domenica 20 aprile 2025

e in un libro di polvere leggo



e in un libro di polvere leggo
ciò che dovrà restare anche di me mentre scendo la scala

— Roberto Sanesi, L’improvviso di Milano, Guanda 1969

La polvere è ovunque. Sul legno del palco, sulle sedie vuote, persino sulla mia camicia, come se ogni fibra del mio corpo si fosse arresa prima ancora che io potessi pronunciare una parola. Una luce tagliente, bianca, ferma, pende dall’alto, mi colpisce in pieno volto. È uno di quei riflettori da teatro di provincia, inservibili, caldi come una scottatura. Intorno a me, il vuoto.

Ma io so che ci sono.

I lettori. I miei. Quelli che hanno letto mezza frase, e poi hanno deciso che bastava così. Quelli che mi hanno scambiato per un altro. Quelli che hanno sottolineato parole che non capivano, per sentirsi migliori. Quelli che hanno detto “interessante”, e non sono più tornati.

Siedo su una sedia pieghevole, al centro esatto del cerchio. Non c’è microfono, né tavolino. Ho in mano il mio libro. La copia sdrucita della prima edizione. Le pagine odorano di umidità. Quando lo apro, cigola come una porta vecchia. Leggo ad alta voce.

La frase di Sanesi. La frase che mi ossessiona. L’ho messa all’inizio del mio ultimo libro come un avvertimento. Nessuno l’ha notato, ovviamente. Nessuno nota mai l’epigrafe. Vogliono solo i fatti. Vogliono sentirsi presi per mano, accarezzati, rassicurati.

Ma io non sono mai stato uno scrittore che accarezza. Io morsico.

Mi alzo in piedi, ma le gambe tremano appena. L’aria è densa. C’è una sensazione strana, come se il tempo si fosse messo a gocciolare dalle pareti. Le ombre non si muovono, ma qualcosa si muove dentro di me. Qualcosa che scricchiola.

“Eccomi,” dico. “Sono tornato. Anche se non mi avevate chiesto di tornare.”

La mia voce è un vetro rotto. Nessuno applaude, ma io sento i loro pensieri. Li vedo. Hanno in mano i cellulari. Alcuni si domandano se questo sia teatro o un esperimento sociale. Altri stanno già preparando una recensione: ‘interessante, disturbante, autoreferenziale’.

Mi piego in avanti.
“Lo so cosa vi aspettate. Che io mi metta a piangere. Che vi dica che è stato difficile. Che vi chieda perdono. Ma non ho nessuna intenzione di farlo. Anzi. Sono qui per dirvi che ho scritto tutto questo solo per disprezzarvi con stile.”

Una pausa. Il vuoto si allarga.

“Io vi conosco. Conosco la vostra fame. Non è fame di parole. È fame di specchi. Volete specchiarvi nella tristezza altrui per sentirvi più leggeri. E quando un libro non vi assolve, quando un autore vi guarda in faccia e non vi ringrazia, allora lo chiudete e ve ne andate.
E fate bene. Non siete mai stati lettori. Siete consumatori di rovina impacchettata.”

Faccio il giro del palco. I miei passi sono lenti. Ogni scarpa sbatte come una protesta.
“Pensavo che mi sareste venuti incontro. Pensavo che almeno uno, uno solo, avrebbe capito. Ma voi non leggete. Sfilate. Vi pascete della rovina altrui per potervi dire che state bene.”

Mi fermo di colpo. Apro il libro. Rileggo la frase di Sanesi.
“In un libro di polvere leggo ciò che dovrà restare anche di me…”

“Di me, sì. Perché questa è la mia eredità: un’eco, un rigo sbiadito, qualche traccia lasciata dentro una biblioteca in cui nessuno entra più. Scrivo per nessuno. Lo so. Ma continuo. Come quei condannati che battono il muro della cella per sentire se c’è qualcuno oltre.”

Sbatto il libro a terra. Fa un tonfo sordo, poi resta lì, aperto come un cadavere con la bocca spalancata.

“Non vi piaccio? Bene. Non piaccio nemmeno a me stesso. Ma almeno ho avuto il coraggio di restare. Di continuare a parlare. Di non vendervi il nulla con un bel fiocco.”

Mi inginocchio. Non per supplicare. Per essere più vicino alla polvere. Mi lecco le dita e ne raccolgo un po’. La guardo.

“La vedete? È così che divento. È così che finirò. Ma almeno, quando non ci sarò più, non potrete dire che non ve l’avevo detto. È scritto ovunque. Anche qui.”

Mi alzo di nuovo. Il corpo è pesante. Ma sono ancora in piedi.
“Volevate l’ultima performance? Eccola. Ma non sarà la solita. Non ci sarà saluto, né dedica. Solo questo. Una stanza vuota, un libro per terra, e io che vi accuso di non essere mai stati davvero qui.”

Silenzio. E poi, come un refolo di vento, un sospiro. Forse mio. Forse di qualcun altro.
Non importa.

La scena è finita. Ma io no. Io continuo a parlare.
Anche se nessuno ascolta.
Anche se l’unico lettore che mi resta è la polvere.