domenica 27 aprile 2025

Corpi in transizione: Il virtuale, il fisico e la tensione queer nell'èra digitale

Il vizietto, uscito nel 1978 con la regia di Édouard Molinaro, è uno di quei film che sembrano appartenere a un’epoca precisa, quella delle commedie brillanti francesi anni Settanta, e insieme anticipano, con sorprendente lucidità e delicatezza, questioni che solo molti anni più tardi sarebbero entrate davvero nel dibattito culturale e sociale mainstream. Tratto dalla pièce teatrale La Cage aux Folles di Jean Poiret, il film ha la struttura del vaudeville: travestimenti, scambi d’identità, bugie a catena e un ritmo narrativo incalzante. Ma ciò che lo rende ancora oggi un piccolo miracolo cinematografico è la sua capacità di far convivere la farsa più smaccata con una sottile – e inaspettata – umanità.

I protagonisti sono Renato Baldi (Ugo Tognazzi), proprietario del night club “La Cage aux Folles”, e Albin Mougeotte (Michel Serrault), la stella del locale, che si esibisce ogni sera nei panni dell’ammiratissima Zazà Napoli. La coppia – affiatata, burbera, affettuosa, capricciosa – vive insieme da anni in una domestica quotidianità che, al netto delle piume e delle scenette da varietà, non è meno convenzionale di quella di molte famiglie eterosessuali. La trama si mette in moto quando Laurent, il figlio di Renato nato da una fugace relazione etero, annuncia di volersi sposare con la figlia di un importante politico ultraconservatore. Il fidanzamento impone alla coppia gay di nascondere la propria identità per non turbare la sensibilità della famiglia “perbene”. Da qui parte una girandola di equivoci, travestimenti e gag esilaranti, che tuttavia non tradiscono mai l’intelligenza della scrittura né la verità emotiva dei personaggi.

Il fulcro del film è il personaggio di Albin/Zazà, interpretato da Michel Serrault in uno dei ruoli più iconici della sua carriera. La sua figura non è mai ridotta a semplice macchietta: dietro gli eccessi melodrammatici, dietro le crisi isteriche da primadonna si intravede una profonda fragilità, un desiderio di essere accettato e amato che commuove. Serrault riesce a dare corpo e voce a un’identità queer prima ancora che esistesse un linguaggio condiviso per raccontarla sullo schermo. Non meno incisiva è la prova di Ugo Tognazzi, che presta a Renato una maschera di disincanto e di bonaria ironia, ma che in più di un’occasione rivela la dolcezza nascosta dietro il cinismo di facciata. Tognazzi è misurato, elegante, perfettamente a suo agio nel ruolo del padre omosessuale che, pur tra mille contraddizioni, ha cresciuto suo figlio con amore e presenza.

A rendere Il vizietto un oggetto filmico prezioso è anche la sua capacità di smascherare, con il sorriso, le rigidità di una società ipocritamente normalizzata. L’apparente follia del mondo queer – fatta di paillettes, parrucche e gag esagerate – diventa, nel confronto con l’ottusità dei benpensanti, un riflesso di umanità, libertà e affetto autentico. I veri mostri sono altrove: nei politici conservatori, nelle madri bigotte, nei meccanismi sociali che impongono la menzogna per non disturbare l’ordine costituito. E mentre i personaggi si travestono, fingono, recitano ruoli, il film svela – con un’ironia sottile e profondamente politica – che i travestimenti più pericolosi sono quelli imposti dalla morale dominante.

Molinaro dirige con ritmo impeccabile, con un’eleganza sobria che lascia spazio ai suoi attori senza mai imporsi. La macchina da presa osserva, accompagna, costruisce la scena lasciando che siano le battute, gli sguardi, i tic e le intonazioni a delineare l’universo psicologico dei protagonisti. L’ambientazione del locale notturno, con il suo caleidoscopio di luci, costumi e personaggi di contorno, contribuisce a creare un mondo dove tutto è possibile, dove il margine diventa centro, e la finzione si fa verità.

