lunedì 18 agosto 2025

Hai vissuto nella gabbia senza saperlo: Zolla ti spiega come uscirne



Prefazione. Lo sguardo che disfa

In un tempo in cui tutto pare congiurare perché ciascuno rimanga ben saldo nel proprio ruolo — cittadino, lavoratore, identità riconoscibile, narrazione vendibile — il pensiero di Elémire Zolla si staglia come un silenzioso atto di sabotaggio. “Uscite dal mondo”, l’opera da cui prende avvio questo saggio, non è infatti un manifesto spirituale né un trattato filosofico, bensì qualcosa di più elusivo e radicale: un invito all’invisibilità interiore, al disincanto senza trauma, alla chiaroveggenza mite che smonta, con poche parole essenziali, interi edifici mentali. Il saggio che segue raccoglie e sviluppa questo invito, restituendo al lettore non una spiegazione, ma un’apertura.

Zolla non propone una visione del mondo: semmai indica un gesto, un atto — uscire. Ma da che cosa, e verso dove? La risposta, se c’è, è contenuta già nel primo paradosso: si esce non muovendosi. Si varca la soglia del reale non attraverso l’azione, ma attraverso la disidentificazione. Uscire dal mondo, allora, significa riconoscere che ciò che chiamiamo “mondo” non è una realtà solida, ma una costruzione. Una forma mentale. Una somma di riflessi condizionati, automatismi, opinioni adottate per imitazione o paura. Zolla non denuncia questa gabbia: la osserva, la disegna con precisione chirurgica, e poi — come il ladro gentile dei racconti zen — scompare lasciandoci solo il vuoto, che comincia a pulsare di vita nuova.

Il saggio che avete tra le mani prende sul serio — e al tempo stesso disarma — questa operazione. Non vi troverete né la canonizzazione di Zolla né l’ennesimo tentativo di tradurlo in concetti digeribili: al contrario, ciò che si persegue è una lunga immersione nel ritmo stesso del suo pensiero, che non spiega ma trasferisce, che non insegna ma disvela. Ogni sezione si muove con la lentezza necessaria a stare davanti all’enigma, senza scioglierlo troppo in fretta. Ed è proprio in questa lentezza che l’autore del saggio riconosce e onora l’intelligenza di Zolla: perché ogni vera conoscenza, quando è tale, si spoglia.

Molti lettori moderni — abituati al consumo dell’io, al rafforzamento continuo dell’identità, alla produzione di senso come moneta simbolica — troveranno in queste pagine un tonfo. Non un urto ideologico, ma qualcosa di più perturbante: un invito a non esserci del tutto, a sospendere la coazione al significato, a stare nel vuoto senza paura. Il cuore del saggio non è una tesi, ma un gesto: guardare senza afferrare. Lasciar essere le cose come appaiono, e in questo apparire riconoscere il vuoto che le sorregge.

Non è un caso che Zolla evochi lo specchio, l’ombra, lo spazio, e non idee più definite. Lo specchio non giudica, l’ombra non grida, lo spazio non trattiene: tutti e tre indicano una presenza non personale, un fondo impersonale di consapevolezza che precede ogni azione. Ed è in questa chiave che si può leggere il lungo confronto con le tradizioni orientali, con Nietzsche, con Heidegger, che nel saggio non sono mai citati come autorità ma come compagni di cammino. Zolla non costruisce un sistema: lascia intravedere un attraversamento.

La bellezza del saggio sta nel saper tradurre questa intuizione in una prosa che non cade mai nella semplificazione: ogni capitolo prende un filo e lo segue con pazienza, fino a ritrovarsi — senza clamore — là dove tutto si scioglie. Ecco allora che l’identità, da fondamento, diventa illusione da contemplare con tenerezza; che il corpo, da tempio o prigione, si fa onda che non trattiene nulla; che il tempo, da freccia lineare, si riconosce nel battito eterno dell’istante. Non è una fuga dal reale, questa: è uno sguardo che disfa il reale senza rinnegarlo.

