"La notte di San Lorenzo" (1982) dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani è un film cardine del cinema italiano del secondo Novecento, per la sua capacità di intrecciare memoria collettiva, mitopoiesi e realismo poetico. Ambientato nella Toscana del 1944 durante la ritirata tedesca, è il racconto, filtrato dagli occhi della piccola Cecilia ormai adulta, di una comunità contadina che cerca la libertà sfuggendo ai rastrellamenti nazisti. Ma è anche, e soprattutto, una rievocazione epica che trasfigura l’esperienza storica in leggenda popolare, dove l’infanzia diventa testimone privilegiata della verità.
I Taviani adottano uno sguardo lirico, in parte debitore di Pasolini e in parte del neorealismo, ma se ne distaccano per il tono visionario e simbolico. Non c'è solo la cronaca della guerra, ma la sua rielaborazione immaginifica, una narrazione che abbraccia il mito e il sogno. La protagonista-bambina osserva e racconta come in una fiaba antica: la violenza non viene negata, ma viene ritrasfigurata nella forma del racconto orale – la stessa che trasforma un episodio tragico in una stella cadente nel cielo della notte di San Lorenzo.
Il film gioca continuamente sul confine tra realtà e leggenda: l’eroismo dei contadini, la crudeltà dei fascisti, la morte e l’amore, tutto si carica di un valore archetipico. Il partigiano Galvano (nome arturiano, non a caso) incarna un’ideale cavalleresco che si scioglie in tragedia. Le immagini si fanno pittoriche e sacre – memorabile la madre che allatta il neonato mentre cade sotto i colpi dei soldati, immagine che richiama la Pietà michelangiolesca o certa pittura fiamminga.
Pur essendo un’opera profondamente politica – il fascismo viene raccontato con la crudezza dei suoi crimini, e la Resistenza come scelta etica e umana – i Taviani rifiutano il panegirico. L’utopia contadina, l’idea di una libertà semplice e condivisa, si scontra con la realtà storica. Ma proprio nel racconto, nel ricordo trasmesso, sopravvive una forma di resistenza: la memoria come atto rivoluzionario.
"La notte di San Lorenzo" è anche un film profondamente corale, in cui i singoli personaggi esistono in funzione del gruppo, della comunità. Non c’è un eroe solitario, ma una coralità che ricorda il teatro greco, o certi affreschi medievali. La lingua, poi, è quella dei contadini – il dialetto toscano – ma sublimata in melodia narrativa, come fosse una ballata epica.
Opera intensa e struggente, "La notte di San Lorenzo" è un inno alla memoria, all’utopia e alla narrazione come salvezza. I Taviani creano un mondo in cui la storia si fa canto, in cui la morte non è l’ultima parola, ma solo un momento nel fluire di una leggenda. Un film che, come le stelle nella notte di agosto, lascia una scia luminosa nella coscienza dello spettatore.
Riflessione sulla ricezione critica internazionale e confronto con altri film della Resistenza
"La notte di San Lorenzo" fu accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, al punto da vincere il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1982. In Francia venne salutato come una delle vette del cinema europeo contemporaneo, accostato a Renoir per la sua delicatezza narrativa e a Buñuel per le incursioni oniriche. Negli Stati Uniti, la critica più attenta – da Pauline Kael al New York Times – ne apprezzò la capacità di fondere storia e mito, tragedia e incanto, segnalando la sua radicale differenza rispetto alla narrazione hollywoodiana della guerra, che tendeva a isolare l’individuo eroico a discapito della coralità.
Nel panorama italiano e internazionale dei film sulla Resistenza, "La notte di San Lorenzo" si staglia come un'opera irriducibilmente poetica rispetto ai suoi predecessori. Se il neorealismo di Rossellini in "Roma città aperta" (1945) o "Paisà" (1946) cercava l’urgenza documentaria, e se "Il partigiano Johnny" (2000) di Guido Chiesa – tratto dal romanzo di Fenoglio – insisteva su una visione disillusa e frammentaria della lotta, i Taviani scelgono invece la via dell’epos condiviso. In loro la guerra non è mai solo un fatto storico ma una rappresentazione rituale, che richiama lo spirito dell’aedo, del cantore popolare.