Il successo del film è stato clamoroso: acclamato in Francia, amatissimo in Italia, distribuito in tutto il mondo, Il vizietto ha generato due sequel e un celebre remake americano, The Birdcage – Piume di struzzo (1996) con Robin Williams e Nathan Lane. Ma è l’originale a conservare, intatto, il suo incanto. Non solo per la qualità della recitazione e della scrittura, ma per la sua capacità di parlare d’amore e di famiglia con un’empatia rara. Il film non rivendica diritti, non fa proclami: semplicemente mostra che l’amore – anche quello tra due uomini – può essere tenero, esilarante, imperfetto, ma profondamente vero. E lo fa senza rinunciare al divertimento, trasformando la commedia in uno spazio di libertà e resistenza.


Il vizietto (1978): travestimento, tenerezza e rivoluzione silenziosa nel salotto della borghesia

C’è un momento in Il vizietto in cui Zazà – cioè Albin, cioè Michel Serrault – tenta disperatamente di apprendere un modo “virile” di camminare, bere e sedersi, sotto lo sguardo esasperato e tenerissimo di Renato/Ugo Tognazzi. È una scena di pura commedia, certo, ma che racchiude in sé un intero manifesto queer ante litteram: la costruzione performativa del genere, l’assurdità delle norme di genere imposte, la dolorosa goffaggine dell’adattamento coatto. In quella scena – come in molte altre del film – il riso nasce non dalla derisione dell’identità queer, bensì dalla messa a nudo dell’artificio eterosessuale. È questo il vero segreto del film di Édouard Molinaro: sovvertire le gerarchie del comico, facendo dell’“anormale” la norma, e del “normale” una farsa grottesca.

Uscito nel 1978, Il vizietto arriva in un momento storico ambiguo: dopo la rivoluzione sessuale, ma prima che le rivendicazioni LGBTQ+ diventassero parte integrante del discorso pubblico. Il film, tratto da una pièce teatrale di Jean Poiret, si pone in bilico tra tradizione e avanguardia, tra vaudeville e rivoluzione dei costumi. Apparentemente solo una commedia degli equivoci con travestimenti, bugie e porte che si aprono e chiudono a tempo di gag, in realtà il film lavora come un bisturi sotto la pelle del moralismo borghese, svelando l’assurdità delle sue pretese di decoro, purezza, normalità.

Renato e Albin sono una coppia, punto. Una coppia litigiosa, affettuosa, piena di riti quotidiani, stanca a volte, appassionata sempre. Hanno cresciuto un figlio – Laurent – e insieme formano una famiglia. Il film non lo dice, non lo sottolinea, non lo teorizza: lo mostra. Con naturalezza. Con dolcezza. Con una complicità che è più forte di qualunque definizione. In questo senso, Il vizietto anticipa di almeno trent’anni le narrazioni “normative” dell’omosessualità: non quella trasgressiva e spettacolare, ma quella domestica, affettiva, quotidiana. In un’epoca in cui l’omosessualità era ancora associata a solitudine, tragedia o eccentricità patologica, il film osa mostrare due uomini che si amano, che litigano per gelosia o per la decorazione della casa, che si appoggiano l’uno all’altro con tenerezza, che si prendono cura di un figlio, che – in fondo – si somigliano più di quanto credano.

Ma non è solo la rappresentazione dell’omosessualità che rende Il vizietto un oggetto filmico radicale. È anche la sua strategia estetica: un gusto camp appena accennato, mai caricaturale; una regia apparentemente classica ma in realtà mobile e astuta; un uso dei costumi, delle luci e degli spazi come elementi narrativi profondi. La casa di Renato e Albin è un personaggio essa stessa: luogo di eccesso, di teatralità, di libertà. Le statue falliche, le tende dorate, i mobili pseudo-barocchi, tutto parla di un’estetica kitsch che però non è mai derisa. Al contrario: viene lentamente mostrata come una forma di verità, come il teatro dove i due protagonisti possono essere finalmente se stessi.

