antefatto: Eliogabalo si chiamava in realtà Sesto Vario Avito Bassiano e salì al trono imperiale con il nome di Marco Aurelio Antonino. Il soprannome Eliogabalo gli deriva dal nome del dio solare di Emesa, El-Gabal, poi adorato a Roma con il nome di Deus Sol Invictus.
Bo Summer’sL’anarchista
Ho conosciuto Antonin Artaud nel modo più semplice: ho iniziato a leggerlo.
A me non piacciono i baci, ciò che mi piace è il gusto dei baci nei baci.
E aveva dichiarato che mai sarebbe morto in un letto. Infatti è morto rannicchiato in fondo a un letto. Aveva anche detto che non sarebbe mai morto come tutti gli altri, che il suo corpo sarebbe andato in pezzi. Mah, forse doveva venire accolto in una casa di cura privata in modo tale che la sua salute, e la sua alimentazione, fossero costantemente sotto osservazione, e che, in caso d’incidente, il fatto di essere pensionato d’una clinica evitasse ogni nuovo rischio di peggioramento. Ma non c’erano i soldi. Restava pochissimo tempo.
Lentamente era giunto a questa cosa assai rara: aveva saputo conferire un senso alla propria esistenza, e in questo modo un senso alla vita. La sua, la mia. Tutto quello che diceva, nel momento stesso in cui lo diceva, sembrava d’una tale precisione, d’una tale verità, ed era egli stesso a tal punto quella verità che lo si ammetteva totalmente.
Le fonti romane, tutto il lungo elenco di scelleratezze dell’imperatore che fa rimanere a bocca aperta.
Artaud occupava, assieme a tutte le pubblicazioni che avevo, con non poca fatica, trovato, una parte non indifferente e di prestigio dello scaffale della mia libreria, in fondo alla stanza, ai piedi del mio letto. L’erba non era stata ancora tagliata, fuori, alta sotto gli alberi, sembrava di essere lontano da casa mia. Una radura incantata. Una situazione, quasi, non benevola. Fin dal momento in cui bussai alla porta poetica di Antonin Artaud ebbi l’impressione di entrare in un altro Mondo. Bisognava avermi sentito pronunciare, anche una sola volta, questa semplice frase: Avanti, signor Artaud, entri pure!, per capire. La frase stessa cambiava il disegno delle mie giornate, si caricava in modo speciale, pronunciata in maniera tanto netta. Le sillabe scandite con una precisione tanto maniacale che si aveva l’impressione di lasciare il posto in cui ci si trovava per entrare “altrove”.
Eliogabalo. L’imperatore, il suo ingresso a Roma paragonato ad un rito potente, ma invertito, dissolutore. Una prospettiva metafisica assolutamente interessante, con molti punti di contatto con il pensiero tradizionalista.
Ha una così precisa conoscenza del proprio corpo che, ne sono certo, l’ha sempre saputo che si sarebbe malato. Da alcuni mesi, parla spesso della bestia che gli rode l’ano. Ed è anche per questo, ne sono convinto, che prende antidolorifici in ogni momento. Preso in forte dose, l’antidolorifico lo getta in uno stato comatoso che lo annienta, ma deve annullare i suoi dolori.
Chi sono? Da dove vengo? io sono Antonin Artaud e che io lo dica come io so dirlo vedrete il mio corpo attuale volare in frantumi e ricomporsi sotto diecimila aspetti notori un corpo nuovo che non potrete dimenticare mai più.
Cosa dire di meglio, come dire altro?
Crede che mi lasceranno dire delle frasi complete?
Da molto tempo, si lamenta di dolori intestinali, intermittenti. Lancinanti. Ma la sua eccessiva sfiducia nei confronti della medicina impedisce di consigliargli di farsi vedere da uno specialista. Se si tenta di farlo, risponde accusando gli anni di cure che gli hanno distrutto l’apparato digerente e il fegato. Questa spiegazione può sembrare una giustificazione ma, in realtà, non lo è. Bisognerebbe essere presenti quando gli arrivano improvvisi i dolori, per capire. Pertanto, quando gli spasmi aumentano, quando, di botto, iniziano le emorragie fecali, quando comincia, di sua iniziativa, a prendere medicine in quantità eccessiva, riesco a stento a convincerlo ad andare da un gastroenterologo nostro amico che, fin dal primo esame, sospetta il sospettabile. Necessarie delle radiografie. Affinché egli acconsenta, dobbiamo insistere lungamente.