Una delle intuizioni più forti, che il saggio mette in rilievo, è che non serve una grande catastrofe esistenziale per vedere tutto questo. Serve solo un lieve scarto. Un momento di chiaroveggenza, come quello che dettò a Arthur Schnitzler i versi finali del brano di Zolla: “Sempre giochiamo, chi lo sa è saggio.” È proprio qui che si annida la rivoluzione silenziosa dell’autore: nella risata quieta, nel disincanto privo di amarezza, nella delicatezza con cui mostra che si può smettere di combattere, senza per questo rinunciare a vedere.

Non si entra in questo saggio per restare uguali. Ma nemmeno per diventare qualcun altro. Piuttosto, per scoprire — tra una frase e l’altra, tra un silenzio e un’intuizione — che non c’è nessuno da essere. E che proprio in questa assenza si apre, senza pretese, la libertà.

Non una libertà da esercitare. Ma una libertà che si è.




L'ombra, lo specchio, lo spazio: uscire dal mondo secondo Elémire Zolla

I. L'atto più bello

«Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l'atto più bello che si possa compiere». Elémire Zolla apre con questa frase un varco su una visione del mondo che è insieme esistenziale, metafisica, e radicalmente antidogmatica. Quel che qui chiama “spazio” è un insieme stratificato di abitudini, automatismi culturali, assuefazioni linguistiche, condizionamenti morali e sociali che, nel tempo, hanno deformato la percezione dell’essere umano. Non si tratta di una storia da conoscere, ma di un’inflessione da cui liberarsi. L’uscita da questo spazio, dunque, è un gesto di libertà suprema — tanto più perché in apparenza minuscolo, interiore, privo di fanfare. Non si esce dalle catene del tempo con una rivoluzione, ma con uno scarto di percezione.

Ciò che Zolla propone non è una fuga, ma una trasformazione della coscienza: un risveglio da uno stato di sonno profondo che ci ha fatto scambiare la superficie del mondo per realtà. A questo risveglio egli non attribuisce forme spettacolari: niente estasi, niente fuochi mistici, niente illuminazioni improvvise. È una chiaroveggenza lieve, dice. Un momento in cui le sovrastrutture si sciolgono, e si vede con limpidezza ciò che si è e dove si è.

II. L’incurvamento del tempo

L’idea che la storia sia una forza deformante piuttosto che costitutiva è uno dei punti più sovversivi del pensiero di Zolla. La cultura occidentale moderna ha posto il tempo e la storia al centro della propria identità: siamo ciò che siamo perché veniamo da un passato, perché abbiamo una genealogia, un’evoluzione. In questo schema, liberarsi dal passato è considerato ingenuo o pericoloso. Ma Zolla propone un altro sguardo: la storia è ciò che ci ha incurvati, come una colonna vertebrale adattata a un carico sbagliato.

L'uscita dal mondo non è una regressione ma un raddrizzamento, una verticalità che riconosce la pressione del tempo come estranea alla vera identità dell’essere umano. Eppure, per compiere questo gesto, occorre sospendere ogni legame con ciò che ci tiene dentro la curva: interessi, paure, bisogni. Il minimo desiderio è già una zavorra, già un ritorno alla curva. La libertà si manifesta solo nel distacco radicale — non per disprezzo, ma per lucidità.

III. Il momento della chiaroveggenza

Ma come si giunge a questo stato di libertà interiore? Zolla è chiaro: non serve fuggire dal mondo, né rifugiarsi in una grotta o in una dottrina. Serve uno sguardo spassionato. Una sospensione momentanea della volontà. È quando l’essere umano si ritrae dai suoi automatismi, anche solo per un attimo, che può raccogliere i dati, disporli nell’ordine giusto, e intravedere la vastità del possibile al di là delle gabbie.

Questa breve chiaroveggenza non è un privilegio mistico, ma una facoltà accessibile, seppure rara: il frutto di uno svuotamento dell’io desiderante. Allora accade una cosa semplice e immensa: si vede. E vedere, in questo caso, è già un atto trasformativo. Non serve cambiare la realtà esterna, basta vedere il recinto perché questo, di colpo, perda potere.

