mercoledì 9 aprile 2025

quel senso che ci manca

L’asfalto. La sua presenza silenziosa e ubiqua ci accompagna ogni giorno, senza che quasi ce ne accorgiamo. È un palcoscenico che accoglie ogni passo che facciamo, che subisce ogni movimento del nostro corpo come se fosse destinato a non raccontare mai nulla. Non c’è pietà in questa superficie spenta, non c’è compassione per chi la percorre. È, e basta. Un luogo che non ha bisogno di giustificarsi, che non ha bisogno di spiegare la sua esistenza. Sta lì, imperturbabile, sotto i nostri piedi, come una distesa infinita che non cambia mai. Eppure, ogni nostro passo sopra di essa è come un atto di violenza silenziosa, come se avessimo bisogno di sfogare su di essa tutto ciò che ci tormenta. Ma l’asfalto, con la sua indifferenza, non risponde. Rimane là, immobile, pronto a raccogliere ogni segno che lasciamo sopra di lui, ma senza mai restituire nulla.

Ci spostiamo senza mai fermarci, correndo verso una meta che, forse, non esiste. Ogni passo ci porta più lontano dal nostro punto di partenza, ma mai più vicino a quello che pensiamo di volere. Come in un sogno in cui ci affanniamo a cercare una via d’uscita, ma senza mai trovarla. Ogni respiro che facciamo è come una domanda senza risposta, ogni battito del nostro cuore è un eco che rimbalza contro l’oscurità. L’asfalto non ha risposte, non ha conforto da offrire. È una distesa vuota, un nulla che ci inghiotte mentre cerchiamo disperatamente di trovare il nostro posto, di darci un senso. Ogni passo che facciamo sopra di lui è un passo verso l’ignoto, un passo verso una verità che forse non troveremo mai. Eppure, continuiamo a camminare. Perché non possiamo fare altro. Perché il cammino è l’unica cosa che sappiamo fare. Ogni altro pensiero, ogni altra azione, sembra essere condannato a rimanere un’illusione. L’asfalto è la realtà che ci costringe a correre, che ci costringe a muoverci, anche se non sappiamo dove andare. È un labirinto in cui ci perdiamo senza mai uscire.

Siamo soli, ma non nel senso in cui siamo soliti intenderlo. Non una solitudine da cui possiamo cercare una via di fuga, ma una solitudine che è il nostro destino, che è la nostra condanna. È come se l’asfalto, con la sua freddezza e il suo distacco, ci ricordasse ogni giorno che siamo destinati a rimanere isolati. Non c’è nessuno con cui parlare, nessuno con cui condividere il nostro cammino. Ogni passo è una solitudine che si allunga all’infinito, una solitudine che non ha fine. Eppure, in qualche modo, ci aggrappiamo a questa solitudine. Forse perché è l’unica cosa che conosciamo. Forse perché non sappiamo fare altro che camminare. Ogni passo sopra l’asfalto è una rivelazione di questa verità, una verità che non possiamo ignorare. Siamo soli, ma siamo anche in movimento. Non possiamo fermarci, anche se lo vorremmo. La corsa è l’unica cosa che ci tiene in vita, l’unica cosa che ci fa sentire ancora qualcosa. E, mentre corriamo, ci rendiamo conto che non c’è un posto dove fermarsi. Non c’è un rifugio, non c’è un angolo di pace in cui trovare conforto. Il nostro corpo si muove meccanicamente, come un ingranaggio che non smette mai di girare. Ma la nostra anima resta intrappolata in un limbo, sospesa tra il desiderio di fermarsi e la paura di farlo.

Ogni passo sopra l’asfalto è un segno di questa lotta interiore, una lotta tra il bisogno di trovare un significato e la consapevolezza che, forse, non ce ne sarà mai uno. Eppure, non possiamo fare a meno di cercarlo. Non possiamo fare a meno di cercare un motivo per continuare, un motivo per non arrenderci. L’asfalto, con la sua presenza neutra, non ci aiuta. Non ci dà risposte, non ci offre speranza. È come un vuoto in cui ci perdiamo, un vuoto che non si riempie mai, un vuoto che ci inghiotte senza pietà. Eppure, continuiamo a camminare. Perché, in fondo, non sappiamo fare altro. Ogni passo sopra l’asfalto è un tentativo di resistere, un tentativo di trovare una via di fuga che non esiste. Ogni passo è una promessa che facciamo a noi stessi, una promessa che, forse, non riusciremo mai a mantenere. Ma continuiamo comunque, perché la speranza è l’unica cosa che ci rimane.

L’asfalto è anche un riflesso di un’altra realtà, una realtà che ci è stata raccontata, una realtà che abbiamo vissuto in un altro tempo, un tempo che ora sembra lontano, quasi irreale. Era il tempo delle meringhe, dei sogni che sembravano più veri della realtà, dei ricordi che ci parlavano di una felicità che non sapevamo come afferrare. Erano tempi in cui il mondo ci sorrideva, tempi in cui la giostra non si fermava mai, in cui le bambole parlanti ci raccontavano storie che avevamo bisogno di ascoltare. Era il tempo in cui tutto era semplice, in cui l’amore non chiedeva nulla in cambio, in cui il nostro cuore batteva senza pensieri, senza paure. Era un tempo che sembrava eterno, un tempo in cui eravamo felici senza saperlo. Ma poi quel tempo è svanito, come svanisce la nebbia al mattino. La giostra è stata messa via, le bambole hanno smesso di parlare, e l’amore è diventato qualcosa di più complesso, qualcosa di difficile da raggiungere. La felicità è diventata un concetto lontano, qualcosa che non possiamo toccare, che non possiamo afferrare. E, mentre corriamo sopra l’asfalto, ci rendiamo conto che quel tempo è andato via, che non tornerà mai più.

Eppure, non possiamo fare a meno di cercarlo. Non possiamo fare a meno di cercare quei frammenti di felicità che una volta abbiamo conosciuto, quei momenti che ci hanno fatto sentire vivi, che ci hanno fatto credere che la vita fosse qualcosa di straordinario. E, mentre corriamo sopra l’asfalto, ci sembra di intravederli, quei frammenti di felicità, come luci lontane che si riflettono sulla superficie dura e grigia. Ma, ogni volta che ci avviciniamo, quelle luci svaniscono, come se fossero solo un’illusione. Eppure, continuiamo a correre, perché è l’unica cosa che possiamo fare. Perché, in fondo, correre è l’unica cosa che ci permette di sentire qualcosa, di credere che, forse, un giorno troveremo di nuovo quel senso che ci manca.