Il desiderio, quel desiderio profondo e inafferrabile, la forza oscura e latente che non si lascia né vedere né toccare, da dove nasce? Dove s’insinua, come un serpente nella terra umida, tra le crepe più sottili e invisibili? In quale angolo dimenticato, in quale remoto recesso dell’anima, sepolto e nascosto sotto cumuli di esperienze e paure, si cela questo demone insondabile? Sono queste le domande che affiorano, incessanti, come il sangue che fluisce nelle vene, spingendosi fino alle reni, con un ritmo oscuro e incessante, un moto pulsante che si ripete, lento e inesorabile. Come un fiume sotterraneo che scava e scava, fino a consumare tutto ciò che incontra, il desiderio, in qualche modo, si impossessa di noi, divenendo un tarlo, una presenza ossessiva e mutevole che s’insinua a poco a poco, come una nebbia leggera ma densa, che tutto copre, che tutto avvolge, fino a obnubilare il pensiero, e a fare di noi prigionieri di una domanda senza risposta.
Eppure, che errore, che ingenua illusione pensare di poterlo evocare, di poterlo richiamare alla vita con la semplice forza della memoria, come se fosse un fuoco sempre acceso, in attesa di essere ravvivato da un soffio. Come se bastasse un pensiero, una scintilla della mente, per riportare in superficie quel desiderio che giace nelle profondità, come un mare nero e immobile sotto una lastra di ghiaccio. La poesia – come possono credere i semplici, i distratti – può forse farsi carne, può mai essere sesso? No, non sesso puro e vivo, non carne palpitante, non bramosia assoluta e insaziabile. Al massimo, forse, un pallido riflesso, un’eco lontana, un accenno; nulla di più. Non c'è poesia che possa farsi carne e nervo, non c'è parola che possa farsi davvero corpo. Come potrebbe? Anche nei versi più audaci e intimi, come quelli del fragile Sandro Penna, dove l'amore, inafferrabile e puro, si snoda con la grazia languida di una visione, o nelle parole febbrili di Dario Bellezza, dove il desiderio si mescola all'ombra fredda della morte, in un letto madido di sudore, di ultimo respiro, di abbandono – nemmeno in loro la poesia riesce a trattenere quell'essenza. Nulla ritorna dal sesso scritto, nulla rinasce, nulla si rianima. Tutto resta incagliato, inerte, tra le maglie delle parole, come un’ombra lontana che svanisce non appena cerchiamo di afferrarla.
Perché, in fondo, il sesso, quello vero, quello viscerale e impalpabile, è pura alterità, un mistero che non si lascia definire, un impulso che non si lascia trattenere. Non è più nemmeno là dove un tempo forse l’avremmo cercato, in un pornoshop umido di attese anonime, dove la carne si promette in vetrina, o nelle profondità del deep web, dove ogni fantasma trova il suo rifugio – figuriamoci se può trovarsi nella poesia, questo inganno lucente, questa fragile finzione. Perché, sì, la poesia è un’arte di menzogna, di sublime e perfetta menzogna, se vogliamo dirlo; è un gioco di specchi, una maschera che accenna ma non dice, che sussurra senza mai urlare, che sfiora ma non tocca, che lascia intuire senza mai compiere. È erotismo, sì, ma dello scrivere, non del vivere. È una pornolalia dell’anima, un gioco di voci che si sfiorano senza mai incontrarsi, un piacere che non si consuma.
Ed è bene, forse, ripeterselo, ancora e ancora, soprattutto nelle notti insonni, quando il buio s'infila sotto le palpebre chiuse e il sonno è solo un’illusione, un miraggio che ci sfugge come sabbia tra le dita. Questo fare poetico, questa maledetta, incessante arte, non ha bisogno di ornamenti, di scenografie, non chiede costumi né si piega a teatro. È già fuoco che brucia di suo, una fiamma sottile ma incandescente, che scorre nelle vene, nel sangue, un piccolo, eterno fuoco. La poesia è brace sotto la cenere, un fuoco che vive di poco, ma di quel poco si nutre e si moltiplica. È una presenza intima e segreta che non ha bisogno di grandi gesti, che non necessita di clamori. Eppure, è viva, è qui, è un approdo alla vita, un modo per sfiorarla. E anche in questa nostra epoca esausta, dove tutto sembra svuotato e le parole stesse sembrano ormai vuote, logore, consumate, c’è ancora chi continua a stare in piedi, chi nonostante tutto si aggrappa a quelle parole, a quella lingua che pare quasi svanire, come se davvero, su qualche immaginaria barricata, potessimo ancora gridare alla vita, sfidarla, chiamarla a noi. Come se potessimo, davvero, anche solo per un istante.