venerdì 4 aprile 2025

Vortex

Esiste un’applicazione che sembra non cercare nulla, eppure è in grado di farti inciampare su coincidenze apparentemente randomiche, disseminate a caso nello spazio che ti circonda. È come una trappola gentile: ti fa credere che ci sia un disegno sottile che ti guida, ma il disegno scompare un istante prima che tu possa afferrarlo. Ti illude di aver trovato un filo che lega tutto, ma quel filo si dissolve come sabbia tra le dita, lasciandoti con la sensazione di aver sfiorato un senso che, in realtà, non c'era. E così ti fermi un istante, nel silenzio del corpo, del pensiero, della parola scritta, cercando di capire se ci sia davvero qualcosa o se il mondo non sia altro che una sequenza di eventi privi di una logica superiore. La ricerca stessa diventa un gioco senza fine, dove l’unico obiettivo sembra essere il continuo movimento, l’incessante sforzo di scoprire, senza mai arrivare alla meta. Eppure, è proprio questo movimento che si fa strada nella tua coscienza, come una risposta a un’esigenza che non ha forma, ma che ti spinge a non fermarti mai. Forse, alla fine, non è il risultato della ricerca che conta, ma l’esperienza stessa di cercare. L’esperienza di confrontarsi con l’impossibilità di risolvere, ma al contempo con la possibilità di rimanere in quella tensione, di accettare la contraddizione tra il cercare e il non trovare. È questo il punto: la ricerca è il destino, ma non è mai una destinazione. Il cammino è tutto. Il resto è solo un sogno di un giorno che non arriverà mai.

Nel vuoto della parola scritta, nel silenzio profondo del corpo, nel brancicante tumulto del pensiero che si perde tra le pieghe dell’esistenza, si svela una teoria della distanza. Prima di ogni altra cosa, prima di qualsiasi definizione che tu voglia dare a ciò che ti circonda, la distanza emerge come una misura fondamentale. La distanza non è una separazione, ma una forma di relazione. Non è un vuoto da colmare, ma un campo di possibilità. La distanza tra noi e gli altri, tra noi e il mondo, è ciò che permette di riflettere, ma anche di non essere sopraffatti dalla vicinanza. Ci permette di respirare, di osservare, di prendere distanza da ciò che accade. Ma è anche ciò che impedisce una vera connessione, un contatto autentico, una fusione tra esseri umani. La distanza è il nostro limite, ma anche la nostra libertà. Ci separa, ma ci dà anche spazio per essere chi siamo. Tuttavia, questa distanza non è mai statica. È una dimensione fluida, in continua mutazione, che cambia in base ai nostri stati d’animo, alle circostanze, alle scelte che facciamo. Si allunga e si accorcia, si espande e si contrae, a seconda di ciò che siamo in grado di tollerare. Eppure, per quanto ci sforziamo di controllarla, la distanza sfugge. Più cerchiamo di avvicinarci, più essa si allontana. E così, nell'oscillazione tra avvicinarsi e allontanarsi, si disegna il nostro rapporto con il mondo: un gioco di attrazione e repulsione, di desiderio e timore, di vicinanza e separazione. La distanza è il nostro specchio: ci riflette, ma non ci lascia mai vedere chiaramente.