IV. Nietzsche, Heidegger e l’eterno ritorno

Nella riflessione di Zolla si innesta un accostamento che ha il sapore di un lampo: il superuomo nietzschiano, filtrato da Heidegger, e il liberato dell’induismo coincidono. Questa coincidenza non è solo concettuale ma esperienziale. Entrambi, infatti, si sono redenti dalla volontà di vendetta, vale a dire hanno cessato di opporsi alla realtà del tempo, dell’accadere, dell’eterno ritorno dell’identico.

In Nietzsche, questa accettazione è la prova ultima della forza d’animo: amare il proprio destino, accettare l’infinito ripetersi dell’uguale, senza sperare nel cambiamento, senza bramare redenzione. Heidegger, interpretando Nietzsche, ne fa un punto d’arrivo ontologico: il superuomo è colui che abita pienamente il tempo dell’essere. In Zolla, però, tutto questo risuona con un altro archetipo: l’uomo liberato della tradizione vedica, che ha spezzato l’identificazione con il corpo, con la mente, con le illusioni dei sensi. In entrambi i casi, si tratta di un essere che non reagisce più, che ha cessato di essere progettuale, e si limita a essere, nella pienezza del presente.

V. L’io e le sue illusioni

Uno dei passaggi più potenti del brano è quello in cui Zolla smonta l’identificazione tra l’io e le sue forme apparenti. L’io non è il corpo, dice, perché il corpo muta, si ammala, muore. E anche se diciamo “il mio corpo”, sappiamo intuitivamente che noi non siamo il corpo. Ma nemmeno la mente è l’io: i pensieri, le immagini, le associazioni si interrompono nel sonno profondo — eppure l’io in qualche modo persiste, al di là del pensiero.

Questa intuizione è presente in molte tradizioni spirituali, ma Zolla la tratta con un rigore anti-mistico: non basta raggiungere l’illuminazione o la beatitudine, perché anche queste possono essere illusioni transitorie. Se qualcosa è “raggiunto”, può anche essere perso. Dunque non può essere il vero io. Il vero io non è qualcosa da ottenere, ma qualcosa che sempre è.

VI. L’ombra e lo specchio

A questo punto, il testo si fa quasi poetico, eppure resta rigoroso nella sua logica. L’io vero è come un’ombra immancabile, come uno specchio che riflette ogni immagine ma non ne è toccato. È lo spazio stesso in cui le cose accadono, ma che non è mai le cose. Questa metafora dello specchio e dello spazio viene dalla tradizione vedanta, ma Zolla la rielabora con un’essenzialità disarmante.

L’io è ciò che non ha qualità, non ha forma, non ha contenuto, ma porta verso gli oggetti. Non è il conoscente, né il conosciuto, ma il conoscere stesso. Questa è un’idea quasi impossibile da afferrare con la mente razionale — e infatti Zolla non cerca di dimostrarla, ma solo di indicare, con parole limpide, ciò che in noi potrebbe accorgersi di essa. L’io non è un oggetto di conoscenza: è la luce stessa che rende possibile conoscere.

VII. Il gioco e la sapienza

Ed ecco allora che, alla fine del testo, compare Arthur Schnitzler, con quattro versi di mirabile leggerezza. “L’uno nell’altro scorrono sonno e veglia, / verità e menzogna. / Non c’è certezza, / niente sappiamo degli altri o di noi. / Sempre giochiamo, chi lo sa è saggio.” Questi versi sono la chiusura perfetta per la visione zolliana: la realtà è un intreccio ininterrotto di sogno e veglia, di illusione e apparente verità. Non c’è nulla da afferrare, nulla da possedere.

