Durante la Resistenza italiana (1943–1945), la partecipazione degli anarchici fu determinante in diverse aree del Paese, benché spesso marginalizzata nelle narrazioni ufficiali. Si trattò di una presenza diffusa ma non centralizzata, coerente con i principi antiautoritari che animavano questi militanti. La loro lotta si inseriva in una visione più ampia: non solo antifascista, ma profondamente antistatalista, votata a un cambiamento radicale dell’ordine sociale.
L’anarchismo italiano, già duramente colpito dal regime fascista sin dagli anni Venti con arresti, confino e l’esilio di molti dei suoi esponenti, riemerse con forza nel secondo dopoguerra, anche grazie all’esperienza della guerra civile spagnola (1936–1939), che aveva visto la partecipazione attiva di numerosi volontari italiani. Proprio da quella generazione tornarono alcuni militanti politicizzati, già esperti di guerriglia, che contribuirono alla formazione di gruppi autonomi armati.
Uno degli esempi più noti è rappresentato dalla Brigata anarchica "Gino Lucetti", attiva nella zona di Carrara, città con una radicata tradizione libertaria sin dal XIX secolo. Intitolata all’anarchico che nel 1926 aveva tentato di assassinare Benito Mussolini, questa brigata si distinse per la sua struttura orizzontale e per l’adozione di pratiche autogestionarie. Analogamente, a Pistoia operava la Brigata "Silvano Fedi", dal nome di un giovane intellettuale e militante anarchico ucciso dai fascisti nel 1944, che aveva organizzato azioni di sabotaggio, raccolta armi e liberazione di detenuti politici, rifiutando ogni forma di subordinazione gerarchica.
Oltre alla Toscana, la presenza anarchica fu significativa in Lunigiana, nella Liguria interna e nel Basso Piemonte. In queste zone operarono formazioni autonome o gruppi all’interno delle brigate partigiane maggioritarie, mantenendo però una chiara impronta ideologica. Non mancarono contrasti con le formazioni comuniste, soprattutto in merito alla gestione del potere nei territori liberati, ai rapporti con i civili e alla questione della ricostruzione postbellica.
L’approccio libertario alla Resistenza si caratterizzò per la difesa intransigente dei principi di autorganizzazione, solidarietà dal basso e rifiuto della militarizzazione forzata del movimento partigiano. Alcuni documenti testimoniano discussioni accese tra comandanti garibaldini e militanti anarchici, soprattutto in merito all’obbligatorietà della disciplina militare e alla subordinazione agli ordini del CLN.
Nel dopoguerra, gli anarchici non parteciparono alla spartizione del potere né alla costituzione dei partiti del nuovo arco parlamentare. Questo determinò una progressiva rimozione del loro ruolo nella Resistenza, che fu invece egemonizzata dai partiti antifascisti più strutturati. Tuttavia, le memorie anarchiche si sono tramandate attraverso testimonianze dirette, pubblicazioni militanti, archivi libertari e studi successivi che hanno riportato alla luce l’intensità e la coerenza del loro contributo.
Oggi, una rilettura storica più attenta restituisce centralità al ruolo giocato dagli anarchici nella lotta al fascismo e nella costruzione di una coscienza popolare alternativa, radicata nella critica al potere e nella difesa della libertà come pratica quotidiana e non come promessa futura.
Ecco un piccolo approfondimento, organizzato per aree geografiche e centrato su alcune figure chiave del movimento anarchico nella Resistenza italiana:
1. Carrara e la Lunigiana: un’anarchia storica armata
Carrara, città delle cave di marmo, ha una delle più antiche e radicate tradizioni anarchiche d’Europa. Qui l’anarchismo affonda le sue radici nel movimento operaio ottocentesco e nelle lotte dei cavatori. Durante la Resistenza, Carrara fu un centro di prim’ordine grazie alla Brigata Gino Lucetti, fondata nell'autunno del 1944 da ex combattenti in Spagna e giovani locali.
Gino Lucetti, pur essendo morto nel 1943 (in un bombardamento su Ischia, dove era detenuto), era una figura mitica: nel 1926 aveva lanciato una bomba contro l’auto di Mussolini a Roma. Il gesto, fallito, fu celebrato dagli ambienti anarchici come emblema dell’azione diretta contro il potere.