Gli storici romani, Lampridio in testa, non fanno altro che annotare le turpitudini e le sconcezze del suo comportamento d’imperatore, con tono inorridito e schifato. Davanti a lui vi è il Fallo, tirato da trecento fanciulle dai seni nudi che precedono i trecento tori, oramai intorpiditi e calmi e, dietro ancora, le lettighe delle tre madri: Giulia Mesa, Giulia Soemia e Giulia Mamea.
Dopo avermi interrogato con molta discrezione su ciò che facevo o avrei desiderato, intraprese la strada con me fino al cancello del parco. Mi disse di continuare a leggere. Anzi, me lo consigliò.
È così che ho conosciuto Antonin Artaud, leggendolo. Su consiglio.
Qualche giorno più tardi, il mio amico venne a pranzo a casa mia. Eravamo numerosi e giovani a quel tempo. Anche belli, almeno un po’. Cioè così mi pareva. Senza dubbio si trovò a suo agio tra di noi, era bello pure lui, e cominciò a venire tutti i giorni; se era troppo stanco per uscire, faceva telefonare a uno di noi di andarlo a trovare subito.
E non mi piacciono i coglioni, ciò che mi piace è il gusto dei coglioni nei coglioni.
Io non sapevo della sua malattia, in quel momento, lo seppi solo più tardi.
Davvero è stato lui ad insegnarmi come leggere un poema. Avevo avuto qualche velleità di fare del teatro, di scrivere per il teatro. Avevo imbastito un riprovevole testo dal titolo “Il Re”, ed era la storia di una rivoluzione fuori dalle mura d’un palazzo sfarzoso, un Re morente, il suo giullare, e altri personaggi. Nemmeno io ne comprendevo pienamente il senso, allora. Il tutto doveva essere interpretato, nel mio intento, da un’unica voce femminile, quella di Laura Betti che pensò bene di morire invece di interpretare quel testo. Capii però presto che, comunque, sarebbe stata scoraggiata da quel mio lavoro e dalla scrittura che si insegnava nei corsi ai quali avevo partecipato, se mai le fosse pervenuto. Avevo detto al mio amico del mio disappunto verso me stesso; la cosa gli fece piuttosto piacere e decise di farmi esercitare con la lettura di Artaud.
È il trionfo del Caos, dell’anarchia, della dissoluzione.
È troppo, Roma stessa non può più reggere a Eliogabalo.
Eliogabalo completamente succube della madre, Giulia Soemia, che non prende alcuna iniziativa di governo senza il suo consenso, mentre quella vive da meretrice e pratica ogni genere di lussuria; Eliogabalo che fa sedere la madre al Senato; Eliogabalo che istituisce un senatino delle donne; Eliogabalo che si veste da prostituta e si vende per quaranta soldi nelle strade di Roma; Eliogabalo che fa eleggere un ballerino a capo della sua guardia pretoriana; Eliogabalo che a Nicomedia si da alla più sordida depravazione, abbandonandosi con altri uomini a rapporti omosessuali attivi e passivi; Eliogabalo che sposa una vergine Vestale e profana i sacri culti romani. Eliogabalo entra in Roma da dominatore, ma col didietro… Terminate le feste dell’incoronazione segnate da questa professione di fede pederastica… s’insedia con la nonna, la madre e la sorella di quest’ultima, la perfida Giulia Mamea, nel palazzo di Caracalla. Entra nella Città Eterna nell’autunno del 219. L’imperatore proviene proprio da quel pantano matriarcale, da Emesa, sacerdote effeminato di un culto solare posto sotto il dominio della Dea Madre, della Luna, del Femminile. L’anarchico incoronato, anela a quell’Unità originaria delle cose, a quel Caos primordiale e, per ripristinarlo, spinge al massimo la via invertita della sovversione. Attore e spettatore, nello stesso tempo, di un terribile processo metastorico. Insomma, il dipinto di un’epoca affascinante e terribile, l’epoca dello sfacelo del grande Impero Romano, l’epoca del tracollo dell’Ordine, l’epoca della lotta fra il Femminile e il Maschile, l’epoca dell’esplodere del Caos.
