"Luciano Fabro. Lezioni 1983-1995" e "Lezioni 1996-2002", pubblicati entrambi da Scheiwiller, costituiscono oggi un dittico inscindibile, una sorta di testamento filosofico e pedagogico dell'artista, e al tempo stesso un'opera autonoma che non ha equivalenti nel panorama artistico e accademico italiano. Se il primo volume documenta l'inizio e il consolidarsi del suo insegnamento all’Accademia di Brera, il secondo rappresenta la maturazione estrema del suo pensiero e, insieme, una più esplicita consapevolezza del ruolo critico dell’arte in un’epoca di smaterializzazione culturale e crescente superficialità.
Nel primo volume, come già detto, l'approccio di Fabro è fortemente maieutico e poetico: la parola è uno strumento che serve a innescare processi interiori, a suscitare domande piuttosto che dare risposte. L’arte, per Fabro, è un gesto di attenzione radicale nei confronti della materia e del mondo, e il suo insegnamento si muove dentro questa tensione tra l’invisibile e il visibile, tra il corpo e il concetto. La lezione diventa una performance intellettuale, fatta di silenzi, di aperture improvvise, di parabole liriche e scarti logici: un continuo esercizio di presenza.
Nel secondo volume, che raccoglie gli anni 1996-2002, questa tensione si fa ancora più urgente. Fabro diventa più esplicitamente critico nei confronti dei meccanismi dell’arte contemporanea istituzionalizzata. Le sue lezioni, pur mantenendo lo stesso respiro poetico, si fanno più militanti, più dirette nel denunciare la perdita di senso che accompagna l’estetizzazione globale, l'appiattimento percettivo e la spettacolarizzazione delle pratiche artistiche. C’è un senso di urgenza, quasi di allarme, che attraversa queste pagine, come se Fabro sentisse con crescente forza la necessità di difendere l’arte da se stessa, o meglio dalle derive a cui viene costretta da un sistema che tende a fagocitare ogni gesto critico trasformandolo in prodotto.
In queste ultime lezioni, Fabro parla spesso del concetto di "opera come esperienza", in contrapposizione a ogni forma di oggetto feticizzato. La centralità dell’esperienza corporea, affettiva e percettiva dell’opera viene ribadita con forza crescente. Non è un caso che torni spesso sul tema dello sguardo: lo sguardo non come atto passivo, ma come esercizio attivo, etico, responsabile. Guardare, per Fabro, è un atto d’amore e di precisione, è un modo per entrare in relazione con l’altro — sia esso l’opera, il mondo, o l’essere umano.
Un altro tema fortemente presente nel secondo volume è la memoria — intesa non come nostalgia, ma come stratificazione vivente. Fabro rifiuta ogni forma di contemporaneità vuota e rivendica un rapporto attivo e cosciente con la tradizione: l’arte, per lui, non nasce mai dal nulla, ma sempre da un dialogo, da un confronto, da un’eco. La classicità, il mito, la filosofia antica, l’architettura, sono presenze costanti che abitano il discorso, non come ornamento colto, ma come materiale strutturale del pensiero.
Nel passaggio dal primo al secondo volume si avverte anche un certo addensamento stilistico. Se nelle lezioni degli anni Ottanta e primi Novanta troviamo più spesso aperture liriche, salti metaforici e digressioni letterarie, negli ultimi anni si coglie una scrittura che si fa più scabra, più tagliente, a tratti quasi profetica. È come se Fabro, pur mantenendo intatta la propria capacità poetica, ne volesse ora fare un uso chirurgico: per incidere, più che per avvolgere; per interrogare, più che per sedurre. L’arte, dice Fabro, non è consolazione, è veglia.
L’impostazione editoriale del secondo volume prosegue nel solco del primo: cura formale, sobrietà grafica, rispetto filologico del materiale d’archivio, e un apparato iconografico asciutto ma evocativo. È un lavoro che restituisce non solo il pensiero di un artista, ma anche la vitalità concreta di un’aula, la temperatura di un incontro, l’intimità di un’idea condivisa. Le fotografie documentano installazioni, dettagli di opere, e anche momenti del rapporto tra Fabro e i suoi studenti: corpi in ascolto, in dubbio, in fermento.