Rispetto a un film come "Una giornata particolare" (1977) di Ettore Scola, che si concentra sulla solitudine dell’individuo sotto il fascismo, "La notte di San Lorenzo" celebra la possibilità (anche utopica) di una comunità solidale. Se "L’Agnese va a morire" di Montaldo (1976) punta sull’eroismo individuale femminile, i Taviani raccontano un'epopea collettiva in cui ogni figura, anche la più marginale, contribuisce al disegno della memoria.
In questo senso, l’opera dei fratelli Taviani si distingue anche per la sua dimensione transculturale: il racconto della Resistenza italiana diventa leggibile ovunque si sia vissuta una forma di oppressione, di lotta popolare, di trauma da elaborare. La favola nera di Cecilia ha il respiro universale delle leggende tramandate attorno al fuoco – un fuoco che non è solo della guerra, ma dell’umana necessità di raccontare per sopravvivere.
Lettura psicanalitica e antropologica di “La notte di San Lorenzo”
Il film dei fratelli Taviani si presta a una lettura psicanalitica non tanto per i suoi contenuti esplicitamente interiori, quanto per la struttura onirica e regressiva del racconto. Fin dalla scelta del narratore – la piccola Cecilia che, adulta, rievoca il trauma – siamo di fronte a una rimozione che cerca di farsi ricordo, a una memoria che non è lineare ma frammentaria, simbolica, punteggiata di figure archetipiche. Il trauma della guerra, anziché venire elaborato razionalmente, assume la forma del racconto mitico: la madre martire, il traditore, l’eroe, il fiume da attraversare, l’idillio interrotto – sono tutti topoi dell’inconscio collettivo, che Jung avrebbe definito immagini primordiali emergenti dal profondo.
Il viaggio della comunità, con le sue soste, le sue perdite, le sue visioni, si configura come una discesa nel “bosco dell’inconscio”, dove ogni personaggio attraversa una soglia. Lo stesso cielo stellato della notte di San Lorenzo non è solo una cornice astronomica: è la volta celeste delle proiezioni desideranti, la mappa simbolica della speranza e del lutto. La morte, costantemente presente, viene ritualizzata in scene che ricordano il teatro sacro o le danze funebri arcaiche, come quando i contadini si uniscono per piangere in silenzio sotto una pioggia di proiettili.
In chiave antropologica, il film rappresenta un rito di passaggio collettivo. La comunità contadina, minacciata dallo sterminio e dal tradimento, è costretta a trasformarsi: abbandona la casa, la chiesa, il villaggio – i luoghi dell’ordine conosciuto – e affronta una zona liminale, simile ai deserti attraversati nei riti iniziatici di molte culture tradizionali. L’attraversamento della campagna toscana diventa un cammino esistenziale, scandito da prove (i rastrellamenti, la fame, le perdite) e da apparizioni (i partigiani, i bambini, i segni del cielo) che rievocano i momenti fondativi di una mitologia arcaica.
L’antropologo Victor Turner parlerebbe di “communitas”: un momento in cui le strutture sociali si dissolvono e un nuovo legame orizzontale e affettivo prende forma. Questo si vede nella fusione tra i personaggi, nella loro solidarietà spontanea, e nel superamento delle vecchie gerarchie. La Resistenza, nel film, non è solo un fatto politico, ma un’arcaica ri-nascita del gruppo attraverso il dolore e la bellezza.
In tutto questo, l’elemento infantile – lo sguardo di Cecilia – è esso stesso un dispositivo antropologico: in molte culture, il bambino è colui che può vedere l’invisibile, che non ha ancora dimenticato il linguaggio dei miti. È lo sciamano ingenuo del nuovo mondo, testimone e futuro della tribù.
Antropologia del lutto e simbologia della terra e del sangue ne “La notte di San Lorenzo”
Al centro di “La notte di San Lorenzo”, il lutto non è mai un fatto privato, ma un evento comunitario, ritualizzato, che si colloca perfettamente nel quadro dell’antropologia del cordoglio così come teorizzata da studiosi come Arnold van Gennep e Gilbert Durand: la morte non interrompe la vita, ma la trasforma e la riordina simbolicamente, attraverso gesti, parole, silenzi condivisi.