Entrai. Vidi un uomo in piedi che scriveva, un quadernetto abbandonato sul tavolo. Girò la testa, guardandomi. Benché fosse di media statura, il modo che aveva di voltare la testa, la vivacità del suo sguardo, l’azzurro vivo degli occhi, rendevano il contegno imponente. Nonostante l’eccessiva magrezza, gli stenti segnati sul volto da anni di terapie intensive, era ormai senza denti, c’era in lui qualcosa di regale. Ho esitato prima di usare questa parola, ma è la sola che mi sembri giusta, d’altra parte, per identificare il mio amico morente che mi aveva iniziato ad Artaud.
Mi aveva detto che tutti i testi di Antonin Artaud: non si possono leggere che scandendoli, seguendo un ritmo che il lettore stesso deve trovare per capire e per pensare ma questo vale se arriva, di colpo, il ritmo e che se viene cercato, sillaba per sillaba, non vale più niente, scritto qui non vale più nulla, è polvere. Quindi il tuo testo teatrale va riscritto completamente, va respirato ancora. Perché possa vivere serve un altro elemento che non si trova in quelle parole che hai scritte e che sono come perdute nel vuoto della mancanza di respirazione.
Era solo, quel giorno, mentre moriva, il mio amico: credo non avrebbe desiderato testimoni. Né il conte impensabile di Lautréamont, né Edgar Poe sulla sua bocca d’urlo, né Gérard de Nerval l’appeso, nemmeno Charles Baudelaire non lo volle veder morire. Il mio amico era una carcassa che, un tempo, era stata l’unica voce che mi disse: sai chi è Charles Baudelaire? Tutta quella tribù folle e delirante che aveva amato leggere. Tutto il senso della sua fiera vita fino a quel giorno dell’addio ai viventi.
Evidentemente una sola cosa era ancora umanamente possibile per alleviare le sue pene, quando avesse troppo sofferto: somministrargli tutto il necessario per non sentire il dolore.
Fin dalla prima lettura seppe farsi amare; gli consegnai le chiavi del portone grande di ingresso al mio cervello dicendogli: Signor Artaud, Lei è a casa sua, ecco le chiavi.
Forse lo troverete sorprendente. Lo so che l’immagine che si dà è spesso lontana dalla realtà. Esigo molto da quelli che ho amato, ma sono pieno d’attenzioni, gentilissimo. E pure questo quadro è più che reale.
Il mio amico, poco tempo dopo il nostro primo incontro, venne un pomeriggio a casa, brandendo un enorme mazzo: Questo bouquet rappresenta un’intera coscienza, la tua. Ho scelto i fiori uno ad uno e li ho composti io stesso, disse offrendomeli. Facendomi notare ciascun fiore, lo ricompose davanti a me: al centro, due rose, una bianca, e l’altra rosa. Che il bouquet cominciasse con due rose era per lui di estrema importanza. Al di sopra tre papaveri, uno giallo, uno rosso, il terzo screziato di rosso e di bianco. Una dalia color fuoco ed una dalia rosa, a destra e a sinistra due margherite bianche. Una margherita rosa nel basso del bouquet circondata da rami di quercia e di asparago. Io non conosco il linguaggio dei fiori. Avrei potuto conoscerlo e non mi avrebbe insegnato nulla. Quello che so è che mai avevo ricevuto un bouquet che ponesse tanti problemi, che dicesse tante cose, che probabilmente mai più ne riceverò uno simile.
Gli assicurai che avrei fatto di tutto per leggere esattamente quello che voleva che io leggessi. Mi fissò allora, per il giorno dopo, un appuntamento al quale dovevo recarmi con il primo libro acquistato desideroso di fare questa iniziazione. Lo misi a parte del progetto di leggere tutti i volumi che mai avessi trovato di Artaud. Non rispose, mi offrì delle noccioline abbrustolite e salate tirandole fuori da un piccolo pacchetto che teneva in tasca. Poi mi parlò del caminetto, del buco nero che esso apriva nella stanza, quel buco nero che si ritrova in Artaud le mômo, e si rimise a scrivere. Seduto su una sedia di fronte a lui, aspettavo. Pensavo che avesse completamente dimenticato la mia presenza e non osavo ricordargliela. Tutto ad un tratto si girò verso di me. Non avrebbe sopportato di sentire ciò che avevo da dire, come lui lo voleva dire, e me lo avrebbe impedito. Di dire qualunque cosa. Sulla sua malattia. Sulla mia scrittura.