Le persone sane, almeno quelle che amano definirsi tali, dovrebbero essere in grado di rischiare qualcosa. Ma quale rischio si può correre in un mondo che premia la convenzione e la sicurezza, che celebra il successo e rifiuta il fallimento? Se ci guardiamo attorno, vediamo solo il trionfo del conformismo, della normalità, dell’adeguamento. Eppure, quando ci si trova di fronte all’imprevisto, al caos, alla follia, si capisce che la vera forza non è nel mantenere tutto sotto controllo, ma nel sapersi arrendere. Nella sconfitta c’è un’altra verità, una verità che la cultura dominante fatica a riconoscere. Come aveva scritto Ennio Flaiano: “In un paese come il nostro, la follia, se non è remunerativa, è considerata con disprezzo.” La follia, tuttavia, non è una malattia, ma una forma di resistenza, una via per sfuggire ai dogmi che ci imprigionano. La follia è un’altra forma di libertà, una libertà che non si piega al sistema, che non accetta le regole stabilite, che sfida ogni ordine prestabilito. È un modo per dire che, forse, il mondo non è come ce lo raccontano, e che c’è sempre un altro modo di vedere, di pensare, di vivere. Chi riesce a vivere con il caos, a convivere con l’incertezza, trova una forza che non dipende dalla sicurezza. Non è la certezza che ci salva, ma la capacità di affrontare l’incertezza con il sorriso sulle labbra, di camminare nel buio senza paura. La follia, quindi, è la vera libertà, quella che ci permette di sfidare le convenzioni, di pensare oltre, di sognare ad occhi aperti. Non c'è una via più alta per la conoscenza, se non quella che passa attraverso il rischio, la sperimentazione, il fallimento. Eppure, il nostro mondo preferisce premiare chi resta in superficie, chi non osa, chi non si spinge oltre il confine del conosciuto.

La follia è anche il nostro modo di rispondere alla banalità di una cultura che si nutre di instant book e di narrazioni facili, come quelle sul coronavirus che hanno invaso gli scaffali delle librerie in quei mesi convulsi. Gli autori che scrivono per approfittare dell’occasione sembrano non capire che il tempo e il caso sono arbitri imparziali. La corsa non è degli agili, né la guerra dei forti. Non è la rapidità, ma la resistenza che conta. Eppure, la corsa al successo, al riconoscimento, al profitto, è la vera miseria del nostro tempo. La lotta per emergere in un mondo che premia la visibilità, non la sostanza, è una corsa senza fine che finisce nel vuoto. Ogni volta che credi di aver raggiunto la vetta, ti accorgi che quella vetta è solo un miraggio. È come una tempesta che ti spinge sempre più lontano dalla meta. Non esistono eroi nella società moderna, solo marionette che si muovono a comando del vento delle mode, del momento, del mercato. La verità è che il tempo e il caso raggiungono tutti, e nessuno è davvero esente dalla loro irruzione. La battaglia per la visibilità, il successo, il riconoscimento, finisce per essere una lotta per il nulla.

Nel frattempo, continuo a chiedermi se siano state le mie scelte a determinare il mio destino, o se sia stato il destino a fare di me ciò che sono. La cultura occidentale, così concentrata sul culto del vincitore, non sa cosa fare con i perdenti. Ma, come già detto, è nella sconfitta che si trova la gloria dell’uomo. La nostra società non è in grado di accettare la sconfitta. La sconfitta è vista come una vergogna, qualcosa da nascondere, da rimuovere. Eppure, è proprio nella sconfitta che si misura la grandezza dell’animo umano. Non è chi vince che fa la differenza, ma chi riesce a rimanere integro anche quando tutto sembra andare storto. La sconfitta ci insegna più della vittoria, ci costringe a guardare in faccia la realtà, a metterci in discussione, a crescere. Forse è questa la vera forza: non vincere, ma sapere come affrontare la perdita, come risorgere dalle proprie ceneri. Ma per fare questo, bisogna imparare a vivere senza ricordi, senza legami al passato. Vivere senza il peso della memoria che spesso ci intrappola, che ci impedisce di guardare avanti. È nel presente, nel respiro di ogni attimo, che si nasconde la vera libertà. Eppure, anche quando crediamo di vivere nel presente, il passato è sempre lì, a pesarci sulle spalle. L’incapacità di liberarsi dai ricordi è la nostra vera prigione, quella che ci impedisce di essere veramente liberi. Ma forse, proprio nel momento in cui accettiamo che non possiamo sfuggire al passato, che possiamo solo imparare a convivere con esso, forse allora possiamo trovare la libertà che cerchiamo. E forse, proprio in questo attimo di resa, potremo finalmente abbracciare l’incertezza, il caos, l’imprevisto, senza paura.