giovedì 21 novembre 2024

incipit


Nella sartoria degli stracci dismessi, un luogo che sembrava più un cimitero che una bottega, dove l’odore del tempo marcito si mescolava a quello delle speranze disfatte, mi ritrovai come un viandante smarrito in un labirinto fatto di brandelli, di tessuti stanchi, di colori ormai cancellati dall’indifferenza del mondo. Lì ogni filo, ogni trama, portava impresso un racconto, e il silenzio stesso sembrava gravido di confessioni mai sussurrate, di preghiere ingoiate dalla ruggine di chi aveva smesso di aspettare.

E fu in quel teatro di desolazione che appresi la storia delle aureole tonte, non i cerchi dorati che incoronano i santi, ma quelle corone goffe, sghembe, fatte di fili spezzati e lacrime secche, abbandonate dai ribelli della fede, dai dimenticati della virtù. Erano aureole nate dal rimorso e dalla carne, forgiate nel peccato, nelle stanze oscure del desiderio, dove la redenzione non era mai giunta. Ogni straccio di quel luogo pareva raccontarne un frammento: veli che avevano coperto volti ormai dimenticati, mantelli sfilacciati che forse avevano avvolto chi un tempo credeva di poter volare.

Camminavo tra quei cumuli di stoffe come un intruso in un tempio profano, sentendomi osservato da occhi invisibili, da presenze intessute negli stessi stracci che sfioravo. La luce, fioca e malata, filtrava a fatica attraverso vetri opachi, creando giochi d’ombre che danzavano sui muri scrostati, come spettri in un’eterna processione. Ogni passo era un viaggio nel cuore di una perdizione collettiva, una danza macabra di vite che avevano osato sfidare l’ordine imposto e ne erano uscite sconfitte.

Ecco, le aureole tonte non erano altro che i resti di una gloria fallita, il simbolo di un’umanità che aveva provato a elevarsi e si era schiantata. Non c’era bellezza nei loro contorni spezzati, eppure emanavano una sorta di tragico magnetismo, un fascino perverso che mi attirava e mi respingeva al contempo. Ogni aureola sembrava sospesa tra il cielo e l’abisso, troppo pesante per ascendere e troppo sacra per essere completamente dimenticata.

Mi fermai davanti a uno specchio incrinato, incassato tra due pile di stoffe. La mia immagine, deformata dalle crepe, mi restituiva un volto che non riconoscevo: forse quello di chi aveva indossato, un tempo, una di quelle aureole. Fu allora che compresi che quella sartoria non era solo un luogo, ma uno stato dell’anima, un purgatorio fatto di ricordi e di rovine, dove tutto ciò che era stato sacro veniva riscritto in chiave umana, disperatamente umana.

Uscire da quel posto significava abbandonare per sempre un’innocenza che non sapevo di aver perduto. Il mondo esterno mi sembrava ormai distante, irreale, come una scena vista attraverso il velo di un sogno svanito. E così, con il peso di quella scoperta che mi schiacciava le spalle, seppi che non sarei mai più tornato. Alcuni luoghi non si possono rivedere; non perché lo proibiscano le porte, ma perché chi li attraversa lascia in essi una parte di sé, un frammento che non può più essere recuperato. E io, tra quegli stracci e quelle aureole infrante, avevo lasciato la mia.