Il 4 marzo l’avevo trovato morto, piegato dal dolore, ai piedi del letto.
Il disordine, l’anarchia, il caos, lo sconcio e la perversione travolgono tutto e tutti, senza pietà.
Il giorno prima era venuto a pranzo col gruppo di amici in una piccola pizzeria. Non aveva toccato cibo, si lamentava degli spasmi improvvisi e continui ma voleva stare in nostra compagnia, non sapevamo per l’ultima volta, e ci aveva lasciato a metà pomeriggio. Non stava né meglio né peggio dei giorni precedenti. Eppure quel giorno fece qualcosa che mi sorprese. Volle che gli si andasse a comprare un foglio di carta da bollo, il che, da parte sua, era insolito; bisognava, diceva, che tutto fosse perfettamente in regola. Quando fu in possesso del foglio, senza che nessuno di noi sapesse cosa servisse, con una stilografica piena d’inchiostro verde, leggendo mentre scriveva, con applicazione, cerimoniosamente redasse una specie di delega di potere con la quale mi incaricava di sovraintendere alla lettura dei libri di Artaud. Sbarrai gli occhi. Mi venne un nodo alla gola. Non capivo. Oppure capivo. Perché quel giorno ha voluto che ci fosse un folle atto ufficiale? per lui, infatti, così poco d’accordo con la società, la carta bollata rappresentava ciò che è ufficiale. Non saprei rispondere. Quelle parole scritte con l’inchiostro verde sono senza dubbio le ultime che abbia scritto.
Il sesso, il sangue, e l’ebbrezza, i tre segni del dionisiaco, vi dominano, scatenati. Il suo regno era terminato.
Avevo partecipato a questa recita di vita. La parte terminale della vita del mio amico. Lo avevo conosciuto troppo tardi, già era sieropositivo da molto tempo. Voleva che io leggessi. Se leggere vuole dire anche recitare, intendendo recitare nel senso di agire, quella fu la sola volta che io ho recitato come in un’opera di Antonin Artaud. Incitato alla sua lettura e recitazione da un suo accanito lettore. Che era anche, poi, il mio migliore amico.
L’antica etica, regale e nobile, che aveva forgiato l’Impero, oramai si era dissolta, e l’antica religione romana aveva aperto le porte da tempo ai culti matriarcali e tellurici dell’Asia minore. E l’Eliogabalo di Antonin Artaud è uno di quei rari libri che mostrano i simboli per come sono, nella loro essenza metafisica, e offrono squarci illuminanti sulla storia dell’uomo. L’Impero Romano non gli sopravvisse ancora a lungo. L’Ordine decade totalmente, il Maschile si confonde con il Femminile, verso la dissoluzione completa dell’esistente, verso l’Unità originaria delle cose. La fine di Eliogabalo è nota: inseguito dai pretoriani venne trucidato in una latrina e gettato nel Tevere con la madre. Ma la marcia di Eliogabalo sulla città eterna, sì!, assomiglia più ad un corteo dionisiaco, di falli, tori, baccanti, fanciulle ignude, ubriachi, pederasti, invertiti, e galli castrati, che ad un corteo imperiale e la salita di Eliogabalo al trono imperiale di Roma, propiziata e voluta dalle virili e impudiche donne siriache della sua stirpe, segna uno dei punti più bassi nella decadenza dell’Impero.
Lavorava senza sosta, il mio amico. Scriveva. In ogni momento, ad ogni occasione, dovunque si trovasse, a tavola, in metropolitana, in compagnia di amici, lavorava per quanto fosse scomoda la sua posizione, estraeva dalla tasca uno di quei quadernetti scolastici che portava sempre con sé, scriveva o disegnava. Talvolta accompagnava questo lavoro con ritornelli ritmati, in un linguaggio inventato da lui. Scrivere e canticchiare. Le due cose avevano la stessa ragione.
Stranamente, le ultime settimane, ripeteva frequentemente: Non ho più nulla da dire, ho detto tutto ciò che avevo da dire. Dichiarava che non avrebbe mai più scritto.
Il mio amico mi leggeva Les malades et les médecins: La malattia è uno stato, / la salute non è che un altro, / più infame, / intendo vile, più meschino, / non c’è malato che non sia diventato, / non un malato che non abbia tradito, un bel giorno, per / non aver voluto essere / malato, come certi medici che ho subito. Allora non ne capivo il senso. Ora mi tocca comprenderlo.