La Brigata Lucetti operava nella zona apuana e lunigianese, agendo autonomamente ma coordinandosi talvolta con altre formazioni partigiane. I suoi componenti rifiutavano ogni gerarchia e portavano avanti pratiche di autogestione anche nei rapporti con le popolazioni locali, che spesso li proteggevano.
2. Pistoia e la Brigata "Silvano Fedi"
In Toscana, a Pistoia, si affermò un altro fulcro del partigianato anarchico: la Brigata Silvano Fedi, intitolata a un giovane militante morto il 29 luglio 1944 in un agguato fascista. Fedi, laureato in filosofia, era bibliotecario e autore di scritti sull’anarchismo e sulla libertà. Organizzò una rete di aiuti ai disertori, sabotaggi e azioni di recupero armi.
La Brigata si distingueva per la scelta di operare fuori dagli schemi gerarchici imposti dal CLN, rifiutando l’assimilazione alla logica militare. La sua azione fu sia militare sia civile: protezione di famiglie perseguitate, assistenza ai rifugiati, promozione di forme di giustizia popolare alternativa a quella dei tribunali clandestini partigiani più autoritari.
3. Piemonte e Liguria: anarchici nei collettivi armati
Nel Piemonte meridionale e nella Liguria interna si formarono numerosi nuclei libertari, spesso all’interno di brigate "miste", in cui convivevano anarchici, comunisti dissidenti e socialisti rivoluzionari. Le zone di Ceva, Cuneo, Savona, Imperia, furono particolarmente attive.
Uno dei militanti più interessanti è Umberto Marzocchi, savonese, già combattente in Spagna, dove fu arruolato nella Colonna Ascaso. Dopo l’8 settembre 1943 tornò a organizzare la resistenza nella zona ligure, mantenendo un’intransigente posizione anti-autoritaria. Dopo la guerra divenne uno degli animatori della F.A.I. (Federazione Anarchica Italiana).
Questi gruppi spesso si scontrarono con i Garibaldini (di orientamento comunista), soprattutto in merito all'uso della violenza e all'obbligo di obbedienza. In alcune vallate liguri, gli anarchici riuscirono a dar vita a comunità temporanee autogestite, che sono state studiate come rari esempi di “utopia concreta” realizzata in tempo di guerra.
4. Emilia-Romagna: Resistenza operaia e mutuo soccorso
In Emilia-Romagna, dove il movimento anarchico aveva una base operaia solida (soprattutto a Bologna, Imola, Ravenna), alcuni militanti libertari agirono nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica) e nei GAP (Gruppi di Azione Patriottica), pur rifiutando l'inquadramento rigido e centralizzato.
Va citata la figura di Pietro Gori, il cui pensiero (benché morto nel 1911) continuava a circolare tra i militanti. Le sue poesie e i suoi scritti giuridici erano studiati come strumenti per una Resistenza etica, prima ancora che militare.
L’Emilia vide la compenetrazione tra mutualismo anarchico e lotta armata, con reti solidali di supporto ai partigiani, alla popolazione e ai renitenti alla leva. In alcune zone rurali si attuarono forme spontanee di redistribuzione alimentare e giustizia popolare, sempre sotto l’influsso dell’etica anarchica.
5. Napoli e il Sud: presenza debole ma significativa
Nel Mezzogiorno, l’anarchismo resistenziale fu meno strutturato, ma non assente. A Napoli, durante le "Quattro giornate" (27–30 settembre 1943), si distinsero alcune figure libertarie come Pasquale Valitutti, attivo prima nella lotta antifascista clandestina e poi nel sostegno ai comitati popolari spontanei nati durante l’insurrezione.
Anche nel barese e nel cilentano, ex militanti anarchici rientrati dall’esilio o dal confino si impegnarono nella riorganizzazione delle leghe contadine e nella promozione di assemblee popolari, pur in un contesto reso più complesso dalla presenza alleata e dalla frammentazione delle forze locali.
Durante la Resistenza italiana, mentre i grandi partiti clandestini organizzavano reti editoriali articolate e ben strutturate, gli anarchici si muovevano in tutt’altra direzione. I loro fogli clandestini, spesso ciclostilati in cantine o rifugi montani, erano strumenti vivi e pulsanti di un pensiero che rifiutava tanto il dominio fascista quanto le gerarchie dei partiti antifascisti. Nelle loro pagine non si trovava solo propaganda o inviti all’insurrezione: si trovava soprattutto un modo diverso di parlare e di immaginare il mondo.
