martedì 23 maggio 2023

atti di devozione


Ho sospeso questa mia rubrica per un po’ di tempo. Chi mi segue, lo sa. Troppe pressioni mi provocano diffidenza. E ce ne sono state. Ho sempre svolto questo lavoro con una sorta di prevenzione per tutti i viventi che pubblicano libri. Specialmente quando ti chiedono “la recensione”. Specialmente ai libri di poesia.

Pubblicare poesia, oggi, è al di fuori di ogni controllo, di ogni macinazione vicina all’atto consumistico. Poesia non è vendibiltà, mai lo e stata, a maggior ragione nel nostro contemporaneo. Pubblicare poesia è, oggi, più che allora, atto di identificazione con il nulla del dire. Se non al proprio parlarsi, a volte addosso.

È da anni che in Italia la poesia corre lungo vie sotterranee di autodefinizione. Vie sotterranee che, a mio avviso, certificano un essere in disparte, un non centralizzarsi, nemmeno col pensiero. Neppure con la presenza fisica dell’autore. E non solo si tratta di una grande metafora di quanto avviene nella superficie delebile del reale.

Le vie del fare poetico sono spesso invisibili, o, meglio, sfuggono a criteri di visibilità. Ciascuno tenta le carte che può, che possiede, per raggiungere affannosamente un momento che si avvicini, almeno lontanamente, alla realtà del tangibile. Come se il poetare non dovesse essere il più lontano possibile da ciò che altre espressioni dell’umano artefare propongono. Poetare è assenza, mai centralità o assoluto dire.

“Atti di devozione” di Luigi Balocchi (ed puntoacapo, pp 94, euro 12.00) è desiderio, libido, innamoramento raccontati nel secolo della pornografia a portata di tutti (anche dei minori, basta lo vogliano) di un qualunque sex tube online. Forse la differenza, vera, sta nell’amore maturo che si disegna in “Tristi coppie estive | mano nella mano | l’un l’altro a rimettersi il peccato | di stare ancora insieme. | La morte li sorregge. | Fan finta che sia vita.”

Il desiderio. Dov’è la sorgente? In quale recesso? Chi può ormai stanarlo? Queste le domande, come sangue nelle reni, afflusso improvviso come un tarlo che a poco a poco obnubila la mente. Non vale, allora, stimolarlo solo con la memoria, come se la poesia potesse essere pura sessualità (o artefizio di quella, come nell’amato Sandro Penna, o nel letto madido di sudore di morte dell’amico Dario Bellezza) non ritorna niente dal sesso scritto, niente.

Il sesso è pura alterità, non sta nemmeno più nei pornoshop ma nel deep web. Figuriamo se può stare nella poesia. Nel suo lucente fingere. Finzione è poetare, al massimo è erotismo dello scrivere, altro da sé e così leggo, in questa raccolta di versi – eros, non thanatos poiché: “Tu sei nel desiderio, | Ne rosso della rosa, | nell’occhio che s’infiamma. | sei il gesto che rapisce, la bellezza che non sa de putridume..” – ma non la maldicenza, il male dire, la profusione del proprio corpo, dei propri corpi e del corpo dello scrivere e dei corpi delle scritture. La devozione del dire, leggo, in queste pagine, oggetto onesto del poetare, quasi elevato senso del dicibile (dell’indicibile non v’è ombra), una lettura che parrebbe semplice. Parrebbe.

Va riletto più volte, e più volte l’ho riletto, anche di notte, quando il sonno non viene più. E, nonostante ciò che dice l’autore, questo fare poetico non ha bisogno di orpelli visivi, di mattane teatrali poiché è già bruciore di vene, un piccolo fuoco – come così occorre che la poesia rimanga – una brace già nella completezza della pagina, del suo farsi verso (avvicinarsi a) ed è come se ancora, in questa nostra età sfinita, si potesse stare sulle barricate a dar voce alla vita.

 

 

 

 

(15 maggio 2017)

 




 

 

 

©gaiaitalia.com 2017 – diritti riservati, riproduzione vietata