E mentre ce ne stavamo andando, il mio amico ci raggiunse e, col pretesto di affidarmi una lettera a proposito di un amico in comune che lui amava, mi invitò ad ascoltarlo lontano dagli altri. Lì mi rivelò che era malato, in evoluzione da molto tempo, assolutamente irreversibile. Mi parlò di un altro suo amico, morto da qualche mese.
Negli ultimi tempi, è vero, contro i consigli di tutti coloro che tenevano alla sua salute, faceva abuso di antidolorifici, e nell’ultimo mese non badava più alle dosi. Così, nei giorni seguenti, lo confesso, ebbi un impulso puerile. Mi recai da un medico di cui mi avevano detto che aveva da poco scoperto un farmaco miracoloso. Declinò ogni competenza. Questi miracoli non esistono, lo so, l’avevo sempre saputo, ma allora volevo dimenticarlo.
Nemmeno mi piacciono i culi, ciò che mi piace è il gusto dei culi, nei culi.
Il mio amico, non l’ho mai visto lavorare ad uno dei suoi testi come normalmente farebbe uno scrittore. Ma l’ho visto dedicarsi ad esercizi di respirazione, a ritmi scanditi, con forti inspirazioni. Liberava una forza sorprendente e chi non l’abbia visto compiere simili sforzi difficilmente potrebbe immaginarsi di quale straordinaria vitalità un corpo così debilitato potesse essere capace.
Non piacciono le fragole, ciò che piace è il gusto delle fragole nelle fragole.
Ora, dopo anni, sono arrivato a pensare questo: è morto esattamente come voleva e, probabilmente, quando l’ha voluto.
Mi faceva recitare poemi di Baudelaire e Gérard de Nerval. Ecco la maniera in cui ci si apprestava. Io dovevo inventare una melodia e cantare i versi. Così potevo rendermi conto dell’importanza delle parole, le une in rapporto alle altre e della loro concatenazione. Quando avevo compiuto parecchie prove di questo genere, mi sforzavo di dire il poema. Non giungevo sempre al grado voluto, dovevo ricominciare fino a che fossi soddisfatto. Più tardi mi assegnò degli esercizi. Dovevo imparare a gridare, a non lasciare cadere il grido fino alla scomparsa, a passare dal tono superacuto a quello più grave, a prolungare una sillaba fino all’esaurimento del respiro. Credo di aver compreso in quelle sedute, ciò che era il teatro della scrittura poetica e quando mi arrischiavo a leggere un poema di Artaud, non mi dava alcuna direttiva, mi lasciava lavorare da solo. Dovevo trovare per comprendere; non gli mostravo il risultato del mio lavoro se non quando pensavo di esserci arrivato. Allora correggeva o approvava. E così ora, al contrario di quanto si fa sempre più spesso, penso che un poema non si debba leggere in uno stato di trance, occorre, invece, la padronanza di tutti i propri mezzi, dopo uno studio molto lungo e duro, e un costante sforzo di delucidazione.
Quattro donne della sua stirpe si stagliano nella sua vita, imperiose, e forgiano letteralmente il suo destino: Giulia Domna, Giulia Mesa, Giulia Soemia e Giulia Mamea.
Questo fa capire come, pur senza avere mai potuto conoscere Antonin Artaud di persona, fossi comunque, almeno un po’, tra coloro che l’aspettavano. E già un po’ l’amavano. Poiché io abitavo in provincia, il giorno dopo l’acquisto di Eliogabalo e il giorno dopo ancora, un amico mi telefonò e mi pregò di andare a spiegargli se un qualche editore avrebbe mai accettato di leggere un suo testo. Mi parve pura follia. Io che ne sapevo? Giacché scrivevo ma non ancora pubblicavo. Lo facevo solo per me stesso. Ma di personaggi strani, nella mia esistenza, ne ho conosciuti alcuni. Me ne ricordo ancora con la più grande precisione. Ero ritornato solo. Senza amori anche quella volta. Era il mese di giugno. Me ne ricordo.