Il saggio, allora, non è colui che conosce più degli altri, ma colui che ha cessato di pretendere certezze. Colui che ha visto il gioco e non cerca più di uscirne, perché sa che uscirne è un’altra forma di giocare. È il punto in cui la chiaroveggenza si fonde con l’ironia. Non si tratta di una rinuncia, ma di una libertà più grande: la libertà di vedere senza più reagire, senza più giudicare.

VIII. Il distacco senza fuga

Importante è anche ciò che Zolla non dice, ma che si intuisce per tutto il testo: questa uscita dal mondo non comporta l’abbandono del mondo. Il liberato non è colui che si ritira dal sociale o dalla vita quotidiana, ma colui che vi abita senza esserne preso. Non è lo stoico che resiste, ma il presente che osserva. Non è il mistico che ascende, ma l’essere che si accorge. È un distacco senza fuga, una presenza senza identificazione.

In questo senso, il testo è anche una critica silenziosa alle spiritualità del consumo, alle nuove religioni dell’io che promettono estasi, potere, autoaffermazione. Il liberato, dice Zolla, non desidera nemmeno l’illuminazione, perché anche quella è una forma sottile di ego. Il suo sguardo è vuoto e pieno insieme, come quello dello specchio.

IX. Conoscere e basta

Ciò che resta, alla fine, è il “conoscere”. Non il conoscere come accumulo, né come processo. Ma come atto puro. Una consapevolezza che non ha bisogno di contenuti per esistere. Zolla non ci dice che dobbiamo diventare qualcun altro, né che dobbiamo intraprendere un percorso. Ci dice che basta accorgersi. E questo “basta” è tremendo e meraviglioso: è tutto, eppure non richiede nulla.

L’io, dice, è ciò che si situa fra sonno e veglia, fra un oggetto e l’altro. È la soglia, lo spazio fra. E in questo fra si apre tutta la potenza del possibile. Non c’è da credere, da fare, da ottenere. C’è da vedere.

X. Uscire dal mondo, restando nel mondo

Zolla ha chiamato il suo libro Uscite dal mondo, ma leggendo queste pagine si capisce che il mondo da cui ci chiede di uscire non è il mondo reale, ma il mondo costruito dalle nostre reazioni, dalle nostre paure, dalle nostre identificazioni. Il mondo, come appare all’occhio del liberato, è lo stesso — ma è visto da un altro luogo. È il gioco, non più la prigione.

E allora la vera “uscita” è una trasfigurazione dello sguardo. Non c’è bisogno di rompere, né di ribellarsi. Basta osservare spassionatamente. Basta una lieve chiaroveggenza. Basta sapere che si gioca. E allora, forse, si può restare nel mondo senza esserne posseduti. E amare tutto, persino il ritorno dell’uguale.


Lo specchio del conoscere: Elémire Zolla e la dissoluzione dell’identità

XI. L’identità come finzione

L’identità personale, secondo Zolla, è una costruzione instabile e transitoria. Il soggetto moderno la difende con tenacia, come fosse un bene inalienabile, ma ciò che chiamiamo “io” è un insieme composito di memorie, condizionamenti, proiezioni. La coscienza ordinaria, quella che dice “io sono questo”, è un’eco, non una voce originaria. Eppure, l’Occidente ha edificato intere civiltà sull’esaltazione dell’individuo come principio primo. In questa ottica, smascherare l’identità significa toccare un nervo scoperto: se l’io non è ciò che credevamo, chi siamo?

Zolla non ci invita a rispondere con nuove definizioni, ma a far crollare la domanda. La vera liberazione non è trovare un altro sé, più vero, più autentico — è vedere che non c’è nessun sé da trovare. E che questo non è affatto un vuoto tragico, ma una condizione di leggerezza, come lo spazio tra le cose. L’identità, allora, si dissolve senza tragedia. Come una maschera che cade con garbo.

XII. Il sapere che illude

L’epoca in cui Zolla scrive è quella dell’accumulazione frenetica di saperi. La conoscenza scientifica, storica, sociologica, psicologica si moltiplica, e con essa l’illusione che sapere equivalga a comprendere. Ma per Zolla il sapere, se non si fonda su un atto di distacco interiore, è un’altra forma di prigione. È il sapere del labirinto, che si ingarbuglia sempre più senza mai uscire dal proprio recinto.