Il linguaggio anarchico del periodo era intriso di un rifiuto netto dell’autorità in ogni sua forma, anche linguistica. Nessuna concessione alla retorica patriottica, nessun appello alla nazione come entità sacra, nessun elogio del sacrificio eroico in nome della “patria”. Le parole che ricorrevano erano altre: libertà, dignità, giustizia, rivolta. E su tutte, una: “compagni”. Un termine semplice, affilato come una lama, che escludeva qualsiasi verticalità. Non “soldati”, non “militanti di partito”, ma compagni: persone che condividono una visione, che agiscono insieme perché lo scelgono, non perché glielo impone una disciplina.
I fogli anarchici si firmavano spesso in modo collettivo o anonimo. “Compagni libertari delle Apuane”, “Militanti anarchici del savonese”, “Gruppo di uomini liberi”: soggetti multipli, senza nome, senza volto, ma con una voce nitida. Anche qui, la scelta linguistica era politica: evitare la centralità dell’individuo, rifiutare il mito del leader, disinnescare ogni forma di culto della personalità.
Lo stile era secco, spesso lirico, ma sempre diretto. Le metafore ricorrenti — il fuoco, l’alba, le catene, la fiamma — evocavano una rottura netta col presente e una tensione costante verso il possibile. “Accendere la fiamma della rivolta”, “spezziamo le catene”, “sorge l’alba della libertà”: erano immagini che si stagliavano contro l’oscurità fascista, ma anche contro il grigiore dell’ordine democratico che si profilava all’orizzonte.
Sfogliare quei documenti oggi significa entrare in un universo parallelo della Resistenza, in cui la guerra non era vista come occasione per prendere il potere, ma come possibilità di liberare la vita. “Né Dio, né Stato, né Partito”: non era solo uno slogan, era una grammatica. Persino le forme verbali rifuggivano l’imperativo e il tono comandistico: più che ordini, gli anarchici lanciavano appelli, domande, inviti alla riflessione e all’azione condivisa.
Tra i fogli più attivi ci fu “Il Libertario” di Carrara, prodotto con mezzi poverissimi ma carico di riflessioni teoriche e inviti all’insurrezione concreta. O “L’Internazionale” di Savona, dove accanto ai testi di analisi politica si trovavano anche poesie e lettere dal fronte partigiano. E poi “Umanità Nova”, che nel periodo resistenziale sopravvisse in forma di fogli manoscritti, sparsi e clandestini, prima di tornare alla stampa nel dopoguerra.
La stampa libertaria, oltre a diffondere idee, svolgeva una funzione essenziale: smontare il linguaggio dominante. I fogli denunciavano apertamente la retorica militarista, il culto delle medaglie, la glorificazione della morte eroica. Parlavano invece di dignità del vivere, di resistenza come gesto umano prima che politico, di futuro come utopia concreta.
In un tempo in cui ogni parola poteva costare la vita, scegliere come dire era già un atto rivoluzionario. I fogli anarchici della Resistenza parlavano per chi non voleva obbedire. E il loro linguaggio, ancora oggi, resta un documento raro e prezioso di libertà.
Nel fitto intreccio della Resistenza italiana, tra le voci dei grandi partiti antifascisti che agivano nella clandestinità con apparati editoriali ben organizzati, si levavano anche voci più sottili, ma non per questo meno ardenti: quelle degli anarchici. E tra tutte, quella de Il Libertario di Carrara spiccava per coerenza, passione e tenacia.
Carrara, terra di cavatori e di lotte operaie, aveva già da tempo una radicata tradizione anarchica. Qui, il pensiero libertario non era una teoria astratta, ma parte della carne e della pietra della città. Durante la guerra, in un clima di repressione feroce e precarietà assoluta, alcuni militanti riuscirono a dare nuova vita a quel foglio, Il Libertario, stampandolo in modo clandestino, spesso in condizioni al limite dell’impossibile.
Non era un giornale come gli altri. Non cercava compromessi, non rincorreva equilibri politici. Scriveva con l’urgenza di chi sa che le parole possono essere armi, scintille, fuochi. In uno dei numeri del 1944 si legge:
“Compagni, la lotta contro il fascismo non può esaurirsi nella sostituzione di un regime con un altro. La vera liberazione sarà quella dell'uomo da ogni forma di autorità e sfruttamento.”
