrovò sempre più solo. I figli presero strade diverse, e Antonietta restava chiusa in quella clinica, immobile nel tempo. Nel 1934, il conferimento del Premio Nobel per la letteratura rappresentò per Pirandello un riconoscimento straordinario, ma il suo viso non si illuminò di gioia. Anzi, si racconta che alla cerimonia di premiazione a Stoccolma, il drammaturgo apparve cupo, quasi distaccato, come se quel premio appartenesse a un altro.
Due anni dopo, nel dicembre del 1936, Pirandello si ammalò di polmonite. La malattia avanzò rapidamente. A 69 anni, morì nella sua casa romana, solo, come forse aveva sempre vissuto interiormente. Nelle sue ultime volontà, chiese un funerale semplice, privo di qualsiasi sfarzo.
E così fu. Un carro funebre modesto si fermò davanti alla sua abitazione. La bara fu caricata e trasportata al cimitero del Verano, mentre pochi amici e conoscenti restavano a distanza, senza osare accompagnarlo. Le ceneri di Luigi Pirandello rimasero a Roma per più di dieci anni, finché Andrea Camilleri non si batté affinché venissero trasferite in Sicilia, nella terra natale dello scrittore. Nel 1947, finalmente, Pirandello tornò ad Agrigento.
Ora, le sue ceneri riposano sotto un ulivo nella villa di contrada Caos, come aveva chiesto. La sua presenza aleggia ancora lì, tra la terra e il mare, e con lui, forse, anche il ricordo di Antonietta, la donna che, pur restando ai margini della storia, non ha mai davvero abbandonato la sua vita.