Parigi, primavera 2025. Appena si varca la soglia della Fondation Louis Vuitton, la sensazione è quella di essere assorbiti in una galassia parallela, una costellazione privata, tutta giocata tra pigmenti puri, luce californiana, pixel digitali e memoria. La nuova, smisurata retrospettiva dedicata a David Hockney – intitolata semplicemente David Hockney 25 – è un evento museale di proporzioni storiche, non solo per la quantità (oltre 400 opere), ma per la qualità dell’allestimento, del taglio curatoriale e dell’intimità emotiva che riesce a creare tra l’opera e il visitatore.
È difficile dire dove cominci davvero il viaggio: la mostra non segue un filo cronologico rigoroso, né si limita a un’antologia illustrativa. Piuttosto, costruisce un montaggio visionario in cui passato e presente si rincorrono come figure riflesse sull’acqua di una piscina, quella piscina che Hockney ha reso uno degli emblemi stessi della pittura del secondo Novecento.
I riflessi del desiderio: Hockney e il corpo della pittura
La sezione iniziale della mostra, intitolata “Desiderio e superficie”, ci restituisce il giovane Hockney degli anni Sessanta: colui che, dal grigio delle aule del Royal College of Art, fugge in California e vi trova una nuova grammatica visiva. I dipinti come A Bigger Splash (1967) e Peter Getting Out of Nick's Pool (1966) esplodono di sole e pulsione erotica, incarnando quella che si potrebbe chiamare la scoperta della pelle, del colore, della carne come spazio pittorico. C’è qualcosa di dichiaratamente queer, di dichiaratamente rivoluzionario in queste tele: il piacere come epifania artistica, il corpo maschile come paesaggio da contemplare senza pudori. È qui che Hockney afferra, forse per la prima volta, un’intuizione che attraverserà tutta la sua carriera: la pittura non è solo rappresentazione, ma un’estensione della sensualità.
Accanto a queste icone, campeggiano i grandi ritratti a doppia figura degli anni Settanta, tra cui il celebre Mr and Mrs Clark and Percy (1970-71), dove la vita borghese viene ritratta con uno sguardo che mescola affetto, critica e teatralità. Ogni posa è un sipario appena socchiuso, ogni oggetto è carico di presenze silenziose. La pittura di Hockney diventa così uno specchio abitato, un teatro dei sentimenti congelati nel tempo.
La rivoluzione della percezione: spazio, paesaggio, tecnologia
Una delle intuizioni più sorprendenti dell’allestimento parigino è la capacità di mostrare Hockney non solo come ritrattista del desiderio o cronista della dolce vita californiana, ma come esploratore instancabile della percezione. Nella grande sala centrale, immersa in una luce blu cobalto, si dispiega il corpus delle joiners, le celebri composizioni fotografiche degli anni Ottanta, dove centinaia di scatti assemblati compongono una visione multipla dello spazio, simile a un cubismo digitale ante-litteram.
Qui lo spettatore è costretto a rallentare, a interrogare le immagini, a spostarsi lateralmente: è un invito a decolonizzare lo sguardo, ad abbandonare la visione frontale e prospettica per abbracciare una simultaneità più vicina all’esperienza reale.
Ma è con le opere digitali dell’ultimo quarto di secolo che Hockney si dimostra davvero un maestro contemporaneo. La sezione intitolata Fiori, alberi, iPad è una festa sinestetica di colori fluo, cieli irreali, stagioni reinventate. Le 220 opere della serie 220 for 2020, realizzate durante i lockdown, sono esposte come un ciclo bucolico e tecnologico, dove la natura non è più un modello, ma un sogno condiviso. Ogni disegno è fatto su iPad, ma conserva un’umanità commovente: è pittura, è diario, è atto di resistenza contro l’isolamento.
Una regia dell’intimità: l’artista come curatore
L'intera mostra porta l'impronta autoriale di Hockney stesso, che ha lavorato fianco a fianco con il suo compagno e collaboratore Jean-Pierre Gonçalves de Lima alla progettazione del percorso espositivo. Non si tratta di una semplice retrospettiva, ma di una drammaturgia visiva: 11 sale, ognuna con un proprio ritmo e respiro, tra gigantografie, video-installazioni e opere immersive, alcune delle quali mai esposte prima.
C’è un’atmosfera quasi teatrale, a tratti cinematografica. In certi momenti pare di attraversare una camera della memoria; in altri, un giardino mentale che sboccia nel tempo dell’osservazione. Il suono dell’acqua, i rintocchi di una voce registrata che legge frammenti dalle lettere dell’artista, le luci che sfumano con delicatezza: tutto contribuisce a trasformare la visita in un’esperienza sinestetica, quasi meditativa.
Contemplare la gioia
Hockney ha sempre dichiarato la propria sfiducia nei confronti della malinconia. “Ci sono già abbastanza cose tristi al mondo”, ha detto in un’intervista recente. E in effetti questa mostra, pur attraversando 70 anni di lavoro e innumerevoli svolte stilistiche, non si presenta mai come elegia, ma come affermazione. Di vitalità, di desiderio, di ostinata meraviglia. Ogni stanza sembra chiedere al visitatore: puoi ancora guardare con stupore?
Come ha scritto un critico del Guardian, “è raro uscire da una mostra con la sensazione che l’arte ti abbia fatto respirare meglio. Qui succede”. E in effetti si esce dalla Fondation Louis Vuitton con gli occhi pieni di luce e un pensiero che si insinua sotto pelle: forse anche noi possiamo allenare lo sguardo alla gioia.
In un’epoca dominata dal rumore, dalla velocità e dalla saturazione, Hockney ci offre un’altra possibilità: quella di vedere – e sentire – più lentamente, più profondamente. E per un attimo, tornare a crederci.