Ogni riga era un rifiuto netto non solo del regime fascista, ma anche della visione centralizzata e gerarchica che rischiava di prendere il sopravvento all’interno dello stesso fronte partigiano. Il Libertario parlava di autogestione, di rivoluzione sociale, di dignità quotidiana. Il suo linguaggio era diretto, lirico a tratti, ma sempre intriso di una tensione etica profonda. Non cercava eroi, non celebrava martiri: cercava compagni. Non “cittadini”, non “patrioti”, ma esseri umani in rivolta, fianco a fianco.
Accanto a Carrara, anche Savona si fece culla di una stampa anarchica di resistenza. L’Internazionale, prodotto in forma semiclandestina, metteva a nudo il rischio di una nuova tirannia, stavolta “democratica”, e chiamava alla vigilanza contro ogni forma di potere centralizzato. Mentre Umanità Nova, già dal primo dopoguerra il foglio simbolo del movimento anarchico, sopravviveva in forma frammentaria, manoscritta, trasmessa di mano in mano, in una catena di pensiero ribelle che mai si spezzava.
Quei fogli erano più che parole stampate: erano manifesti di un’etica, mappe per un futuro non scritto. E anche le immagini — rare, stilizzate, spesso solo simboli tracciati a china — parlavano una lingua essenziale, fatta di fiamme, catene spezzate, cieli aperti.
Là dove la Resistenza si giocava anche sul terreno delle parole, i libertari non si limitarono a combattere contro il fascismo: combatterono contro ogni illusione di potere salvifico. Mentre altri sognavano governi migliori, loro sognavano l’assenza stessa del governo: non l’anarchia come caos, ma come ordine diverso, scelto e condiviso, senza padroni.
Rileggere oggi quei testi significa riconoscere una Resistenza altra, spesso dimenticata, ma necessaria. Una Resistenza che non cercava di prendere il potere, ma di restituirlo a ciascuno. E Il Libertario, con la sua voce scabra e luminosa, resta una delle sue più alte espressioni.
Il Libertario di Carrara: voce anarchica della Resistenza, parola per parola
Tra le pubblicazioni clandestine che animarono il sottosuolo politico dell’Italia occupata, Il Libertario di Carrara rappresenta un caso unico e straordinario. Non si trattava solo di un foglio di propaganda antifascista: era un laboratorio di pensiero radicale, un manifesto permanente per la rivoluzione sociale, scritto a più mani da militanti che conoscevano la fatica della cava, il carcere politico e l’esilio. La sua lingua non gridava: affilava. Non cercava l’applauso: pretendeva la coscienza.
Uno dei numeri più rappresentativi del 1944 – datato probabilmente all'estate, poco dopo la sanguinosa repressione dei moti popolari a Carrara e Massa – si apre con un editoriale dal titolo programmatico: “Contro il fascismo, contro ogni potere”. Il tono è netto fin dalle prime righe:
“Abbiamo vissuto vent’anni sotto il tallone dell’arbitrio, e oggi qualcuno vorrebbe farci credere che basterà mutare la divisa per dirsi liberi. Ma noi sappiamo che la libertà non si ottiene per decreto, e che chi vuole la libertà deve prima di tutto rifiutare ogni autorità, anche quella che si pretende provvisoria.”
La parola “tallone” ha qui una potenza arcaica, quasi biblica. Evoca l’oppressione non solo come dominio, ma come schiacciamento fisico. E subito dopo, l’attacco al concetto di transizione: ogni autorità, anche quella che si pretende provvisoria. È una critica chiara al Comitato di Liberazione Nazionale e a tutte le forze che vedevano nella Resistenza uno strumento per rifondare lo Stato, non per superarlo.
L’intreccio fra etica e prassi
La seconda pagina dell’edizione, ciclostilata su carta spessa e impastata, reca una sezione intitolata “Vita dei compagni”, dove vengono riportate notizie sui militanti arrestati, uccisi o dispersi. Una breve nota segnala la morte di Gino Lucetti, ricordato non come martire, ma come uomo “che seppe scegliere la responsabilità dell’atto contro la miseria della delega”. Il linguaggio qui si fa lapidario, quasi scolpito. Si percepisce la consapevolezza di parlare a lettori che condividono la stessa tensione morale, lo stesso rischio quotidiano.
Segue poi un intervento sulla questione agraria, firmato da un anonimo “Gruppo libertario montano”, probabilmente della zona di Fosdinovo o Aulla. Il testo attacca la politica dei Comitati di gestione agricola, accusati di perpetuare rapporti padronali sotto mentite spoglie:
“Non ci accontenteremo della terra se ci verrà concessa in nome della legge. La terra la vogliamo senza padroni, né politici né proprietari. E vogliamo che sia gestita da chi la lavora, senza intermediari, senza tecnocrati.”
