domenica 10 novembre 2024

Non resta che un corpo che si torce


Non resta che un corpo che si torce,
la lingua tagliata dal suo pensiero,
un nodo viscerale che si scioglie
solo nell’urlo crudo della carne.
Qui non c’è parola che tenga in piedi
il tempio fradicio dell’illusione,
non c’è verso che illumini il cammino
quando il passo affonda nel suo stesso abisso.
Ogni sillaba è un osso che si spezza,
un filo d’acciaio che lacera i nervi.
La poesia è un rogo in cui brucia il verbo,
un sacrificio al dio muto del nulla.

Il poeta è un sacerdote senza altare,
un aguzzino che squarta la sua preda
mentre ride nel dolore che produce.
L’io-lirico si fa macellaio,
scortica il suo pensiero fino al midollo,
estrae dal petto il cuore incandescente
e lo mostra al cielo come un’arma oscena.
Non c’è fuga, non c’è redenzione:
il verbo si fa carne e nella carne
ritrova il suo limite, la sua condanna.
Ogni verso è un colpo di martello
sul cranio vuoto dell’eternità.

La strofa non è che un urlo spezzato,
un moncone che pulsa e si contorce.
Non c’è sequenza, solo spasmi, strappi,
fratture che si allargano e si moltiplicano.
Il pensiero non è più ragione,
ma un rantolo di un corpo senza organi,
un’ebollizione oscena di visioni,
un caos che si fa carne e si dissolve.
Eppure, in questo delirio atroce,
il poeta intravede una scintilla,
una luce nera che lo acceca,
una verità che non si può afferrare.

L’amore è un morso, un veleno dolciastro,
un’ombra che si aggrappa alle viscere.
Non consola, non salva, non perdona:
è un gesto violento che lacera il senso.
L’io si accanisce contro la memoria,
scava nel passato con mani tremanti,
ma trova solo cumuli di ceneri,
frammenti di un sogno che s’è corrotto.
E fuori, il mondo è una maschera vuota,
un teatro di ombre che si dissolvono
nel primo chiarore di un’alba sterile.

La parola, arma e ferita insieme,
si spezza contro il muro del silenzio.
Il poeta la mastica e la sputa,
la trasforma in un grido inarticolato,
un rantolo che squarcia l’aria immobile.
Non c’è più un io che la sostenga:
solo un corpo che si contorce e trema,
una materia informe che cerca voce
in un universo che tace e osserva.
E quando il verso sembra ritrovare
un ordine, una forma, una coerenza,
si frantuma di nuovo in schegge acute,
in un clangore di metallo che urla.

L’ira si fa poi quiete, ma è una quiete
che non porta pace, ma sospensione.
Il pensiero si ripiega su se stesso,
si avvita in un’ossessione senza uscita.
Il poeta si rivolge al proprio corpo,
al suo cuore che pulsa come un tamburo rotto,
alla sua mente che si sfalda e cede.
E qui, nell’oscurità più profonda,
s’intravede l’idea della fine.
Non una fine dolce, ma un’esplosione,
una frantumazione totale e definitiva,
un suicidio della parola e della carne.

Ma la fine non arriva mai davvero.
Il poeta rimane, sospeso e vibrante,
un grumo di sensazioni che non si placano.
E in questa tensione trova il suo grido,
un urlo che non cerca più significato,
ma solo di essere, di esistere.
E così, anche nel disfacimento,
torna il verbo, ritorna il desiderio.
Non c’è salvezza, ma nemmeno resa:
solo un perpetuo annaspare nel nulla,
un gesto eterno che sfida il vuoto,
e nel vuoto, infine, trova il suo senso.

Non resta che piegarsi al moto eterno,
al flusso che trascina ogni parola,
un fiume torbido che nasce cieco
e cerca il mare senza mai trovarlo.
La poesia si fa tempio e condanna,
un labirinto dove il passo inciampa,
eppure il piede insiste, avanza, preme,
pur sapendo che il nulla è dietro l’angolo.
Dal primo titolo che si fa promessa
al verso che si spezza e si dissolve,
ogni suono è un grido che non salva,
un’eco vana dentro un cuore muto.

La strofa si dipana come un filo,
ma presto si contorce e si disgrega,
un nodo che strangola il suo senso,
un canto che si spezza in mille schegge.
E l’io, signore incerto del linguaggio,
cerca un ordine dove il caos trionfa,
ma trova solo strappi e frammenti,
domande che non hanno mai risposte.
Così il pensiero inciampa e si ripiega,
tra il peso greve della carne nuda
e il sogno vano di un’eternità
che sempre sfugge al suo fragile abbraccio.

Che rimane, allora, della parola?
Che senso ha il poeta nel deserto?
La scrittura è una lotta contro il vento,
un tentativo d’essere immortali
mentre il tempo si chiude in cerchi stretti,
sovrapponendo ieri e l’oggi cieco.
Ogni verso è un soffio, un colpo d’ala,
un volo che si infrange contro il cielo.
E l’amore, se amore ancora vive,
è solo un’ombra che sfuma nel niente,
una promessa che il tempo ha disciolto
come neve che cade sopra il mare.

Intorno, il mondo tace e si nasconde.
Non c’è dialogo, non c’è una voce
che rompa il filo solitario e tetro
del poeta che interroga il silenzio.
Eppure il suo pensiero si contorce,
si attorciglia come serpe inquieta,
e si specchia negli abissi della mente.
Là, dove tutto sembra inaccessibile,
si apre un’altra via, oscura e densa,
più perigliosa d’ogni languore tiepido,
più oscura d’ogni amplesso abbandonato.
È lì che il poeta affronta il suo fantasma,
tra tremiti di carne e d’anima spezzata.

Ma l’io-lirico non si lascia uccidere,
non si arrende al vuoto che lo inghiotte.
Si ribella, urla, lacera il silenzio,
desidera il tutto, il mondo, l’universo.
Non basta il corpo, non basta il piacere,
non basta il respiro della passione.
Vuole la vita intera, la sua essenza,
e contro il nulla scaglia la parola.
Ma questa si rivolta, si fa piaga,
diventa bestemmia, furore, sangue.
Scava nel cuore con il suo metallo,
si fa ferita e brucia come il sale.
Eppure, anche in questa mutilazione,
vive il germe d’un disperato amore.

Poi, come dopo un temporale, il canto
si placa e muta in flebile preghiera.
Prima, l’io si volge all’amante perduto,
offre i suoi versi come un’estrema pace.
Poi si piega al corpo che si spezza,
che cede sotto il peso della vita.
Infine, la mente cerca il rifugio
nel ricordo, nel sogno, nella fuga.
Eppure, anche qui, la resa è ambigua:
il pensiero si affaccia sul suicidio,
ma lo respinge e poi lo accarezza,
si attarda in un eterno contraddirsi.
È un gioco crudele, un filo sospeso
tra la fine e l’ostinazione a vivere.

E quando tutto sembra giunto al termine,
quando ogni luce si spegne nel buio,
il poeta torna a piegare il capo.
Ancora una volta offre la sua pena,
trasforma il dolore in un dono fragile,
e nella parola cerca un riscatto.
Eppure sa che ogni verso è una menzogna,
un inganno che cela il vuoto eterno.
Ma anche in questo trova un senso lieve:
non sfuggire alla morte, ma ingannarla,
vivere nei piccoli e grandi piaceri,
e condividere il peso e la bellezza
d’un’esistenza breve ma infinita.