Questa coppia di volumi — "Lezioni 1983-1995" e "Lezioni 1996-2002" — rappresenta oggi un unicum. Non esistono in Italia (e forse nemmeno in Europa) documenti pedagogici così radicali e al tempo stesso così raffinati, capaci di restituire l’insegnamento artistico non come trasferimento tecnico, ma come trasformazione ontologica. Non siamo davanti a dei testi da citare nei convegni o da consultare occasionalmente: sono libri che vanno abitati, metabolizzati, riletti. Sono luoghi dell’anima e della coscienza, non manuali.
In un’epoca come la nostra, in cui l’insegnamento delle arti visive rischia sempre più spesso di ridursi a simulazione professionale, a staging curricolare, Fabro ci ricorda che formare un artista significa formare un essere umano capace di percezione profonda, di resistenza simbolica, di azione immateriale. Significa insegnare a vedere — e a vedere in un altro modo.
Nella seconda metà del Novecento, l’arte cessa di essere solo oggetto e visione: si fa processo, pensiero incarnato, gesto collettivo e riflessione sulla presenza nel mondo. In questo scenario si delineano tre figure capitali — Luciano Fabro, Joseph Beuys e Jannis Kounellis — che non solo trasformano il concetto stesso di opera, ma soprattutto ridisegnano le coordinate della pedagogia artistica, spingendola oltre i confini dell’accademia, verso forme più radicali, poetiche e ontologiche di trasmissione del sapere. Ognuno, a suo modo, intende l’atto dell’insegnare come una tensione che mette in gioco non solo la formazione dell’artista, ma la sua stessa umanità, la sua responsabilità nello spazio culturale e simbolico del tempo.
Luciano Fabro: precisione, linguaggio e vertigine
Nelle due raccolte di lezioni — Lezioni 1983-1995 e Lezioni 1996-2002, pubblicate da Scheiwiller — Fabro emerge non come un docente, ma come un liturgista laico della visione. Le sue parole costruiscono architetture di pensiero, o forse meglio ancora, officine dello sguardo: ogni lezione è un’azione che interroga la realtà attraverso la forma. Il suo insegnamento ha una qualità oracolare e analitica insieme: si rivolge all’intelligenza sensibile degli studenti, li sollecita a praticare la distanza, a pensare la materia, a scolpire il vuoto.
Fabro non propone un metodo, ma una soglia: non trasmette nozioni, ma introduce a un rapporto diverso col mondo. Spinge l’allievo a diventare parte attiva della sua percezione, a “pensare facendo” — ma non nell’accezione artigianale del termine. Per lui ogni gesto plastico è una scrittura spaziale dell’intelligenza, una decisione che ha risonanze metafisiche.
Il suo insegnamento è fatto anche di silenzi, di formule in apparenza ellittiche, eppure esatte, quasi tagliate nel marmo del linguaggio. È un maestro che chiede di abitare il dubbio, di esercitare il giudizio senza cadere nell’opinione, di guardare ogni opera non come risultato ma come domanda incarnata. Per questo le sue lezioni non sono semplici documenti didattici, ma tracce di un pensiero in movimento, costellazioni linguistiche in cui l’artista si mette in gioco, rischiando la propria voce per educare lo sguardo dell’altro.
Joseph Beuys: scultura sociale e pedagogia del futuro
Joseph Beuys, tedesco, iconoclasta, teorico e performer, porta la figura del maestro in una zona di combustione politica e spirituale. Il suo concetto di “scultura sociale” — ovvero l’idea che ogni individuo, attraverso l’azione creativa, possa partecipare alla modellazione della società — diventa la chiave di volta della sua pedagogia. Beuys insegna all’Accademia di Düsseldorf, ma ben presto rifiuta i limiti dell’istituzione: accoglie studenti non iscritti, abbatte le distanze tra insegnante e discepolo, si oppone alla selezione come forma di esclusione, e viene infine espulso.