Il mondo esterno, invece – incarnato dai genitori della futura sposa di Laurent, esponenti dell’estrema destra moraleggiante e bigotta – appare come una maschera tragica e parodica. L’ossessione per il decoro, la reputazione, il “buon nome” produce le situazioni più grottesche: Albin costretto a fingersi zio, poi madre, poi donna “normale”; Renato che ingoia la propria identità per amore del figlio; il figlio stesso che, pur sinceramente affezionato ai suoi padri, chiede loro di cancellarsi per non creare problemi. Tutto il film è una danza tra visibilità e invisibilità, tra rimozione e affermazione, tra il diritto di esistere e la necessità di nascondersi. Ma in questa danza, Molinaro inserisce uno sguardo preciso: mai giudicante, mai complice del conformismo, sempre solidale con chi è costretto alla maschera. La comicità diventa allora uno strumento etico: non per deridere ma per resistere, per mostrare la verità sotto il cerone.

Il successo internazionale del film fu enorme. In Italia, dove l’omosessualità era ancora relegata ai margini della rappresentazione pubblica, il pubblico rispose con entusiasmo alla coppia Tognazzi-Serrault. Merito anche dell’equilibrio delicatissimo tra provocazione e rassicurazione: Il vizietto osa moltissimo ma sempre con il sorriso. È un film “per tutti” che però non si svende, non si annacqua. Non moralizza, ma neppure banalizza. Racconta una storia d’amore e di famiglia – che per caso è anche omosessuale – e lo fa senza chiedere il permesso a nessuno.

In questo, il film precorre anche l’idea della “rappresentazione come militanza silenziosa”: senza proclami, senza bandiere, senza martiri, ma con una presenza ostinata e quotidiana. Albin e Renato esistono. Amano. Crescono un figlio. Preparano la cena. Si truccano. Litigano. Ridono. E soprattutto, ci mostrano quanto sia fragile e ridicolo il castello di carte delle convenzioni sociali quando è messo a confronto con la forza imprevedibile dell’affetto autentico.

La prova attoriale di Michel Serrault è un vertice assoluto: riesce a essere caricaturale e struggente nello stesso gesto. La voce stridula, le movenze teatrali, le crisi melodrammatiche, tutto è calibrato con intelligenza chirurgica. Ma dietro Zazà si intravede sempre Albin, e dietro Albin un essere umano profondamente vulnerabile e desideroso d’amore. Il momento in cui si trucca davanti allo specchio – preparandosi alla sua “performance” come madre – è tra i più intensi del film: è lì che si vede la faglia tra identità e ruolo, tra desiderio e dovere, tra sé e l’altro. Serrault non interpreta un personaggio: costruisce un universo.

Ugo Tognazzi, dal canto suo, gioca di sottrazione: è ironico, pungente, un po’ cinico, ma infinitamente affettuoso. Il suo Renato è un uomo stanco, forse disilluso, ma che ama con una forza che non ha bisogno di parole. Non è un eroe, non è un santo, non è un martire. È semplicemente un uomo innamorato, un padre presente, un compagno fedele. E in questa normalità – così raramente concessa agli uomini gay nel cinema – c’è tutta la potenza politica del film.

Oggi, riguardare Il vizietto significa fare i conti con quanto il cinema possa essere uno specchio deformante e insieme rivelatore. In un momento storico in cui il dibattito sull’identità di genere, sulla rappresentazione queer, sulle famiglie omogenitoriali è ancora carico di tensioni, questo piccolo capolavoro ci ricorda che si può fare politica anche con le piume, con un soufflé malriuscito, con una camminata troppo flessuosa. E ci ricorda che il riso – se ben dosato – può essere lo strumento più efficace per disinnescare l’odio.