Ogni morte nel film è accompagnata da una forma arcaica di veglia o commemorazione: una madre che si inginocchia sul corpo del figlio, i compagni che si stringono muti intorno a un cadavere, il pianto trattenuto che si fonde con i suoni della natura. Non ci sono funerali canonici – la guerra li nega – ma si assiste a una reinvenzione spontanea del lutto come gesto sacro, come bisogno di elaborare collettivamente l’assenza. È una sorta di teatro del dolore, in cui i vivi si confrontano con i morti e chiedono loro – in silenzio – un senso.
La terra, in questo contesto, è sacra e materna. Non è solo il paesaggio della fuga, ma il grembo che accoglie i morti, la matrice che tutto assorbe e restituisce. I contadini la calpestano, la coltivano, ci si nascondono, vi affondano letteralmente, come nella scena in cui alcuni si gettano nelle fosse per sfuggire ai rastrellamenti: la terra è rifugio e tomba, ventre e confine. Le radici culturali della civiltà contadina – che i Taviani conoscono intimamente – emergono in modo sottile ma potente: la terra non è solo proprietà, ma entità vivente, testimone muta del dolore umano.
Il sangue, nel film, è un elemento rituale e non spettacolare. Mai esibito con violenza compiaciuta, è però sempre simbolicamente carico: bagna i volti, le mani, il seno della madre uccisa mentre allatta, si mescola alla polvere, si imprime nella memoria visiva della bambina-narratrice. È sangue sacrificale, non solo di morte ma di passaggio: un sangue che – come nei riti d’iniziazione – suggella la fine di un’epoca e l’ingresso in una nuova coscienza. Il sangue che cola non è solo perdita, è atto fondativo, origine mitica di una nuova comunità.
In tal senso, il film dei Taviani dialoga profondamente con le radici archetipiche della ritualità umana: il dolore non viene né rimosso né teatralizzato, ma assorbito in un ritmo antico, ciclico, in cui morte e rinascita sono aspetti inscindibili della stessa energia vitale. L’immagine finale, in cui la bambina guarda le stelle e parla del padre perduto, sigilla il legame tra cielo e terra, tra lutto e racconto, tra il sangue versato e la speranza che germoglia.
Oralità, mito e infanzia in “La notte di San Lorenzo”
Al centro del film dei fratelli Taviani pulsa un cuore narrante: quello della piccola Cecilia, la cui voce adulta – in apertura e chiusura – incornicia la vicenda come un racconto orale, tramandato, custodito, forse reinventato. Questo dispositivo introduce lo spettatore in un universo in cui la memoria non è documento, ma narrazione mitica, e in cui l’infanzia diventa il filtro attraverso cui l’orrore viene metabolizzato e trasformato.
La scelta della voce bambina come mediatrice è radicale: Cecilia non “ricorda” in senso realistico, ma ri-crea. La sua narrazione è punteggiata di esitazioni, deformazioni, immagini folgoranti che solo un’immaginazione infantile può concepire (l’uomo con la falce che uccide i fascisti, la donna nuda come un’apparizione etrusca, la notte attraversata dai desideri). In questo senso, la parola orale si fa mitopoiesi: non si limita a riferire il passato, ma lo fonda poeticamente, lo plasma in forma di mito, lo carica di simboli.
L’infanzia non è solo una condizione biologica, ma una posizione poetica, una soglia fra il visibile e l’invisibile. La piccola Cecilia è testimone di eventi che non comprende razionalmente, ma che elabora con la forza immaginativa propria dei riti d’origine. È la sacerdotessa laica del racconto, colei che raccoglie i frammenti e li tiene insieme con la colla dell’invenzione.
Nel mondo contadino che il film rappresenta, l’oralità è ancora la forma primaria della conoscenza: le storie si tramandano a voce, i morti vengono ricordati nel racconto, le gesta eroiche si mescolano alle leggende locali. L’intero film potrebbe essere immaginato come un focolare attorno al quale una bambina racconta la sua “notte”, che diventa quella di tutti. È questa tensione tra autobiografia e mito, tra esperienza individuale e archetipo collettivo, che fa del film una moderna favola epica.
I Taviani, con straordinaria finezza, mettono in scena la genesi di un’epopea popolare: non il grande racconto nazionale, ma quello più fragile e duraturo, conservato nei sussurri delle nonne, nei giochi interrotti, nei silenzi dei sopravvissuti. L’infanzia, in questa chiave, non è solo testimone del passato: è la custode del futuro della memoria, il tramite attraverso cui il mito continuerà a essere raccontato, trasformandosi ogni volta in una nuova verità poetica.