La sua azione educativa, tuttavia, non si esaurisce nel conflitto con l’Accademia: si espande in spazi pubblici, performance, seminari politici, progetti utopici come la Free International University, e perfino in campagne ecologiche e parlamentari. Per Beuys l’insegnamento è rigenerazione del mondo attraverso il pensiero immaginativo: ogni parola è una semina, ogni incontro una possibilità di germinazione. Le sue lezioni non si articolano come argomentazioni lineari, ma come riti, gesti, provocazioni. Il maestro, in questo contesto, diventa un catalizzatore di trasformazione, un guaritore della modernità malata, un mediatore tra mito e realtà.
Eppure, nella sua pedagogia non manca una dimensione di rigore. Il suo approccio è al tempo stesso simbolico e strutturale: la sua concezione dell’arte come “energia plasmabile” richiama una visione quasi alchemica dell’insegnamento. L’artista-studente deve attraversare un processo di trasfigurazione interiore, imparare a pensare oltre le barriere disciplinari, a fare arte con la vita stessa.
Jannis Kounellis: il maestro tragico e la pedagogia dell’essere
Se Fabro è il filosofo e Beuys il profeta, Kounellis è il drammaturgo dell’energia e del silenzio. Insegnante schivo ma intensissimo, ha formato generazioni di artisti con una presenza scenica più che con un metodo. Nella sua pedagogia, il maestro non si espone con la parola, ma con la densità del proprio sguardo, con la presenza carica di attese e tensione drammatica.
Kounellis crede nel potere evocativo della materia: ferro, carbone, stoffe, animali, fuoco, odore, peso. Ogni elemento diventa parte di un teatro interiore, dove lo studente è chiamato a interrogare se stesso prima ancora che l’opera. Non ci sono esercizi, né correzioni accademiche: c’è piuttosto una forma di iniziazione sensoriale, una pedagogia del confronto e dell’intensità. Il maestro non offre risposte, ma crea contesti in cui il discepolo deve esistere nell’opera, entrare in relazione fisica e poetica con il materiale del mondo.
Kounellis, a differenza di Fabro e Beuys, non spiega né interpreta. La sua pedagogia è muta e densa, fatta di prossimità e scarti improvvisi. Le sue rare parole hanno il peso del ferro, e la sua postura – quasi sempre verticale, immobile – è quella di chi testimonia un’intensità, non la insegna. I suoi studenti ricordano le sue lezioni come esperienze emotive più che didattiche, come lampi che accendevano una consapevolezza nuova, ma spesso anche spiazzante.
Tre visioni, tre altitudini della pedagogia
Nel confronto tra queste tre figure, si delineano tre archetipi:
- Fabro è il maestro-scrittore, che modella la parola come la forma, e invita alla precisione dell’essere.
- Beuys è il maestro-profeta, che trasforma l’aula in comunità spirituale e politica, e fa dell’arte un agente sociale.
- Kounellis è il maestro-sciamano tragico, che non istruisce, ma accende la necessità del gesto, invocando l’essere nella materia.
In tutti e tre l’insegnamento non è accessorio all’arte: è arte esso stesso. È un’azione che trasforma, un rapporto che fonda comunità, una messa in gioco che tocca la soglia del sacro. La loro pedagogia non è mai concessione: è rischio, un atto performativo della coscienza, un esercizio che chiede coraggio, ascolto, e — soprattutto — presenza.
Il fallimento, parola scomoda, troppo spesso rimossa dalle retoriche del successo, è in realtà uno dei dispositivi pedagogici più potenti nell’insegnamento artistico, soprattutto laddove la trasmissione non si riduce a mera tecnica ma si fa trasformazione dell’essere. È all’interno di questa pedagogia dell’instabilità che possiamo leggere il pensiero e la pratica didattica di tre maestri profondamente diversi, ma accomunati da un’idea di formazione in cui l’errore, la rovina, il mancamento non sono deviazioni da correggere, bensì punti di passaggio necessari. Per Luciano Fabro, Joseph Beuys e Jannis Kounellis, il fallimento è qualcosa da attraversare, da abitare, da comprendere come evento fondativo e rivelatore.
Questi artisti, ciascuno secondo una propria visione radicale, hanno fatto del momento di crisi uno spazio privilegiato della pedagogia, capace di mettere in discussione non solo il lavoro dell’allievo, ma l’intero concetto di opera. Insegnare, per loro, significava anche — e soprattutto — insegnare a fallire in modo fertile, aprendo nella mente e nel corpo dell’artista in formazione un varco per l’imprevisto, il perturbante, l’indicibile.