Solo un tipo di sapere merita questo nome: quello che vede l’illusione del sapere stesso. Il vero conoscere, allora, non si attacca a nulla. Non è dogmatico, non ha interesse. È uno sguardo limpido, senza oggetto, che attraversa tutte le forme e le lascia essere. È per questo che Zolla può citare con tanta leggerezza uno scrittore come Schnitzler accanto a un filosofo come Heidegger: per lui sapienza e letteratura, mistica e ironia convivono, si specchiano l’una nell’altra.

XIII. Il tempo come farsa

Una delle implicazioni più profonde del pensiero di Zolla riguarda il tempo. Non il tempo cronologico, ma la temporalità interiore con cui ciascuno struttura la propria vita. Per il moderno, il tempo è un vettore: si va da un punto a un altro, si cresce, si migliora, si evolve. È un tempo narrativo, finalizzato, carico di aspettative. Ma per Zolla questo è il tempo della trappola: ogni passo verso il futuro è un altro passo nella gabbia.

Il liberato, invece, ha interrotto questo vettore. Vive il tempo come ripetizione, come eterno ritorno. Non nel senso che tutto si ripeta uguale — ma nel senso che nulla di ciò che accade ha un prima o un dopo decisivi. Ogni istante è il momento, l’unico possibile. E non c’è progresso, né retrocessione: c’è solo presenza. Una presenza che si espande come uno specchio, senza direzione.

XIV. Il corpo come illusione sensibile

Zolla è radicale anche nel modo in cui decostruisce l’identificazione col corpo. Non si limita a ripetere i mantra della filosofia indiana (“il corpo non è il Sé”), ma cerca di portare il lettore a un punto d’intuizione diretta. Il corpo, dice, è mio ma non sono io. È qualcosa che ci viene affidato, come una casa temporanea, ma di cui non possiamo assumere la piena identità. Né dobbiamo farlo.

Tuttavia, questo non implica disprezzo del corpo. Al contrario, è proprio nel distacco da esso che si può vivere il corpo con pienezza e senza paura. Solo chi non si identifica col corpo può amarlo davvero, perché non lo usa come veicolo del narcisismo o della colpa. Il corpo diventa, allora, un evento, non una definizione. È come un’onda che sorge nello specchio della coscienza e poi ritorna. Niente da trattenere, niente da temere.

XV. L’invisibile tra le cose

Il vero soggetto del testo di Zolla, però, non è il corpo né il pensiero, ma quello che sta in mezzo. Lo spazio tra sonno e veglia, tra un oggetto e l’altro, tra una parola e la successiva. È lì che si annida l’io vero, non come identità ma come funzione silenziosa. Questo spazio non è un vuoto, ma una presenza sottile, una vibrazione che non si può toccare ma che tutto attraversa.

In termini spirituali, potremmo chiamarlo testimone, ma Zolla evita ogni tecnicismo. Preferisce immagini: lo specchio, l’ombra, il vuoto che porta verso. Questo vuoto non è assenza, è la condizione di possibilità di ogni presenza. Ed è lì che si può restare, se si ha il coraggio di non volere nulla.

XVI. Il disincanto come suprema sapienza

La parola chiave del pensiero di Zolla è forse disincanto. Ma non nel senso di cinismo o disillusione. Il disincanto, per lui, è un atto di grande lucidità e persino di tenerezza: è vedere che ogni forma è una maschera, e non amare meno il mondo per questo, ma amarlo meglio. Il disincanto dissolve il fanatismo, l’attaccamento, la paura. Rende ogni cosa trasparente — e dunque giocosa.

Il sapiente è colui che ha visto che si gioca. E che ha smesso di voler vincere o convincere. Gioca con il mondo, senza esserne preda. Parla, ma sa che le parole sono vuote. Ama, ma sa che nulla può essere trattenuto. È, senza bisogno di esserci.