Anche qui, ogni parola è calibrata per scardinare il linguaggio dominante. Non si dice “redistribuzione”, ma “gestione diretta”; non si parla di “contadini”, ma di chi “lavora la terra”: scelta terminologica che rifiuta ogni categoria amministrativa per tornare alla concretezza dei gesti.
La questione femminile: la lotta delle donne come lotta anarchica
Nello stesso numero si trova una breve ma intensa testimonianza della rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara dell’11 luglio 1944, in cui donne armate di coraggio e di sassi riuscirono a respingere un rastrellamento nazifascista. L’articolo, senza firma, ha il tono sobrio della cronaca ma l’intensità di un’ode civile:
“Le donne della città hanno gridato e lanciato pietre. Non per difendere i figli — che già sapevano rischiare — ma per difendere la possibilità stessa di dire no. [...] Il potere non le ha addestrate, la miseria sì. E la libertà che hanno gridato non era quella dei manifesti, ma quella che nasce quando il cuore batte a tempo con la giustizia.”
Il linguaggio è poetico, ma senza ornamenti. “La possibilità stessa di dire no” è l’essenza di ogni idea anarchica: il diritto al rifiuto come fondamento di una società libera. La stampa libertaria del tempo, e Il Libertario in particolare, fu tra le poche voci ad accordare dignità piena e soggetto politico autonomo alle donne resistenti, non come “ausiliarie”, ma come compagne.
L’eredità e la materia viva
Ciò che colpisce oggi, rileggendo queste pagine, è l’attualità di certi interrogativi: che cosa accade dopo la caduta del tiranno? Come evitare che il potere torni a vestire altri abiti? Che cosa significa davvero essere liberi?
Il Libertario non dava risposte facili. Non prometteva felicità, né futuro. Prometteva la possibilità di un presente che non fosse schiavitù. Per questo, il suo linguaggio era asciutto, denso, refrattario alle parole d’ordine. Non diceva “democrazia”: diceva “autogestione”. Non diceva “Stato nuovo”: diceva “nessuno Stato”. Era un foglio povero, ma non misero; colto, ma non accademico. Parola dopo parola, tracciava una mappa possibile per una rivoluzione senza vertici, senza voci guida, dove ognuno potesse essere autore della propria libertà.
Tento ora un confronto articolato tra Il Libertario di Carrara, L’Internazionale di Savona e La Rivolta di Genova, tre voci libertarie della Resistenza italiana che, pur animate da un’identica tensione etica e rivoluzionaria, si distinguono per tono, lessico, priorità tematiche e strategie discorsive. Ne emerge un piccolo atlante della parola anarchica in armi, una geografia dell’insubordinazione.
Il Libertario (Carrara): la parola come scalpello
Come già emerso, Il Libertario è la voce severa e filosofica della Resistenza anarchica apuana. Nasce in un territorio dove la tradizione anarchica è pietra viva, intrecciata al lavoro di cava, alla migrazione politica, alla memoria di Lucetti e di Malatesta. Il tono è sorvegliato, mai retorico. L’impaginazione stessa — scarna, ciclostilata, essenziale — riflette l’etica dell’essenzialità: ogni parola deve pesare come un blocco di marmo. Gli articoli prediligono la riflessione lunga e meditata, spesso non firmata, per sottolineare la dimensione collettiva del pensiero.
Le parole chiave: autogestione, rifiuto, coscienza, autorità, giustizia.
Il linguaggio: sobrio, denso, spesso filosofico.
Il nemico: non solo il fascismo, ma l’idea stessa di Stato.
L’Internazionale (Savona): la lingua del disincanto attivo
L’Internazionale di Savona si presenta invece con un timbro più popolare e ironico, senza mai scadere nella faciloneria. Fondato nel 1944, ha tra i suoi collaboratori figure come Alfonso Failla, e dialoga con i militanti liguri dispersi tra le valli e le officine del savonese. È meno severo rispetto al foglio carrarese: la sua parola non incide, ma scava. Si rivolge a un pubblico più ampio, anche a ex socialisti disillusi, operai stanchi di compromessi, giovani renitenti alla leva.
