Il piacere della lentezza, quel dolce languore che accarezzava l’anima e donava al tempo un respiro quasi sacro, è ormai svanito come una nube dissolta dal vento. Non resta che il ricordo sbiadito di un mondo in cui gli uomini sapevano ascoltare il silenzio, accarezzare l’immobilità e affidarsi al fluire naturale della vita, senza fretta né costrizioni. I vagabondi, antichi eroi delle ballate popolari, sono scomparsi insieme ai sentieri che un tempo serpeggiavano tra i campi, alle radure segrete dove il sole filtrava tra le foglie, ai prati che si offrivano come letti verdi sotto il manto stellato della notte. Erano uomini liberi, poeti senza penna, pellegrini senza meta, che percorrevano la terra non per arrivare da qualche parte, ma per il puro piacere di esserci, in armonia con il mondo. Vivevano come figli della natura, accolti dal cielo e dalla terra, e alzavano lo sguardo verso le finestre degli dèi, quelle aperture misteriose sull’infinito che illuminavano il loro vagabondare.
In quel tempo, l’ozio non era una colpa, ma un dono. Era un’arte sottile, una celebrazione dell’attimo presente, una comunione con il ritmo lento e profondo dell’universo. Non si cercava di colmare il silenzio o di riempire il vuoto, poiché entrambi erano carichi di vita, di suoni sommessi e di presenze invisibili. Ogni pausa era un invito alla contemplazione, un’apertura verso l’eterno. Il fruscio dell’erba sotto i piedi, il canto sommesso di un ruscello, il sospiro del vento tra i rami erano abbastanza per riempire l’anima di chi sapeva ascoltare. L’ozio era un atto di fede nella bellezza del mondo, un ritorno al grembo degli dèi, un abbandono fiducioso all’ordine naturale delle cose.
Ma tutto questo è finito. La lentezza, con la sua grazia e il suo mistero, è stata spazzata via da un nuovo ritmo, frenetico e implacabile, che ha trasformato l’ozio in un’inattività sterile e vuota. L’uomo moderno non sa più cosa significhi fermarsi e ascoltare; non conosce più la pace di un cuore che batte in sintonia con la terra. L’inattività non è contemplazione, ma assenza di vita, un vuoto che non si riempie di silenzio ma di inquietudine. Non c’è più armonia tra l’uomo e il tempo: il tempo è diventato un nemico, una corsa contro un orologio che non si ferma mai.
L’uomo di oggi non guarda più verso le finestre degli dèi. Non alza lo sguardo verso il cielo, ma lo tiene basso, fisso sulla polvere della terra o perso in un vortice di pensieri che non portano da nessuna parte. Non sa più camminare con leggerezza; corre, sempre di fretta, sempre in fuga, spinto da un’ansia che lo consuma dall’interno. Ogni momento di immobilità è per lui un peso insostenibile, un vuoto che lo opprime e che cerca disperatamente di colmare con attività inutili, con un movimento perpetuo che non lo conduce a nulla. Corre, ma la sua corsa non ha meta; lotta, ma la sua lotta è vana. Si dibatte come un prigioniero che tenta di liberarsi da catene invisibili, senza accorgersi che è lui stesso a stringerle intorno a sé.
E così si consuma, giorno dopo giorno, svuotato dal ritmo implacabile di un’esistenza che lo spinge sempre avanti, sempre più lontano da ciò che conta davvero. La natura, che un tempo era il suo rifugio e la sua maestra, è ora distante, dimenticata, quasi irraggiungibile. I sentieri che attraversavano i campi sono stati cancellati; i prati dove un tempo si poteva sostare in pace sono scomparsi, inghiottiti dal cemento e dall’oblio. Le stelle, che un tempo brillavano come occhi degli dèi, sono ora fredde e lontane, nascoste dietro un velo di indifferenza. L’uomo moderno è rimasto solo, separato dal mondo e da se stesso, incapace di fermarsi, incapace di trovare pace.
La lentezza, quel respiro profondo che dava significato alla vita, è morta. Con essa se ne sono andati i vagabondi, i viandanti, i poeti erranti che sapevano ascoltare il silenzio e dialogare con gli dèi. Sono svaniti i sentieri, i boschi, le radure; è scomparso un intero universo fatto di quiete e meraviglia. Al suo posto è sorto un mondo di frenesia e vuoto, un mondo in cui l’uomo è schiavo del tempo e del movimento, incapace di fermarsi, incapace di essere. L’uomo moderno ha perso il contatto con le finestre degli dèi, con quel respiro eterno che dava senso alla sua esistenza. Ora non gli resta che correre, sempre più veloce, verso un orizzonte che non raggiungerà mai, fuggendo da se stesso e dalla verità del mondo. La lentezza non tornerà più; e con essa è svanito il canto dell’anima, il sussurro degli dèi, il segreto della vita stessa.