sabato 26 aprile 2025

Robert Mapplethorpe: estetica, provocazione e resistenza nel corpo e nella fotografia

Il catalogo della mostra Robert Mapplethorpe, curato da Germano Celant nel 1992, si impone come una delle testimonianze più significative nella storia recente della critica fotografica e dell'interpretazione dell'arte contemporanea. Non si tratta semplicemente di una raccolta sistematica delle opere più emblematiche di Mapplethorpe, ma di un lavoro di mediazione culturale che mira a restituire la complessità della sua figura, intrecciando sapientemente l'analisi estetica con la riflessione sociale, politica e personale. L'importanza di questo catalogo risiede nell'aver saputo cogliere, senza edulcorazioni né censure, l'essenza profonda del lavoro di un artista che ha saputo mettere a nudo — letteralmente e metaforicamente — il corpo, il desiderio e la vulnerabilità dell’essere umano.

La mostra, svoltasi tra Venezia e Humlebæk, ha rappresentato un momento fondamentale di confronto per il pubblico europeo, che si è trovato davanti a un'opera capace di turbare, commuovere e provocare interrogativi esistenziali. Mapplethorpe, figura carismatica e controversa, non si limitava a documentare il corpo umano: ne esplorava le zone d'ombra, ne esaltava la fisicità e, nello stesso tempo, ne svelava la fragilità. L’intervento critico di Germano Celant ha avuto un ruolo essenziale nel guidare la ricezione dell’opera di Mapplethorpe fuori da interpretazioni riduttive o puramente scandalistiche. Celant, che già aveva dato prova del suo acume nella definizione dell’Arte Povera e nella comprensione delle nuove forme artistiche emergenti, ha trattato Mapplethorpe come un artista totale, in cui la fotografia non è fine a se stessa, ma diventa uno strumento per incidere nella carne viva della società.

In questo senso, la collaborazione fra Mapplethorpe e Celant, pur nella distanza temporale — l'artista era morto da tre anni quando il catalogo vide la luce — assume una valenza simbolica fortissima: Celant si fa interprete di un lascito artistico e umano che non può essere semplicemente archiviato nella categoria della "provocazione". Le fotografie di Mapplethorpe, il loro linguaggio della carne e della luce, la loro crudezza e precisione, sono accolte da Celant come il frutto di una volontà conoscitiva autentica, che affonda le radici nella storia dell'arte occidentale — da Michelangelo a Man Ray — per infrangere i tabù della modernità.

Il catalogo stesso si presenta come un’opera d’arte editoriale: ogni pagina è concepita per dialogare visivamente e concettualmente con il lettore, proponendo non una semplice carrellata di immagini, ma un percorso immersivo nella poetica di Mapplethorpe. Le fotografie selezionate, accompagnate da saggi critici e riflessioni profonde, costruiscono una narrazione stratificata, dove la ricerca del bello si intreccia costantemente alla meditazione sulla morte, sul desiderio, sulla resistenza individuale contro l'annientamento sociale.

La questione dell'AIDS, che negli anni Ottanta aveva devastato la comunità artistica e gay internazionale, emerge nel catalogo non come semplice sfondo biografico, ma come parte integrante della tensione che attraversa tutta l'opera di Mapplethorpe. La sua malattia, diagnosticata ufficialmente nel 1986, diventò un catalizzatore della sua produzione artistica finale: anziché ritirarsi, Mapplethorpe accelerò, concentrando il suo lavoro sulla perfezione formale e su una bellezza quasi esasperata, come se volesse strappare alla morte ogni residuo di vita, ogni frammento di dignità.

In questo senso, il progetto di Celant non è soltanto un omaggio postumo, ma un gesto politico. In un periodo in cui l'AIDS era ancora profondamente stigmatizzato, e spesso la malattia veniva interpretata come una sorta di "punizione" sociale inflitta agli omosessuali, dedicare una grande mostra a Mapplethorpe significava affermare pubblicamente che l'arte, il corpo e la sessualità non erano terreni da censurare o da rimuovere, ma luoghi vitali di resistenza e di memoria.

L'opera fotografica di Mapplethorpe, così come viene proposta nel catalogo, assume una doppia funzione: da una parte, la documentazione della bellezza e della sensualità del corpo umano in tutta la sua varietà e diversità; dall'altra, una meditazione sulla vulnerabilità della carne, sulla sua esposizione al tempo, alla malattia e alla morte. Germano Celant sottolinea nei suoi testi come questa duplicità sia intrinseca al linguaggio fotografico di Mapplethorpe: la luce che accarezza i corpi è la stessa che ne mette in evidenza i segni della caducità; l’erotismo che traspare dagli scatti è sempre attraversato da una consapevolezza della sua inevitabile dissoluzione.

Nel trattare il corpo umano come un campo di battaglia tra vita e morte, tra desiderio e decomposizione, Mapplethorpe si collega a una lunga tradizione artistica che va dalle vanitas seicentesche fino alla body art contemporanea. Ma il suo sguardo resta inconfondibile: formale, distaccato, quasi clinico, eppure intriso di una tensione emotiva sotterranea che esplode nella perfezione dei dettagli, nella lucentezza della pelle, nella tensione muscolare catturata dal bianco e nero assoluto delle sue stampe.