Roma entra in un’atmosfera crepuscolare, da tregenda, il pantano Femminile spodesta l’ordine Maschile e virile, aprendo le porte al Caos. Roma, oramai si era indebolita, politicamente, militarmente, e soprattutto spiritualmente. Scrive Artaud: Si può dire in proposito che Eliogabalo è stato fatto dalle donne… e che quando ha voluto pensare da sé, quando l’orgoglio del maschio frustrato dall’energia delle sue donne, delle sue madri, le quali hanno tutte fornicato con lui, ha voluto manifestarsi, si è visto cosa ne è risultato. Sono donne forti, donne virili, donne sensuali, donne impudiche, donne prive di scrupoli, donne che fanno la storia e manipolano gli uomini, che d’altro canto appaiono deboli, passivi, invertiti ed effeminati.
Ma tornando al mio amico, certamente aveva la sensazione di avere fatto ciò che voleva fare, ciò che doveva fare. Senza indugi. E io ho sempre avuto la sensazione che credesse a tutto quello che Antonin Artaud aveva scritto. Lo credeva perché sentiva che era vero.
La portinaia del suo palazzo, una brava donna, ma ansiosa di provare la sua miseranda autorità, sbirciava fremente, dal suo sgabuzzino, l’arrivo del mio amico al quale voleva fare qualche rimostranza perché la notte precedente, una meravigliosa notte di tepore estivo, si era esercitato, insieme con me, a finestre aperte, nel recitare dei poemi di Gérard de Nerval e la declamazione aveva, secondo lei, decisamente oltrepassato i limiti del suo appartamento. Il mio amico arrivava calmo, col suo solito passo lento, la donna lo vide e, corsagli incontro con arietta minacciosa, cominciò ad inveire ma, appena aperta bocca, egli la fermò: Zitta! Se continua a proibirmi di recitare i versi di Gérard de Nerval a piena voce, la trasformo immediatamente in un serpente dalla testa piatta!, e la lasciò interdetta sui gradini. Ci raccontò divertito l’accaduto, tanto più strano in quanto la portinaia era una donna dalla testa singolarmente piatta, tipo un cobra, come dire. Venne a trovarmi, non tanto per lamentarsi quanto per essere rassicurata perché, senza troppo osare confessarlo, era molto inquieta. La forza di suggestione del mio amico era così forte che quella povera donna si domandava se qualche realtà per lei minacciosa non si nascondesse sotto quelle parole. Se non stesse per trasformarsi in serpe velenosa.
Mi aveva detto: Io non so nulla, o piuttosto so, il che è molto pericoloso a dirsi, che non è il significato che crea le parole ma le parole che creano il significato. Si potrebbe quasi dire di lui che creava la realtà. Chiunque lo avvicinasse lo avvertiva. Aveva l’abitudine di farsi radere a zero i capelli, andava ogni giorno da un barbiere. In seguito fu il barbiere che andò alla sua casa quando cominciò ad avere problemi di salute. Arrivava in generale un poco dopo mezzogiorno.
Un giorno avvertì: Annuncio che non scriverò mai più, non ne ho più la forza. Troppa fatica. Del resto, vedi, non ho quaderni. E mostrò la tasca interiore del suo giubbino in pelle, priva dell’abituale quaderno. Gli risposi ridendo che non ci credevo. Allora, con ostentazione, si sprofondò in una poltrona del bar, ed incrociò le braccia. Ma tu non puoi fare a meno di scrivere. Certo che posso!
Un mattino, all’inizio di febbraio, lo accompagnai all’ospedale dove si procedette agli esami. Il professore lo visitò a lungo. Era pieno di segni sulla pelle. Nel corridoio, in attesa del prelievo, eravamo seduti fianco a fianco su due sedie, con la schiena rivolta ad una finestra. Guardavamo fissi nel vuoto. Mi ricordo. Improvvisamente, forse per rompere quel silenzio agghiacciante, mi parlò di Roger, che aveva conosciuto al tempo. In seguito, mi disse, che non si deve scrivere se non quando si ha veramente qualche cosa di essenziale da dire, ma a condizione d’essere ugualmente capace di sapere che quella cosa è essenziale. Il che non è certo una cosa facile. Poi il professore ci fece chiamare, gli consigliò riposo, prescrivendogli una nuova terapia.
Un’altra tappa di un declino spaventoso.
©Bo Summmer’s 2014©gaiaitalia.com 2014diritti riservatiriproduzione vietata
(30 maggio 2014)