"Sorvegliare e punire. Nascita della prigione" di Michel Foucault è un saggio che attraversa la storia della punizione, ma non si accontenta di raccontarla: la scompone, la disseziona e la ricompone per mostrarci come il potere abbia trovato nella disciplina una nuova arma di controllo. Pubblicato nel 1975, è un testo che ancora oggi inquieta per la lucidità con cui svela i meccanismi di dominio che permeano le nostre vite, spesso senza che ce ne accorgiamo.
Foucault prende avvio dal supplizio, lo spettacolo della sofferenza. Immagina una piazza gremita, il condannato esposto, il boia che esegue una sentenza terribile e la folla che osserva. È una punizione brutale, teatrale, pensata per dimostrare la forza del sovrano: il corpo del colpevole diventa un palcoscenico sul quale il potere recita la propria onnipotenza. Ma qualcosa cambia nel corso del XVIII secolo. Il supplizio comincia a sembrare inefficace, forse perfino controproducente: quel dolore esibito rischia di trasformarsi in un'arma contro l'autorità stessa, suscitando pietà invece che terrore.
È qui che la storia della punizione si trasforma. Non si tratta più di colpire il corpo, ma di agire sull'anima. Non è più il sovrano che si vendica, ma lo Stato che si erge a educatore. Il carcere diventa il simbolo di questa nuova logica: non un luogo di morte, ma di redenzione. La prigione non vuole distruggere, vuole trasformare; non elimina l'individuo, lo modella, lo normalizza. Ma, ci avverte Foucault, questa trasformazione non è meno violenta del supplizio. È solo più sottile, più nascosta, più pervasiva.
Un'immagine domina il libro: quella del Panopticon, la prigione progettata da Jeremy Bentham. Una torre centrale da cui il sorvegliante può osservare ogni cella, senza mai essere visto. È un dispositivo perfetto: il detenuto, consapevole di essere osservato (o di poterlo essere in ogni momento), finisce per controllarsi da solo. Per Foucault, il Panopticon non è solo un modello architettonico, ma una metafora potentissima del potere moderno. Un potere che non si impone con la forza, ma si insinua nelle menti, nelle abitudini, nei gesti quotidiani.
Foucault non si limita a descrivere queste dinamiche, le smaschera. Mostra come le istituzioni – scuole, fabbriche, ospedali, caserme – abbiano adottato le stesse tecniche disciplinari del carcere. Non siamo liberi, ci dice: siamo sorvegliati. E la sorveglianza non ha bisogno di telecamere o guardie armate. Basta farci credere di essere osservati perché cominciamo a obbedire.
"Sorvegliare e punire" non è solo un saggio di storia, è una critica feroce alla modernità. Una modernità che promette libertà ma costruisce gabbie sempre più sofisticate. Una modernità che ci fa credere di essere padroni delle nostre vite mentre ci imprigiona in reti invisibili di regole, aspettative, controlli. Foucault ci mette di fronte a una verità scomoda: non abbiamo abbandonato il supplizio, lo abbiamo semplicemente spostato dentro di noi.
Uno degli aspetti più affascinanti di Sorvegliare e punire è come Foucault ci costringa a ripensare non solo la punizione, ma l’intero concetto di potere. Per lui, il potere non è qualcosa che "qualcuno" possiede e che "qualcun altro" subisce: è una rete, un flusso, un sistema complesso che attraversa la società in ogni suo aspetto. Questo significa che tutti noi, consapevolmente o meno, partecipiamo al mantenimento di queste dinamiche disciplinari.
La scuola, per esempio, non è solo un luogo dove si trasmettono conoscenze: è un laboratorio di disciplina. Gli studenti non imparano solo nozioni, ma anche a rispettare orari, a rimanere seduti, a rispondere a un'autorità. Lo stesso vale per le fabbriche, che non si limitano a produrre merci, ma creano lavoratori obbedienti, e per gli ospedali, che non curano solo malattie ma definiscono cosa è normale e cosa no, plasmando così il nostro stesso modo di concepire il corpo e la mente.
