Nonostante la scrittura poetica cerchi di stabilire una destinazione, come memento e fulcro di non intrusione reciproca con la realtà, essa, infine, supplica di essere rapita temporaneamente al proprio inevitabile destino mortale. Dunque, non si può concludere sbrigativamente che la poesia non sia sbilanciata verso l’uno o l’altra realtà: pare appropriato vedervi un’altalena dialogica che superi la parola e si congiunga nella risposta gestuale ai bisogni del dire [quando ancora, questi utii, riescono a sopravvivere].
Inizio scrivendo questo poiché qui si torna a cantare quale contestazione tanto impudente quanto filosofica, con la singolare, ostinata presa di posizione nei miei confronti.
Si tratta di un’operazione che s’intreccia in campo bianco o nero alternato, talvolta come replicato o differentemente ingigantito. Tutti quanti i soggetti del descrivere questo mio stato d’invisibilità forzata, sono come colti nella loro fisicità quotidiana, non abbrutita ma spogliata di qualunque bellezza tradizionale, lasciando emergere singoli dettagli della loro nudità animale, raccolta, desiata e non esibita.
Se ci limitiamo all’indagine scritturale, di questo scrivente, si può leggere il verso come una confessione metapoetica ed esistenziale che riporta a galla temi sprofondati, rispondendo agli interrogativi del poetare, comprendendola [la Poesia] per via delle solitudini gemelle del dire e del fare, come se vi si ritrovasse un tema ricorrente lungo questo tempo senza fine, l’interminato viaggio più volte presentato in tono misticheggiante, con sanguinamento per avere il proprio pane quotidiano, la parola scritta che più non viene, la liberazione dal male di non essere letti, più, la chiusura col ricorrente appello al cuore allo strazio, l’assoluta regitrazione con la furia dei limiti da superare, lo sconvolgimento delle antinomiche dentro/fuori, su/in/oltre.
Dalla riconsiderazione del proprio passato, del continuo non ritornare a quella stessa condizione, riemerge la coesistenza di amore-odio per la scrittura. Ammessa la costante insoddisfazione, qui si avanza una richiesta di ricomposizione di un corpus poetico più intenso che in passato, nell’assoluta dimenticanza obliosa di chiunque abbia saputo. Che qualcuno lo facesse, sarebbe ora.
Sarebbe questa l’occasione per ricordare, almeno momentaneamente, il poeta, minore, sì, condividendo i versi che hanno suggellato l’amore osceno e sacro per la dimenticanza, sempre sospeso in tra l’ansia di ricomparire fisicamente. Con violenza.
Le domande e le risposte sul perché non si esiste più sono soltanto mie “fantasie uditive”, non si riappare dal vortice della memoria [da cui si risorge, soltanto per un attimo, con stremanti autocitazioni], si intuiscono dal contesto, dalle reazioni degli altri, da chi ha conosciuto, visto, letto quei versi, in quei tempi ma che non ha abbastanza forza per uscire dall’implicito affiatamento amicale e dire che sì quel poeta è davvero esistito.
Subentra, per chi scrive, ora, il ricordo della costrizione del godimento, qui esplicitata nel suo fingere di non avere voglia di scrivere, perché una tale finzione, a forza, gli facesse tornare la voglia, fisicamente e mentalmente, fino a zittire la mente.
Stremato non dalla passione ma dal suo ricordo ormai irreplicabile, l’io-lirico, questo mio, avanza una richiesta di conforto, in previsione della morte incombente, rappresentata dalle emblematiche pagine nere in chiusura.
(29 luglio 2016)
©gaiaitalia.com 2016 – diritti riservati, riproduzione vietata