Fabro: la disciplina del disorientamento
Luciano Fabro, con la sua insistenza sul rigore e sulla verifica interna dell’opera, non si accontentava mai di un lavoro che “funzionasse”. Il suo metodo era volto a scuotere gli studenti dalla compiacenza, dalla superficialità del “ben fatto”. Dietro la raffinatezza delle sue costruzioni teoriche si celava una visione pedagogica impietosa: l’opera che non si regge è forse la più importante, perché indica una frattura da interrogare.
Nei suoi corsi, Fabro esortava gli allievi a confrontarsi con l’indicibile, con ciò che sfugge al controllo: “Se ti pare che funzioni, allora non funziona”, diceva. Il fallimento diventa così un esercizio di coscienza. Non un difetto, ma una condizione essenziale per accedere a una verità più profonda del proprio gesto. Non c’è opera senza rischio, non c’è forma senza vertigine. Il crollo della forma, per Fabro, è momento di rivelazione: ciò che non tiene ci parla con più urgenza di ciò che regge.
Non è un caso che nelle sue lezioni, documentate nei due volumi Scheiwiller Lezioni 1983-1995 e Lezioni 1996-2002, si percepisca continuamente questa tensione tra controllo e disgregazione. L’artista insegna allo studente a guardare con lucidità il proprio fallimento, non per evitarlo, ma per lavorarci dentro, per scavarci un senso che non sia decorativo, ma necessario. L’opera non è l’esito, è il campo di battaglia.
Beuys: fallire come gesto iniziatico
Per Joseph Beuys, la pedagogia del fallimento ha radici sciamaniche. La sua esperienza traumatica — mitizzata nella narrazione della caduta dell’aereo, della salvezza da parte dei Tartari, del grasso e del feltro come materiali di guarigione — diventa metafora vivente della trasformazione. L’arte, secondo Beuys, non nasce dal dominio della materia, ma dalla frattura dell’identità. Il fallimento è la soglia attraverso cui il soggetto artistico si disgrega per potersi rigenerare.
Nel contesto della sua didattica, il fallimento viene integrato come momento rituale: l’errore è l’inizio del processo alchemico. La lezione non è lineare, spesso confusa, teatrale, caotica. Beuys non insegna risposte, ma genera scompiglio. Il suo metodo punta a disarmare l’allievo, a destrutturare le certezze per far emergere un sapere che non sia appreso, ma subìto — interiorizzato come esperienza trasformativa.
Il fallimento è dunque un’opera esso stesso: un gesto che interrompe il fluire dell’abitudine, una ferita che apre spazio a nuove energie. Ogni volta che un progetto non riesce, che un’installazione fallisce, Beuys ci chiede: cosa nasce da questo vuoto? Cosa puoi ascoltare, ora che hai perso il controllo? È questa perdita a rendere autentica la creazione.
Kounellis: l’opera che tace
Diversa e forse ancora più radicale è la posizione di Jannis Kounellis. In lui, il fallimento non ha alcuna retorica salvifica: è assenza reale, crudezza del vuoto, peso del silenzio. Kounellis non mette in scena la rottura: la incarna. Nella sua postura pedagogica, il fallimento coincide con la non-risposta, con l’inesistenza di una via chiara. I suoi studenti dovevano imparare a sopportare il mutismo del maestro, l’assenza di indicazioni, la totale mancanza di rassicurazione. L’insegnamento si riduce a un tempo sospeso, in cui il giovane artista è costretto a misurarsi con la propria solitudine creativa.
In questa pedagogia dura e spietata, il fallimento assume una dimensione tragica: è l’incapacità di dire, di agire, di esistere attraverso l’opera. Ma è anche il punto in cui può accadere qualcosa di irriducibile: non la soluzione, ma la soglia. L’opera non nasce “nonostante” il fallimento, ma attraverso il fallimento. Kounellis non accetta scorciatoie: tutto ciò che non emerge da un’urgenza autentica è falso. E il fallimento è, appunto, la misura più precisa dell’autenticità. Solo chi ha sperimentato il vuoto può generare forma.