La luce, elemento centrale nella sua estetica, non è mai neutra: diventa una lama sottile che incide la superficie dei corpi, ne esalta le curve, ne svela le imperfezioni. La fotografia, nelle mani di Mapplethorpe, si trasforma in un atto di dissezione amorosa, un'analisi che è anche celebrazione. Celant coglie perfettamente questa ambivalenza e la traduce in una costruzione curatoriale che invita il visitatore a non fermarsi al primo impatto visivo, ma a leggere ogni immagine come un palinsesto di significati sociali, politici, esistenziali.

Il rapporto tra Mapplethorpe e i soggetti marginalizzati — uomini neri, corpi queer, performer, atleti — viene restituito nella mostra e nel catalogo non come un gesto esotico o voyeuristico, ma come un atto di riconoscimento e di valorizzazione. In anni in cui la rappresentazione delle minoranze era ancora carica di stereotipi e pregiudizi, Mapplethorpe offriva una visione alternativa, potente, che metteva questi corpi al centro della scena, li nobilitava attraverso la forma classica, li innalzava a simboli universali di forza, bellezza e resilienza.

Germano Celant, consapevole di questo approccio, costruisce un apparato critico che non si limita alla descrizione, ma che analizza il contesto politico in cui l'opera di Mapplethorpe si è sviluppata. La crisi dell'AIDS, l’emarginazione della comunità LGBTQ+, le tensioni razziali, il dibattito sull'arte come spazio di libertà o di censura: tutti questi elementi vengono intrecciati in un discorso che fa del catalogo non solo una raccolta di fotografie, ma un manifesto culturale.

Nel trattare la malattia, Mapplethorpe non cade mai nella trappola della vittimizzazione. Non ci sono pietismi nelle sue ultime opere, nessuna ricerca di compassione. C’è, invece, una sfida diretta: la volontà di fissare lo sguardo sul corpo che si trasforma, che si consuma, ma che conserva, fino all'ultimo, una dignità assoluta. Le immagini finali, che ritraggono fiori avvizziti, statue, autoritratti segnati dalla malattia, sono tra le più intense testimonianze artistiche della lotta contro il tempo e contro la morte che il Novecento abbia prodotto.

Nel contesto di questa tensione esistenziale, la fotografia diventa per Mapplethorpe un’arma di sopravvivenza, uno strumento per affermare, con ogni scatto, che il desiderio di vita resiste anche nei momenti più bui. Celant, nel suo lavoro critico, evidenzia come questa ostinazione alla bellezza non sia un atto di fuga dalla realtà, ma, al contrario, una forma di resistenza attiva, di riaffermazione della soggettività e della libertà individuale.

L'eredità di Mapplethorpe, come emerge dal catalogo, non si limita quindi al mondo della fotografia o a quello dell'arte contemporanea: essa ha influenzato il modo stesso in cui la società occidentale ha imparato, faticosamente, a confrontarsi con temi come la sessualità, la malattia, la diversità. La mostra e il catalogo curati da Celant non solo documentano quest’eredità, ma contribuiscono essi stessi a costruirla, offrendo una chiave di lettura che ancora oggi rimane insostituibile.

In definitiva, il catalogo Robert Mapplethorpe del 1992 non è solo una pubblicazione d'arte: è un dispositivo critico e politico che invita a ripensare il rapporto tra corpo, immagine, desiderio e morte nella cultura contemporanea. Attraverso la sapienza curatoriale di Germano Celant e la forza visionaria delle immagini di Mapplethorpe, viene costruito un monumento fragile e potentissimo alla bellezza, alla vulnerabilità e alla resistenza della vita umana.

Parlare di Robert Mapplethorpe significa addentrarsi in un viaggio estetico e spirituale che travalica i confini tradizionali dell'arte fotografica. Mapplethorpe non fu solo un fotografo: fu un artefice di visioni, un tessitore di tensioni, un sacerdote pagano che officiava il rito della bellezza attraverso la lente della sua macchina fotografica. Nella sua opera si intrecciano l’amore per la perfezione formale, l’adorazione per il corpo umano come tempio, e una tensione oscura verso l’eros e la morte che scava sotto la superficie levigata delle immagini.

Fin dagli inizi, cresciuto in un ambiente cattolico che lo segnerà profondamente, Mapplethorpe mise in dialogo la propria identità sessuale — omosessuale e fiera — con una visione sacrale della forma. I suoi corpi nudi, muscolosi, scolpiti dalla luce e dall’ombra, evocano tanto l’antichità greco-romana quanto il martirio cristiano. Le sue nature morte, in apparenza semplici (un fiore, un frutto, un oggetto fetish), vibrano di un erotismo nascosto che sfida la distanza tra osservatore e soggetto.