XVII. Il riso del liberato

Nel silenzio dello specchio, dice Zolla, si può anche ridere. Ecco uno dei tratti più sorprendenti del suo pensiero: non c’è serietà nell’illuminazione. O meglio, c’è una serietà che non ha più bisogno di gravità. Il liberato non si prende sul serio, perché ha visto l’assurdo della serietà. Ride come ride un vecchio saggio zen. Non perché nulla abbia senso, ma perché il senso non si può possedere.

Questo riso non è sghignazzo né derisione. È uno stato di grazia: una gioia senza oggetto, che nasce dal fatto di non dover più fingere nulla. E forse è questa la meta più profonda della filosofia zolliana: un riso che attraversa il tempo, che scioglie ogni identità, che gioca con le forme senza più cadere nei loro tranelli.

XVIII. Contro l’industria del sé

In un mondo che vende esperienze, crescita personale, performance spirituali, l’opera di Zolla è una mina piazzata sotto l’intero edificio. Il suo invito è a cessare ogni sforzo, a smascherare ogni anelito, a vedere che la corsa verso il “sé autentico” è solo un altro gioco della mente. Persino la spiritualità, dice implicitamente Zolla, può diventare una prigione se è praticata come strategia.

L’uscita dal mondo è dunque un gesto improduttivo, impensabile per l’ideologia dominante. È uno svuotamento, non un empowerment. Ma proprio per questo è radicale. In un mondo che chiede di essere visibili, vincenti, realizzati, Zolla propone l’invisibilità come forma suprema di presenza. L’ombra, lo specchio, il vuoto.

XIX. Oltre le parole

C’è, infine, un ultimo punto essenziale. Il linguaggio. Zolla lo usa con maestria, ma sempre contro se stesso. Ogni parola che scrive è una corda per scendere nella profondità, ma anche un pericolo, perché può diventare idolo. La parola, dice, è utile solo se si sa che è illusione. Non c’è concetto che possa contenere l’io vero. Non c’è formula, non c’è dottrina.

La scrittura di Zolla ha qualcosa del koan: non dice, ma allude, non spiega, ma porta altrove. È un invito all’esperienza diretta, al silenzio che segue la lettura. E forse è proprio questo il dono più grande del testo: che alla fine, ci lascia muti.

XX. Il possibile si spalanca

E allora, che resta? Solo ciò che era già lì. Lo specchio, l’ombra, lo spazio. Non un’altra realtà da conquistare, ma una realtà che sempre è stata presente, sotto le incrostazioni del mondo. L’uscita non è un luogo, ma uno sguardo. Non un tempo, ma un istante eterno. E da quell’istante, tutto si apre.

Zolla chiude la porta del mondo, ma non per sfuggirgli. Lo fa per vederlo meglio. E quando la porta si richiude, ciò che si spalanca non è un altrove, ma il possibile.




Postfazione. L’atto più bello

«Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l’atto più bello che si possa compiere». Questa frase, che apre il saggio, torna alla fine come un sigillo. Ma a differenza del suo apparire iniziale — ancora come promessa, quasi come sogno — ora la sentiamo sedimentata, provata, verificata nella lunga traversata del pensiero. Quel gesto, che sembrava utopico, si è rivelato possibile. Non facile, non definitivo, ma possibile. Ed è forse questa la più grande eredità del lavoro che abbiamo attraversato: una possibilità che non è evanescente, ma concreta nella sua radicale semplicità.

Zolla non è mai stato autore di compromessi. Il suo pensiero non mira a convincere, non si cura di conquistare lettori, non si pone l’obiettivo di modernizzarsi per risultare “attuale”. Eppure — e proprio per questo — la sua voce oggi risuona con forza singolare. In un mondo che corre verso l’accelerazione, la prestazione e il rumore, egli parla a partire dal silenzio. In un’epoca di visibilità ossessiva, ci invita all’invisibilità come forma suprema di liberazione. In un tempo che ha paura della nozione di “verità”, Zolla non teme di cercare l’essere. Ma, attenzione, non lo fa da filosofo dogmatico: lo fa da sapiente disincantato, che ha attraversato le immagini e le ha lasciate cadere, una a una.

