Egregio Signore,
Lei ha il diritto d’ignorarmi. Nelle mie lettere avevo fatto delle piccole confessioni mentali. E avevo posto delle domande. Mi voglia permettere oggi di completare quelle stesse confessioni, di riprenderle, di andare fino in fondo a me stesso. Non cerco di giustificarmi ai suoi occhi, m’importa poco di avere l’aria di esistere di fronte a chiunque. Non veda in questo nessuna insolenza, la prego, ma il riconoscimento fedelissimo, l’esposizione penosa di un doloroso stato di pensiero.
Per il suo silenzio, ho serbato a lungo rancore. Mi ero dato come un caso mentale, una vera anomalia psichica ma in seguito, preso da rimorsi, avevo deviato tutto sul fatto letterario, sulla descrizione puntigliosa della mia struttura poetica, su una analisi clinica della mia scrittura. Mi lusingai di non essere stato capito. Mi accorgo oggi che forse non ero stato abbastanza esplicito.
Credevo d’interessare, se non per la preziosità dei miei versi, almeno per la rarità di certi fenomeni d’origine intellettuale che facevano sì che, appunto, quei versi non fossero, non potessero essere differenti, mentre avevo appunto in me di che portarli all’estremo della perfezione. Affermazione vanitosa, io esagero, ma di proposito.
Forse le mie domande erano effettivamente speciose ma le ponevo a Lei, a Lei e a nessun altro. Mi lusingavo di portarle un caso, un caso mentale caratterizzato, pensavo, allo stesso tempo, di attrarre l’attenzione sul valore reale, il valore inizile del mio pensiero.
Questo sparpagliamento, questi vizi di forma, questo cedimento costante del mio pensiero, sono da attribuire non a una mancanza d’esercizio, di possesso dello strumento che maneggiavo, di sviluppo intellettuale ma a uno sprofondarsi centrale dell’anima, a una specie d’erosione, essenziale e insieme fugace, del pensiero, al non-possesso passeggiero dei benefici materiali del mio sviluppo, alla separazione anormale degli elementi del pensiero (l’impulso a non pensare,a ciascuna delle stratificazioni terminali del pensiero, passando attraverso tutti gli stati, tutte le biforcazioni del pensiero e della forma).
Dunque c’è un qualcosa che distrugge il mio pensiero; un qualcosa che m’impedisce d’essere ciò che potrei essere ma che mi lascia, se posso dire, in sospeso. Un qualcosa di furtivo che mi toglie le parole che ho pensato, che fa diminuire la mia tensione mentale, che distrugge man mano, nella sua sostanza, la massa del mio pensiero, che mi toglie perfino il ricordo dei giri di frase con cui ci si esprime e che traducono con esattezza le modulazion più insperabili, più localizzate, più esistenti del mio pensiero, non voglio insistere. Non devo descrivere il mo stato.
Lei ha il diritto di ingnorarmi ma io ho il dovere di propormi. E questo mi basta per continuare a sopravvivermi.
(17 marzo 2016)
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