Un altro tema cruciale è il rapporto tra sapere e potere. Foucault dimostra come il sapere non sia mai neutrale: ogni forma di conoscenza – dalla medicina alla criminologia, dalla sociologia alla pedagogia – è intrecciata con le logiche di controllo. Non si osserva mai solo per conoscere, ma per classificare, categorizzare, normare. Il criminale, il malato, il "deviante" non sono semplicemente scoperti, sono creati dal discorso scientifico e giuridico.
Non si può ignorare la risonanza politica di questo libro. Foucault scrive in un’epoca di grandi trasformazioni sociali e di crescenti proteste contro le istituzioni tradizionali. Il carcere diventa il simbolo di tutte le forme di oppressione sistemica, ma anche il punto di partenza per immaginare un mondo diverso. Eppure, Foucault non offre soluzioni facili. Non dice che possiamo liberarci del potere, perché il potere non è un "oggetto" che si può eliminare: è parte del tessuto stesso delle relazioni sociali. Quello che possiamo fare, però, è renderlo visibile, analizzarlo, metterlo in discussione.
"Sorvegliare e punire" non è un libro che si legge e si mette da parte: è un invito a guardare il mondo con occhi nuovi, a cogliere le trame nascoste di ciò che sembra normale, a non accontentarsi mai delle apparenze. È una chiamata alla consapevolezza, e in questo sta la sua potenza inalterata.
Un aspetto interessante di "Sorvegliare e punire" è il suo modo di intrecciare analisi storica, filosofica e sociale. Foucault non si limita a descrivere un’evoluzione lineare, ma dimostra come i cambiamenti nei sistemi punitivi siano il risultato di conflitti, strategie e interessi che si intrecciano. La trasformazione dal supplizio pubblico alla disciplina carceraria non è un progresso morale o un atto di umanizzazione: è una riorganizzazione del potere che risponde a nuove esigenze economiche e sociali.
Pensiamo alla nascita delle società industriali: con l’avvento delle fabbriche e delle grandi città, diventa fondamentale controllare non solo i corpi, ma anche i comportamenti, le abitudini, i tempi. La disciplina non è più solo un mezzo per punire i trasgressori, ma un sistema per creare cittadini obbedienti e produttivi. Ecco perché il carcere diventa il modello di riferimento per molte altre istituzioni: la sua logica di sorveglianza e normalizzazione viene replicata ovunque.
Un altro elemento che colpisce è il ruolo del linguaggio nel consolidare queste forme di controllo. Foucault ci mostra come i discorsi sul crimine, sulla devianza o sulla malattia non siano semplici descrizioni della realtà, ma strumenti di potere. Definire qualcuno "criminale", "malato mentale" o "deviante" non è un atto neutrale: significa inserirlo in una rete di pratiche e saperi che lo etichettano, lo sorvegliano, lo correggono.
E poi c’è la questione dell’interiorizzazione. Per Foucault, il potere disciplinare è particolarmente efficace perché non ha bisogno di imporre la propria autorità dall’esterno: si radica dentro di noi. Interiorizziamo le norme, ci sorvegliamo da soli, diventiamo i nostri carcerieri. Questa dinamica rende il controllo quasi invisibile, ma non per questo meno opprimente.
"Sorvegliare e punire" è un testo profondamente inquietante perché mette in discussione il nostro rapporto con la libertà. Viviamo in società che si proclamano libere e democratiche, ma Foucault ci invita a chiederci: quanto di questa libertà è reale? E quanto è semplicemente una forma più sofisticata di controllo?
Questo è forse il lascito più importante del libro: non fornisce risposte definitive, ma ci costringe a fare domande, a guardare sotto la superficie, a non dare mai nulla per scontato. È un’opera che continua a risuonare proprio perché non smette di interpellarci, provocare, sfidare le nostre certezze.
C’è sempre dell’altro quando si parla di un’opera come "Sorvegliare e punire", perché Foucault non si limita a descrivere, ma apre spazi di pensiero che possiamo percorrere all’infinito. Un altro punto che merita attenzione è il modo in cui il filosofo lega la nascita della prigione alla più ampia costruzione della modernità. La prigione, per Foucault, non è solo un luogo fisico: è un dispositivo culturale, il culmine di una serie di trasformazioni che riguardano il sapere, il potere e il modo in cui gli individui sono definiti e governati.