Il saggio che chiude queste pagine è costruito come un dialogo interno, una lenta epifania che si fa percorso. Non costruisce un edificio, ma apre porte, apre finestre, fa respirare. Ed è proprio in questo scarto rispetto al pensiero sistematico che ritroviamo lo stile zolliano più autentico: quello che unisce il rigore al mistero, la cultura alla rinuncia, la vastità all’invisibile. Zolla leggeva i Veda, Nietzsche, Plotino, Eckhart e i mistici sufi non per comporre un’enciclopedia del sacro, ma per indicare una sola cosa, semplice e scandalosa: che la verità non si trova fuori. E non si trova nemmeno dentro, se per “dentro” si intende una soggettività in cerca di gratificazioni. La verità, come suggerisce il saggio, si trova al di là. Ma per raggiungerla occorre non muoversi. Occorre fermarsi. Occorre disidentificarsi.

Questa parola — che oggi risuona nei contesti dello yoga, della psicoterapia, della mindfulness — in Zolla non è un'espressione tecnica. È un'esperienza. Disidentificarsi significa smettere di coincidere con il ruolo, il pensiero, la paura, il desiderio. Significa accorgersi che l’“io” non è ciò che crediamo: non è il corpo, non è la storia, non è il pensiero. È piuttosto il conoscere stesso, lo spazio che precede ogni contenuto. Il saggio, con grande delicatezza, ci guida fino a questa soglia. E lì si ferma. Perché oltre quel punto non si può più parlare: si può solo essere.

Che valore ha oggi un pensiero così? Non è la domanda giusta. Zolla ci ha insegnato che il pensiero non vale “in quanto utile” o “in quanto attuale”: vale perché è vero. O meglio, perché risuona con ciò che è eterno nell’umano. In questo senso, Zolla non è un autore del passato, ma del futuro. Appartiene a quella stirpe di guardiani del tempo che non hanno timore di perdersi nell’inattuale, perché solo l’inattuale custodisce ciò che non muta. Nietzsche, Simone Weil, René Guénon, Giordano Bruno, Nagarjuna, Meister Eckhart: Zolla dialoga con questi spiriti in una lingua che non è né occidentale né orientale, né moderna né arcaica, ma profondamente umana.

Il saggio, nella sua seconda metà, ci ricorda anche che questa conoscenza non è per pochi eletti. Al contrario, è per chiunque sia disposto a vedere. E vedere non richiede titoli, non richiede sforzo: richiede sguardo. Quello stesso sguardo che fa sì che “i recinti si aprano” e l’immensa distesa del possibile si spalanchi davanti a noi. Non come evasione, ma come presenza. Non come utopia, ma come realismo estremo.

Ecco perché “l’atto più bello” non è un’azione, ma una rinuncia. Rinuncia all’identificazione, all’automatismo, alla vendetta, alla paura del tempo. L’accettazione dell’eterno ritorno, come ci insegna Nietzsche, non è una dottrina: è una condizione spirituale. Non c’è più nulla da combattere, nulla da cambiare: solo da vedere. E chi vede, ha già cominciato a uscire.

Non ci sono conclusioni da trarre. Solo una postura interiore da assumere. E forse — alla fine — anche questa verrà lasciata andare. Perché anche “essere liberi” può diventare una prigione, se si attacca al concetto. Ma finché le parole ci servono come trampolino, lasciamole fluire.

Che il lettore, giunto sin qui, non chiuda questo libro con una risposta, ma con un silenzio nuovo. Uno spazio che si è fatto più ampio, più leggero, più vero. Uno spazio, forse, dove “l’uno nell’altro scorrono sonno e veglia, verità e menzogna” — e dove sapere che si gioca non significa fuggire, ma iniziare, finalmente, a vivere.