Nel fondo di un vicolo oscuro, sotto una luna spettrale che pare incisa su un soffitto di piombo, due uomini si fronteggiano. L’aria odora di muffa, di pollini morti, e il silenzio vibra come una corda tesa. Uno di loro, il volto scavato dalla fame di vita, sputa parole nel vuoto:
"Strappare le tenebre, sottrarle a questo teatro. Farlo qui, davanti a tutti. Non ti pare l’unico gesto degno?"
L’altro sorride appena, un sorriso che non è gioia ma solo maschera. "E cosa ne faresti di quelle tenebre, amico mio? Incensarle? Farne una cattedrale di desideri già spenti? Ah, le tenebre non si strappano. Si abitano."
"Abitarle?!" esclama il primo, avanzando un passo, quasi a volergli afferrare l’anima. "Tu parli come un poeta che ha perso la penna. Io voglio la vita, anche se mi consuma. La voglio, e la vivo. Tu non fai che sognarla, come un principe dei pollini abortivi."
Il sorriso dell’altro si piega in una smorfia amara. "E tu sei un servo del vento. Il tuo anelito si fa inutile nel momento stesso in cui lo pronunci. Ti agiti per il Desiderio, ma il Desiderio è già morto. Guarda te stesso: sei un passero spremuto da sanguisughe. Una carcassa che ancora canta, senza sapere perché."
L’uomo afferra una bottiglia vuota abbandonata ai suoi piedi e la scaglia contro il muro. Il vetro esplode in mille schegge, scintille effimere nel buio. "Che ne sai tu della solitudine?" grida, il fiato spezzato. "Io la conosco, la solitudine. È un cantante d’accatto che suona sempre lo stesso pezzo. È un’ombra che mi segue ovunque, fin dai tempi della scuola. E tu? Tu te ne stai lì, con la tua faccia da chiosco chiuso, a giudicare."
"Giudicare?" replica l’altro, la voce bassa come il rintocco di una campana lontana. "Io non giudico. Io osservo. Osservo te, e vedo un uomo che si consuma per briciole amorose, per un verso che spera possa rinascere, ma che invece si perde nel vento. E intanto il mondo ti schiaccia, ti frusta con le sue notizie, ti sputa addosso la sua crudeltà."
"E allora?!" urla il primo, il petto che si alza e si abbassa come una tempesta. "Che altro dovrei fare? Resistere? Aggrapparmi a queste briciole come fossero un banchetto regale? No, io voglio urlare contro il mondo. Voglio strappargli il velo di ipocrisia e mostrargli che non ha vinto!"
L’altro scuote il capo, lento, come se ogni movimento fosse un peso insopportabile. "Tu non urlerai. Tu tacerai. Come sempre. Perché ogni incontro, ogni momento, è solo un errore, un’indicazione verso il nulla. E tu lo sai. Sai che vaghi senza meta, eppure non riesci a fermarti."
"Non posso fermarmi," sussurra il primo, improvvisamente svuotato, le spalle che si piegano sotto un peso invisibile. "Se mi fermo, cado. E se cado, non mi rialzo."
L’altro si avvicina, i passi lenti e silenziosi come un gatto nella notte. "Non devi fermarti, amico mio. Ma neanche correre verso l’abisso. Resta qui, in questo momento. Accetta la panchina, la caverna del tuo sguardo. Accetta che il verso non abbia più futuro, che sia solo cenere che impara."
"Ma cosa resta?" chiede il primo, e la sua voce è un sussurro spezzato, un filo di vento che muore sul ciglio del mattino.
"Resta il piacere," risponde l’altro, posandogli una mano sulla spalla. "Resta una fortuna immensa, se solo sai vederla. Un racconto da sogno, una vicinanza che non si spegne. Ma tu devi lasciarlo andare, quel piacere. Devi accettare che i sentimenti sono stati, che i figli non verranno, che la musica non è più per noi."
Il primo solleva lo sguardo, gli occhi pieni di lacrime che non verserà mai. "E il desiderio? Che ne è del desiderio?"
"Il desiderio," dice l’altro, "è una tela che non resta. Una voce che si spegne prima di diventare eco. È l’aridità che ci espugna, che ci avvolge, finché non restano che licheni sulle nostre ossa. Ma anche nei licheni c’è vita. Una vita piccola, tenue, ma sufficiente."
E nel silenzio che segue, i due uomini restano immobili, come statue scolpite nella notte. Il mondo intorno a loro continua a girare, indifferente, ma in quel vicolo oscuro, per un istante, il tempo si ferma.