In questo cammino, Sam Wagstaff fu non soltanto un mentore o un finanziatore, ma il vero grande amore della sua vita artistica e personale. Fu Wagstaff a insegnargli a pensare alla fotografia come a un oggetto d’arte, a concepire le stampe non come documenti, ma come reliquie, opere da esporre nei musei. Fu lui a introdurlo nei circuiti collezionistici, a plasmare la sua immagine pubblica come artista sofisticato e provocatorio. Ma fu anche grazie a Wagstaff che Mapplethorpe conobbe un'America intellettuale capace di intuire nella sua opera qualcosa di infinitamente più profondo del mero scandalo.

Quando l'AIDS esplose nella New York degli anni Ottanta, travolgendo la comunità artistica, Mapplethorpe — come molti altri — si trovò a dover affrontare non soltanto la malattia in sé, ma anche la stigmatizzazione sociale che essa comportava. L'AIDS era allora una condanna a morte e un marchio d'infamia. Mapplethorpe, tuttavia, affrontò la diagnosi senza rinunciare alla propria missione estetica. La malattia divenne parte integrante della sua arte, non come motivo di lamento, ma come nuova, tragica forma di bellezza.

E proprio in questo contesto avviene l'incontro intellettuale e umano con Germano Celant. Il grande critico italiano, padre dell’Arte Povera, aveva intuito fin dagli anni Settanta che l'arte contemporanea stava cambiando pelle: non più solo materia, gesto, installazione, ma anche immagine, rappresentazione, costruzione simbolica. Celant riconobbe in Mapplethorpe un artista capace di ridare alla forma classica un nuovo corpo contemporaneo.

Per Celant, Mapplethorpe non era semplicemente un fotografo di nudi o di fiori erotici. Era uno scultore della luce, un creatore di icone in cui la bellezza era inseparabile dal suo contrario: la violenza, l’annientamento, la morte. In questa visione, la sofferenza personale di Mapplethorpe diveniva strumento di sublimazione artistica. La sua morte imminente, vissuta con una lucidità quasi tragica, impregnava ogni scatto di una tensione esistenziale che andava ben oltre l'estetica. Celant fu tra i primi a capire che il "caso Mapplethorpe" non era un episodio marginale della cultura queer americana, ma un tassello centrale della storia dell'arte moderna.

La mostra curata da Celant nel 1993 a Venezia, ospitata dal Guggenheim, rappresentò un momento di svolta. Per la prima volta Mapplethorpe veniva presentato non come un provocatore erotico, ma come un grande artista della forma e della morte. Le polemiche, che negli Stati Uniti avevano segnato la ricezione del suo lavoro (culminate nei processi per oscenità contro alcune sue mostre), furono messe da parte: ciò che emerse fu l'epicità tragica del suo percorso.

Questo riconoscimento europeo si intreccia con un altro gesto fondamentale di Mapplethorpe: la creazione della Robert Mapplethorpe Foundation nel 1988, poco prima della sua morte. La Foundation nacque con un doppio obiettivo: sostenere le arti visive e finanziare la ricerca sull'AIDS. In questo gesto, Mapplethorpe rifiutava l'idea di essere vittima: si faceva testimone attivo, capace di trasformare la propria condanna personale in un motore di cambiamento collettivo.

Attraverso la Foundation, Mapplethorpe non solo assicurò la conservazione e la promozione della propria opera, ma contribuì concretamente alla lotta contro l'epidemia. Negli anni successivi alla sua morte, milioni di dollari furono devoluti a istituti di ricerca, ospedali, fondazioni impegnate nella cura e nel sostegno delle persone affette da HIV/AIDS. L'arte e la scienza, il corpo estetizzato e il corpo vulnerabile, si saldavano così nella sua eredità più profonda.

Questa doppia eredità — artistica e politica — è ciò che ancora oggi rende Mapplethorpe una figura imprescindibile. Non solo per la straordinaria qualità delle sue fotografie, ma perché seppe incarnare nella propria opera tutte le contraddizioni, le sofferenze e la bellezza di un'epoca che oscillava fra edonismo e apocalisse.

Il lavoro di Celant su Mapplethorpe, e l'azione della Foundation, hanno contribuito a riscrivere il canone dell'arte contemporanea, obbligando musei, critici e pubblico a riconoscere il contributo fondamentale degli artisti queer e il trauma collettivo dell'AIDS come parte integrante della nostra memoria culturale.

Guardando oggi una stampa di Mapplethorpe — che sia un corpo nudo, un fiore, un autoritratto scavato dalla malattia — non vediamo solo una forma perfetta. Vediamo il coraggio di sfidare la morte attraverso la bellezza, il rifiuto della vergogna, la volontà di imprimere al mondo un gesto definitivo: quello di essere visti, amati e ricordati, anche nel momento dell'estrema vulnerabilità.

Mapplethorpe ha scolpito la luce, sì, ma anche l'assenza: il suo sguardo continua a fissarci da quell'oltre, gelido e ardente, chiedendoci non pietà, ma presenza.