Il ruolo del femminile e il linguaggio visivo-musicale come strumenti del mito in “La notte di San Lorenzo”
Il femminile attraversa “La notte di San Lorenzo” come una forza generatrice, protettiva e sapienziale, incarnando sia la memoria che il desiderio, la custodia della vita e la trasmissione del mito. Le donne nel film non sono mai semplici comparse o vittime passive della Storia: sono nodi attivi dell’esperienza, catalizzatrici di tensioni emotive, custodi di legami, portatrici di linguaggi.
La narrazione stessa è femminile: affidata a Cecilia, la bambina che ricorda, è la donna adulta che parla, rievocando la notte attraverso un linguaggio che coniuga stupore e ferita. Ma attorno a lei si muovono altre figure chiave: la madre che si immola col bambino al seno, archetipo della Pietà e dell’amore assoluto; la giovane donna che si spoglia e si offre come pace erotica e ancestrale, evocazione di una dea silvana; le anziane del villaggio, che portano sul corpo i segni della continuità generazionale, della terra che resiste.
Questo universo femminile, lontano dagli stereotipi bellici della Resistenza virile, non è mai debolezza, ma linfa. Le donne custodiscono le storie, leggono i segni, gestiscono il quotidiano anche in fuga, anche nel pericolo. In loro si iscrive la dimensione ciclica del tempo, contrapposta al tempo lineare e distruttivo della guerra. Il corpo femminile è terra feconda, soglia, dimora: non viene mostrato per essere violato, ma per essere celebrato come luogo simbolico del ritorno.
Parallelamente, il linguaggio visivo e musicale è ciò che rende questa dimensione mitica palpabile, incarnata. La fotografia di Franco Di Giacomo trasfigura la campagna toscana in paesaggio dell’anima: ogni albero, ogni campo, ogni rudere diventa teatro archetipico. Le luci non naturalistiche, quasi caravaggesche, scolpiscono i volti con ombre che li rendono più antichi, più sacri. I colori tenui, impastati, restituiscono un mondo che è già ricordo, sospeso fra realtà e sogno.
La musica, d’altro canto, non illustra mai, ma agisce per evocazioni profonde. I canti popolari, le melodie rarefatte, le pause sonore: tutto concorre a costruire un tempo del racconto che è sacro e sospeso, come quello della tragedia greca o del racconto epico. La colonna sonora diventa tessuto emotivo, amplificando la potenza simbolica delle immagini, talvolta perfino anticipando la commozione, come quando il silenzio accompagna una morte prima ancora che arrivi il pianto.
Questo linguaggio misto – visivo, musicale, femminile, infantile – compone una liturgia laica, dove la Resistenza non è solo lotta politica, ma atto di fondazione simbolica, mito d’origine di una comunità, rito di passaggio da un mondo arcaico a uno nuovo, tutto da immaginare. I Taviani fanno del loro cinema una forma di oralità visiva, in cui ogni gesto, ogni sguardo, ogni suono è parola antica che si rinnova. È un cinema che non racconta il passato, lo canta.
In quest’opera complessa e delicata, i fratelli Taviani non ci consegnano soltanto un film sulla Resistenza, né un apologo civile, né tanto meno un dramma storico. “La notte di San Lorenzo” è, piuttosto, un dispositivo rituale che lavora al cuore del trauma, una macchina mitografica che unisce e confonde i registri del reale e dell’immaginario, dell’esperienza vissuta e della sua trasfigurazione simbolica. È un’opera che — come avrebbe detto Walter Benjamin — non si dispone secondo la linearità della cronaca, ma esplode nel tempo come una costellazione, in cui presente e passato si intrecciano secondo logiche affettive, memoriali, quasi medianiche. Non è la verità documentale che i Taviani inseguono, ma la verità dell’emozione, del ricordo, della rielaborazione collettiva.