Tre pedagogie, un punto cieco
Fabro lavora nel crepuscolo tra forma e rovina, Beuys nel caos che rigenera, Kounellis nel silenzio che spezza. Ma per tutti e tre, il fallimento non è un ostacolo: è materia prima. È l’evento che spezza il ritmo della consuetudine, che frantuma l’idea di un’opera già pensata, già compiuta. È lo scandalo da cui si origina la necessità. L’allievo che non ha fallito non ha ancora iniziato.
Nel tempo attuale, in cui la formazione artistica tende sempre più alla produzione, alla spendibilità, al successo immediato, queste tre figure ci consegnano un’altra possibilità: quella di educare al disastro, alla fragilità, alla non riuscita. Non per il gusto della sconfitta, ma per far emergere un pensiero che non sia decorativo, ma vitale. Perché solo chi ha guardato da vicino il proprio fallimento può scegliere, davvero, se tacere o creare.
Fallire nella trasmissione: eredità vive, derive istituzionali
Se le pedagogie radicali di Fabro, Beuys e Kounellis hanno lasciato una traccia significativa nell’insegnamento artistico contemporaneo, è in gran parte perché hanno fatto del fallimento non solo un nodo esperienziale, ma una postura epistemologica. Il fallimento, per loro, non era un accidente da gestire né un rischio da minimizzare, ma un ambiente conoscitivo, un elemento di rottura capace di risvegliare consapevolezze estetiche, etiche e politiche. Eppure, proprio questa densità teorico-pratica ha reso la loro eredità difficile da accogliere nelle istituzioni formative, che spesso hanno travisato la radicalità del loro messaggio, riducendolo a stilema, slogan, esercizio didattico.
Nell’onda lunga di queste visioni — dagli anni Ottanta fino ai nostri giorni — il fallimento ha assunto nei contesti accademici una doppia veste: da un lato è stato celebrato come principio di apertura, dall’altro normalizzato fino a diventare pedagogia del consenso. Un processo che, pur affondando le radici nelle intenzioni trasformative degli artisti, ha finito per devitalizzarne l’urgenza, trasformando ciò che era crisi in narrazione gestibile, ciò che era tensione in formula, ciò che era abisso in procedura.
Fabro e la tensione inattingibile dell’opera
Nel caso di Luciano Fabro, la centralità del fallimento emerge con particolare potenza nei suoi cicli di lezioni — soprattutto nel secondo volume, "Lezioni 1996-2002", dove la riflessione diventa più autocritica, consapevole di un progressivo irrigidimento dei contesti accademici. Fabro non insegna mai a “superare” il fallimento, ma piuttosto a sostarvi. L’opera non nasce dalla riuscita, bensì da uno scarto irrisolvibile tra intenzione e realizzazione. Il gesto artistico è sempre disallineato rispetto al pensiero che lo genera, e proprio in questa frizione si colloca il suo potere formativo. Fabro insiste: lo studente deve ascoltare il proprio “non riuscire”, riconoscerne la voce, senza correre a correggerla. Il docente, in questo schema, non è colui che mostra come “fare meglio”, ma colui che accompagna nella dismisura, nella dissonanza.
Ora, quando un simile approccio è stato accolto — o meglio, recepito — dalle accademie postmoderne, ha subito una trasformazione profonda: si è tentato di costruire protocolli didattici in grado di “simulare” l’esperienza del fallimento, attraverso esercizi destrutturanti, progetti aperti, valutazioni non finalistiche. Ma in molti casi questa apertura si è tradotta in anarchia indifferente, in una tolleranza generalizzata priva di veri dispositivi critici. Il fallimento, spogliato della sua carica tragica, è diventato un evento neutro: una delle tante possibilità del fare arte, non più la ferita da attraversare.
Beuys e la mitologia del trauma
Joseph Beuys ha posto il fallimento al centro di una mitopoiesi personale e politica, facendo del proprio trauma fondativo — lo schianto aereo e la sopravvivenza miracolosa — una metafora dell’arte come esperienza liminale. Il suo insegnamento, come è noto, rifiutava ogni separazione tra opera, gesto pedagogico e vita. La trasformazione, per Beuys, non era un obiettivo didattico ma un rischio intrinseco del processo. Insegnava attraverso il disordine, l’ambiguità, la provocazione.
