Dirk Bogarde, attore raffinato e di straordinaria profondità emotiva, dà vita a un Aschenbach che non è soltanto un uomo in crisi, ma un’idea fatta carne: l’artista che si avvicina troppo alla fiamma del suo ideale e ne viene consumato. Il suo viaggio attraverso una Venezia soffocata dall’afa e dalla malattia diventa un pellegrinaggio interiore, un percorso verso la consapevolezza tardiva della propria fragilità, fino al dissolvimento finale in riva al mare, dove la bellezza e la morte si fondono in un’unica immagine.
L’incontro tra un attore e un regista visionario
Visconti scelse Bogarde con estrema cura, intuendo che solo lui avrebbe potuto incarnare l’eleganza malinconica e il tormento silenzioso del personaggio. Il regista voleva che Aschenbach fosse un compositore e non uno scrittore, come nel romanzo di Mann, e questo cambiamento si riflette in tutto il film: il protagonista diventa un uomo che ha cercato di distillare la perfezione attraverso la musica, ma che nel momento cruciale della sua vita si trova sopraffatto da una bellezza che non può né possedere né dominare.
Bogarde era un attore di formazione classica, noto per il suo controllo espressivo e la sua capacità di comunicare emozioni senza bisogno di parole. Aveva già interpretato ruoli complessi e ambigui, come in Il servo (1963) di Joseph Losey, dove il suo personaggio, un cameriere manipolatore, seduce e distrugge il suo padrone con un sottile gioco psicologico. Ma con Morte a Venezia raggiunge un livello di intensità quasi metafisico. La sua recitazione è fatta di dettagli minimi: uno sguardo abbassato, un tremito impercettibile delle labbra, una postura che da rigida si fa sempre più incerta.
Un’interpretazione costruita sul silenzio
Uno degli elementi più straordinari del film è la quasi totale assenza di dialoghi per Aschenbach. Le sue emozioni sono espresse attraverso il corpo, attraverso il modo in cui il suo volto si illumina alla vista di Tadzio e poi si spegne nel momento in cui si rende conto della propria sconfitta. Bogarde riesce a trasmettere il suo tormento interiore senza mai pronunciare una confessione esplicita. Il desiderio, la paura, il senso di colpa e la meraviglia convivono nel suo sguardo, creando una tensione emotiva che cresce scena dopo scena.
All’inizio del film, il suo Aschenbach appare ancora composto, seppur segnato da una profonda stanchezza. È un uomo che ha sempre creduto nel rigore, nell’ordine, nella disciplina dell’arte. Ma l’incontro con Tadzio lo destabilizza, lo fa regredire a uno stato quasi infantile, in cui il desiderio diventa una dipendenza e l’ossessione prende il posto della razionalità.
Tadzio: il simbolo della bellezza inaccessibile
Tadzio, interpretato dal giovane Björn Andrésen, non è un semplice personaggio: è un’idea platonica, un ideale estetico incarnato in un corpo perfetto e irraggiungibile. Non è importante chi sia realmente Tadzio, né quali siano i suoi pensieri o le sue emozioni: per Aschenbach, lui è solo la proiezione di un sogno, un’immagine che risveglia qualcosa di troppo profondo per essere controllato.
Bogarde rende perfettamente la progressione del desiderio di Aschenbach: all’inizio, lo osserva con ammirazione distaccata, come si contempla un’opera d’arte. Ma man mano che il film procede, il suo sguardo si fa sempre più febbrile, più affamato, più perso. La bellezza di Tadzio diventa per lui un tormento, un richiamo impossibile da ignorare.
Venezia: un riflesso dell’anima di Aschenbach
Visconti utilizza Venezia come un’estensione del protagonista: la città è splendida e decadente, intrisa di un senso di morte imminente. Mentre Aschenbach si lascia consumare dalla sua ossessione, anche Venezia si ammorba sotto il peso del colera, un’epidemia che si insinua silenziosa tra le calli e le piazze, mentre le autorità fanno di tutto per nascondere la verità.
Bogarde si muove in questa città come un uomo che sa di non avere più scampo. Lo vediamo camminare con passo sempre più incerto, sudato, affaticato, il volto segnato da una sofferenza che non è solo fisica, ma spirituale. Il momento in cui, dopo un malore, un barbiere gli applica un trucco pesante e una tinta per capelli per farlo apparire più giovane è il culmine della sua tragedia: invece di nascondere la sua decadenza, quell’intervento lo rende grottesco, un uomo che si aggrappa disperatamente a un’illusione già svanita.
La morte come atto estetico finale
La sequenza finale del film è una delle più intense e dolorose mai girate. Aschenbach, ormai allo stremo, si siede su una sdraio in riva al mare, mentre il sole tramonta e la sua vita si spegne lentamente. Davanti a lui, Tadzio si muove con la grazia di una visione, camminando sulla battigia come un’apparizione ultraterrena. Poi, in un gesto enigmatico e commovente, il ragazzo si volta e solleva il braccio, quasi come un ultimo saluto o una chiamata verso l’aldilà.
Bogarde gioca tutta la scena con il suo volto: il suo sguardo è colmo di meraviglia e rassegnazione, le labbra si piegano in un sorriso appena accennato, il respiro si fa sempre più debole. È un’interpretazione che trascende il semplice realismo: la sua morte diventa un’estasi, un sacrificio sull’altare della bellezza.
L’Adagietto di Mahler, che accompagna la scena, amplifica il senso di tragedia inevitabile. La musica avvolge Aschenbach come un requiem, cullandolo nell’ultimo istante di consapevolezza prima che il suo corpo si abbandoni alla morte.
L’eredità di un’interpretazione immortale
Con Morte a Venezia, Dirk Bogarde ha consegnato al cinema una delle performance più memorabili e strazianti di tutti i tempi. Il suo Aschenbach è il ritratto perfetto di un uomo che si lascia morire non solo per amore, ma per la presa di coscienza della propria sconfitta. La bellezza è stata la sua ragione di vita, ma anche la sua condanna.
Guardando il film oggi, il suo sguardo resta impresso nella memoria: quello sguardo carico di desiderio e di dolore, di estasi e di morte, che continua a parlarci del nostro stesso bisogno di inseguire un ideale irraggiungibile.