E proprio in questo farsi mito del dolore si radica la grande forza teorica e visionaria del film. Benjamin ci invita a non fidarci della narrazione dei vincitori, a cercare nelle pieghe minori, nei frammenti, nelle rovine della Storia quelle scintille che ancora bruciano: i Taviani le trovano nel volto impolverato di una madre, nello sguardo spalancato di un bambino, nella corsa silenziosa di un popolo in fuga. Ogni immagine è al tempo stesso testimonianza e visione; ogni scena, anche la più quotidiana, si carica di una qualità iconica che le conferisce il peso della leggenda. “Ogni istante è la piccola porta attraverso cui può entrare il Messia”, scriveva Benjamin: in La notte di San Lorenzo, ogni attimo sembra potenzialmente salvifico, ogni gesto può aprire una breccia nella catastrofe.
Questa dimensione di visione e apparizione trova una risonanza profonda nel pensiero di Georges Didi-Huberman, per il quale l’immagine non è mai mera rappresentazione, ma traccia, impronta, sopravvivenza del dolore nel visibile. Le immagini del film sono, in questo senso, immagini che hanno pianto, che portano in sé la memoria del pianto, e che ci chiedono non di comprendere ma di compatire, cioè di patire insieme. L’infanzia che filtra e rifrange la narrazione — e che ne costituisce l’ossatura invisibile — è un’occasione per interrogare non tanto ciò che è accaduto, ma come ciò che è accaduto continua a vivere, a sopravvivere nei corpi, nei racconti, nei gesti, nelle fantasie. L’infanzia è lo spazio dove il trauma si traveste da sogno, dove l’orrore si vela di meraviglia per poter essere tollerato, e infine ricordato.
Ma è soprattutto nella luce dell’antropologia del lutto — quella che Ernesto de Martino ha sondato con radicale lucidità — che il film dispiega la sua vocazione più profonda. De Martino parlava della “crisi della presenza”, di quei momenti storici e biografici in cui il soggetto è messo così duramente alla prova da rischiare di perdere sé stesso, la propria forma, la propria coerenza. La guerra, la morte collettiva, la perdita del mondo abituale sono tra queste soglie critiche: e La notte di San Lorenzo le attraversa tutte, non per narrarle dall’esterno, ma per abitarle con il linguaggio del rito. I personaggi non si limitano a vivere la Storia: la attraversano come una processione funebre che è anche pellegrinaggio simbolico, rito di passaggio verso un nuovo assetto dell’umano.
La terra, il sangue, il corpo, la madre: questi elementi non sono accessori alla narrazione, ma strutture profonde di un universo simbolico che il film compone con consapevolezza quasi etnologica. La terra è grembo e sepolcro; il sangue è violenza ma anche semenza; la madre è la sola figura capace di congiungere lutto e speranza. Le donne del film — le contadine, le anziane, le madri — non agiscono come eroine, ma come custodi del senso, depositarie inconsapevoli di un sapere millenario che si esprime nei gesti, nei silenzi, nel modo di toccare la terra o di sfamare un neonato. Il femminile è qui principio ontologico, non categoria sociale: è il volto della resistenza profonda, quella che non combatte con le armi ma con la sopravvivenza del senso, con la tenuta dell’umano di fronte alla catastrofe.
In questa chiave, la stessa struttura narrativa — fondata sull’oralità, sulla voce che racconta, sul passaggio dalla bambina alla donna narrante — assume una valenza mitopoietica potentissima. Il mito, come aveva intuito Paul Ricoeur, nasce là dove la parola si fa carne del racconto, dove l’evento smette di essere cronaca per farsi forma. Ecco allora che La notte di San Lorenzo non è solo un film su “ciò che è accaduto” ma sull’atto stesso del raccontare ciò che è accaduto, sulla costruzione del mito come forma comunitaria di elaborazione del lutto. Raccontare, per i Taviani, non è un gesto di dominio ma un atto di cura, un’offerta, un rito di restituzione.
È in questo punto che il film raggiunge la sua vetta teorica più alta: nel fare del cinema uno strumento di sopravvivenza simbolica, nel trasformare l’immagine in un campo di tensione tra ciò che è stato e ciò che può ancora essere salvato. Come i pensatori della soglia — Benjamin, De Martino, Didi-Huberman — anche i Taviani credono che esista una forma possibile di riscatto, non nel trionfo ma nella fedeltà al frammento, nella custodia del dolore che diventa canto, nella possibilità che un giorno, attorno a un fuoco, una bambina racconti ancora quella notte, la notte di San Lorenzo, e che qualcuno, ascoltando, possa sentire il peso di ciò che è stato, e insieme la promessa di ciò che potrebbe ancora venire.