Nel contesto accademico contemporaneo, però, l’eco di Beuys è stata spesso banalizzata in una retorica soft del “fare collettivo”, del “tutti sono artisti”, della “democratizzazione della creatività”. Il trauma è diventato storytelling, il fallimento un’esperienza da raccontare piuttosto che da vivere. Alcuni programmi universitari hanno perfino inserito moduli dedicati alla “gestione dell’insuccesso”, trasformando l’elemento disgregante in skill. È in questo passaggio — dalla catastrofe interiore al laboratorio sulle “strategie di resilienza” — che si misura la distanza tra Beuys e le sue imitazioni. In nome della replicabilità, la pedagogia di Beuys è stata svuotata della sua componente esoterica, iniziatica, che non può essere normalizzata né valutata su una griglia.
Kounellis e la pedagogia del vuoto
Jannis Kounellis, più di ogni altro, ha fatto del silenzio il proprio strumento formativo. La sua era una pedagogia del vuoto, del non detto, dell’irriducibile. Le sue lezioni, testimoniano gli allievi, erano spesso mute, attraversate da gesti, silenzi e improvvise rivelazioni. Il fallimento, in Kounellis, è assenza strutturale, rinuncia alla forma compiuta, tensione verso una realtà che non si lascia esprimere. Insegnava a trattenere, non a mostrare. A fallire come forma di verità.
In ambito accademico, tuttavia, questa pedagogia è risultata quasi del tutto inassimilabile. La tendenza delle istituzioni a tradurre ogni gesto in metodo, ogni intuizione in teoria, ha reso impossibile accogliere realmente la postura di Kounellis. Alcune scuole hanno provato a replicarne l’approccio con simulazioni di “atelier vuoti”, ma senza riuscire a cogliere l’insegnamento profondo: che l’arte nasce non dal nulla come vuoto formale, ma come mancanza sacra, come sospensione, come inadeguatezza ontologica.
Derive e metamorfosi nel presente accademico
Oggi, nelle accademie d’arte contemporanee, il fallimento è diventato un concetto familiare, ma in gran parte privato della sua pericolosità originaria. Si parla di “processualità”, si valorizza la “ricerca”, si invita allievi e docenti a “non temere l’errore” — eppure, dietro questa apertura apparente si nasconde spesso un irrigidimento valutativo ancora più pervasivo, dove l’imperativo alla riuscita è stato semplicemente traslato dal prodotto finito al processo documentato. L’artista-studente non deve più “riuscire a creare”, ma deve “riuscire a raccontare il proprio fallimento”, trasformandolo in narrazione accettabile.
Questo è il vero fraintendimento: il fallimento, nella sua versione istituzionalizzata, è diventato un contenuto, non un’esperienza. Viene tematizzato, schedato, illustrato, ma non vissuto. Per Fabro, Beuys e Kounellis, invece, il fallimento era la condizione stessa dell’incontro con l’opera, là dove l’artista non sa più cosa fare, e tuttavia continua. È in questa zona grigia, non codificabile, che si produceva la trasmissione.
Verso una pedagogia dell’irrisolvibile
Tuttavia, non tutto è perduto. In alcune esperienze marginali, in scuole indipendenti, in atelier autogestiti o in corsi universitari particolarmente aperti, si stanno sviluppando pratiche capaci di restituire al fallimento la sua carica pedagogica originaria. Laboratori dove il tempo non è scandito da obiettivi ma da crisi, dove il confronto tra studenti e docenti è fatto di pause, di disorientamenti reciproci, di ascolto profondo del non sapere.
In questi luoghi il fallimento non è un tema, ma una pratica. Non si insegna cosa fare in caso di fallimento, ma come stare dentro di esso, con rispetto, con pazienza, con umiltà. In un tempo in cui tutto sembra chiedere risultati immediati, questi spazi offrono la possibilità di rallentare, di sostare nella frustrazione, di fallire — davvero — senza paura. E forse proprio qui, nel margine, si intravede il futuro più autentico dell’insegnamento artistico: non nella ripetizione scolorita delle lezioni dei maestri, ma nel loro eco trasformativo, nell’esercizio di una presenza fragile e consapevole, disposta a farsi da parte per lasciare che il fallimento parli.