Questa riflessione ci porta a un tema particolarmente caro a Foucault: la biopolitica, cioè il potere che non si limita a regolare i comportamenti, ma prende in carico la vita stessa. "Sorvegliare e punire" anticipa molte delle questioni che Foucault svilupperà nei suoi lavori successivi: il controllo non è più solo sul corpo individuale (come nel supplizio), ma sulla popolazione come insieme di vite da gestire, proteggere e ottimizzare. La prigione, in questo senso, diventa un laboratorio dove il potere sperimenta nuove forme di controllo, che poi si espandono a tutta la società.
Un altro aspetto affascinante è la dimensione quasi teatrale che attraversa il libro. Se il supplizio era uno spettacolo pubblico, anche il Panopticon ha un elemento scenico: il detenuto vive nella possibilità costante di essere osservato, trasformando ogni suo gesto in una sorta di performance per un pubblico invisibile. Questo "teatro della sorveglianza" non è confinato alle mura del carcere: lo ritroviamo ovunque, dagli uffici alle scuole, fino alla nostra epoca digitale, dove la presenza di telecamere e algoritmi ci trasforma in attori inconsapevoli di un’opera che non abbiamo scritto.
E poi c’è il rapporto con la resistenza. Foucault non crede che il potere sia onnipotente o insuperabile: al contrario, il potere genera sempre resistenza. Ma questa resistenza, ci dice, non è mai assoluta o pura. È intrecciata con il potere stesso, nasce dentro i suoi meccanismi. Questa visione ci spinge a riconsiderare le lotte contro le istituzioni: non si tratta di distruggerle, ma di decostruirle, di smascherarne le logiche, di trasformarle dall’interno.
E c’è il linguaggio. La scrittura di Foucault è tanto analitica quanto evocativa. Non descrive solo fatti, ma crea immagini, suggestioni, quasi visioni. Ogni pagina sembra costruire un universo concettuale in cui ci si perde e ci si ritrova, sempre con una consapevolezza nuova. È questa potenza letteraria, oltre che filosofica, che rende Sorvegliare e punire un testo inafferrabile, capace di generare nuovi significati ad ogni rilettura.
Forse l’aspetto più radicale di "Sorvegliare e punire" è come Foucault ci obblighi a confrontarci con l’idea che il potere, in fondo, non è mai neutrale. Questo implica che anche i sistemi che consideriamo giusti o necessari, come il carcere, non nascono dal nulla, ma da un intreccio di interessi e di strategie. Non è che abbiamo scelto la prigione perché è "la migliore soluzione possibile": l’abbiamo scelta perché rispondeva a specifici bisogni di controllo e gestione sociale.
Foucault ci spinge anche a chiederci: la prigione funziona davvero? Lui stesso lascia intendere che no, non funziona. Le carceri, lungi dal riformare i detenuti, spesso li rendono più marginalizzati, più esclusi. Ma allora perché persistono? La risposta, secondo Foucault, è che il carcere non è tanto uno strumento per ridurre il crimine quanto un mezzo per mantenere un certo ordine sociale. È un modo per definire chi sta "dentro" e chi sta "fuori", chi è "normale" e chi è "deviante".
Un’altra intuizione potente è che i meccanismi di controllo non si applicano solo ai cosiddetti "colpevoli". Foucault ci mostra come la logica disciplinare pervada ogni aspetto della vita: tutti siamo soggetti a norme, regole e aspettative che ci dicono come comportarci, cosa desiderare, perfino chi essere. In questo senso, il libro non parla solo dei detenuti, ma di ciascuno di noi.
C'è una questione etica che attraversa tutto il testo. Foucault non ci dice esplicitamente cosa fare, non dà ricette per il cambiamento. Eppure, il suo lavoro è un invito a pensare diversamente, a non accettare passivamente ciò che ci viene presentato come inevitabile. È un appello a esercitare quello che lui chiama "pensiero critico": non per distruggere, ma per capire, per mettere in discussione, per immaginare alternative.
In questo senso, "Sorvegliare e punire" non è solo un’analisi del potere: è un esercizio di libertà. E forse è proprio questo il motivo per cui, a distanza di quasi cinquant’anni, continua a essere letto, discusso, amato e temuto.