Un editoriale del novembre 1944 si apre così:
“C’è chi dice che il fascismo è morto. Sarà. Ma noi lo vediamo ogni giorno camminare con la testa abbassata nei corridoi del potere che risorge, nei partiti che trattano, nei comandi che ordinano.”
Qui l’ironia diventa sarcasmo, e l’attacco non è solo al passato fascista, ma alla nuova politica che prende forma nei CLN. L’Internazionale insiste sul tradimento della Resistenza da parte dei “realisti” e mette in guardia contro il ritorno della normalità come forma sottile di restaurazione.
Le parole chiave: tradimento, coerenza, lotta operaia, dignità, farsa democratica.
Il linguaggio: più giornalistico, a tratti polemico, con uso frequente di domande retoriche.
Il nemico: il fascismo come mentalità, il compromesso come pratica.
La Rivolta (Genova): fuoco dialettico e insurrezione
La Rivolta, foglio attivo tra Genova e la Val Polcevera, ha un tono quasi insurrezionale. Si rivolge principalmente ai giovani partigiani anarchici delle brigate Bruzzi-Malatesta, e ha un linguaggio più acceso, quasi profetico, per certi versi vicino alla tradizione socialista rivoluzionaria ottocentesca. I suoi testi sono più brevi, incisivi, con titoli che sono veri slogan: “Libertà o niente”, “Fuori i padroni da ogni assemblea”, “Chi vota si arrende”.
In un numero del febbraio 1945 si legge:
“Non vogliamo la vittoria del meno peggio. Non vogliamo scegliere tra la frusta e la museruola. Noi vogliamo che ognuno cammini con la testa alta, con le mani libere e la bocca piena di pane e parole.”
La parola si fa carne, le immagini sono viscerali. La Rivolta non cerca il compromesso, ma la scintilla. Non propone analisi lunghe, ma inviti all’azione, micce letterarie. Si sente il battito di un’insurrezione imminente.
Le parole chiave: azione diretta, dignità, pane, libertà, fuoco.
Il linguaggio: incendiario, poetico, ritmato.
Il nemico: tutti i poteri, anche quelli travestiti da progresso.
Tre lingue della libertà
Il confronto tra questi tre fogli rivela un panorama variegato e vitale. Dove Il Libertario coltiva la profondità e la coerenza morale, L’Internazionale predilige la vigilanza critica e la pungente disillusione, mentre La Rivolta brandisce la parola come arma di fuoco, come stimolo all’insurrezione permanente.
Non erano voci isolate. Spesso si citavano a vicenda, si scambiavano redattori, si trasmettevano contenuti oralmente o per lettera. Formavano, in realtà, un solo corpo in lotta: un corpo senza centro, ma pieno di cuore. E ciascuna di queste testate, pur parlando con accenti diversi, tendeva alla stessa utopia: una società senza padroni, senza eserciti, senza comandi. Solo con la libertà e la responsabilità.
Chiudere qui il discorso, che merita molto più spazio, sugli anarchici nella Resistenza italiana significa restituire voce a una componente spesso marginalizzata nel grande racconto della Liberazione. Gli anarchici non si sono limitati a partecipare: hanno incarnato una Resistenza “altra”, radicale, intransigente, slegata da compromessi, e forse proprio per questo meno assorbibile nella narrazione ufficiale della nascita della Repubblica.
La loro partecipazione non fu né episodica né disorganica: in molte aree—dalla Lunigiana al Savonese, dalla Val Pellice alle Marche, da Carrara alla Val di Susa—si distinsero per l’autonomia delle brigate, la coerenza etica e la fedeltà ai principi antiautoritari. La scelta della clandestinità, già praticata nei decenni precedenti, diventò ora arma e metodo. Le tipografie improvvisate, i fogli ciclostilati come Il Libertario, La Rivolta o L’Internazionale, furono strumenti di lotta quanto i moschetti.
Eppure, finita la guerra, molti di loro rifiutarono gli onori e i posti nei governi locali; alcuni vennero addirittura disarmati o marginalizzati dai nuovi poteri nati nei CLN. Perché la loro idea di libertà era irriducibile, non mediabile, e per questo profondamente scomoda.
Oggi, rileggere quelle voci, quelle parole stampate in segreto tra le macerie e le montagne, è un atto di giustizia. Non per nostalgia, ma per verità: la Resistenza non fu un blocco compatto, ma un coro di voci dissonanti. E tra queste, quella anarchica continua a risuonare chiara, ostinata, incandescente.