Il vizietto è dunque molto più di una commedia riuscita: è un gesto di tenerezza radicale, un atto d’amore travestito da farsa, un’ode all’imperfezione queer in un mondo che si ostina a volerla nascondere. E come ogni travestimento ben portato, anche quello del film, alla fine, rivela. Sempre. Tutto.


Le reazioni della critica dell’epoca: una sorpresa inaspettata (ma non troppo)

Quando Il vizietto uscì nelle sale nel 1978, la critica cinematografica europea si trovò un po’ spiazzata. Da un lato, molti recensori – soprattutto in Francia e in Italia – furono costretti a riconoscere che il film aveva colpito nel segno: pubblico entusiasta, sale piene, un successo inaspettato che non poteva essere liquidato come semplice “commedia gay”. Dall’altro, non mancarono i tentativi di neutralizzare la carica sovversiva del film attraverso un processo di “normalizzazione interpretativa”. Alcuni lo ridussero a un tipico prodotto da boulevard, ben confezionato ma innocuo; altri, più conservatori, criticarono l’esposizione troppo sfacciata dell’omosessualità (pur ammorbidita dalla comicità) come un possibile “scandalo”.

Ma la vera cifra dell’ambiguità critica sta nel fatto che Il vizietto venne spesso elogiato proprio per la sua capacità di rendere “accettabile” qualcosa che fino a poco prima era ancora indicibile. In Italia, riviste come Il Dramma e Cineforum evidenziarono l’abilità di Tognazzi nel restare sempre in bilico tra maschera e verità, tra cliché e empatia. Il critico francese Jean-Louis Bory, già noto per la sua apertura verso il cinema omosessuale (e dichiaratamente gay), scrisse sul Nouvel Observateur che si trattava di una “comédie délicieuse qui cache une bombe à retardement sous chaque réplique” – una commedia deliziosa con una bomba a orologeria sotto ogni battuta.

Non mancarono, però, le accuse di caricatura: alcuni osservatori più attenti al contesto politico denunciarono il rischio di “addomesticamento” dell’identità gay in una forma borghese e compiacente. Il film, in effetti, non parla mai di omosessualità in termini politici, non evoca lotte o rivendicazioni. Ma è proprio questo silenzio – questa ostinata quotidianità – che fu letta da altri come un atto rivoluzionario. Anche in ambienti di sinistra, la reazione fu spesso di sospetto: si temeva che la cultura dominante stesse fagocitando la “devianza” rendendola folkloristica. Ma erano le paure di un’epoca che stava cambiando troppo in fretta per tutti.


Il remake americano: The Birdcage (1996)

Diciotto anni dopo, Hollywood mise le mani su Il vizietto e lo trasformò in The Birdcage, diretto da Mike Nichols, con Robin Williams e Nathan Lane. Scritto da Elaine May, il film americano mantiene gran parte della trama originale ma la trasla a South Beach, Miami, in un ambiente più patinato e meno volutamente teatrale. Il locale di drag queen diventa un dinner show per famiglie eccentriche, e i personaggi, pur mantenendo alcuni tratti dei loro omologhi francesi, risultano più trattenuti e “professionalizzati” – meno romantici, più funzionali.

Il risultato è un’opera riuscita, divertente, tecnicamente perfetta, ma a tratti meno tenera. Robin Williams interpreta un padre omosessuale che ha fatto della misura il suo stile; Nathan Lane, pur bravissimo, tende a scivolare in un camp più plastificato, figlio dell’estetica anni Novanta. Il dramma domestico si sposta sul piano della commedia mainstream, e la regia di Nichols – raffinata ma sobria – evita i guizzi visionari o claustrofobici che invece, nel film francese, erano parte integrante dell’immaginario queer.

Va detto, però, che The Birdcage ebbe un ruolo fondamentale nel ridefinire la visibilità gay nel cinema americano degli anni ’90, in piena epoca Clinton, a ridosso del trauma collettivo dell’AIDS e dell’avvento della “normalizzazione” delle famiglie alternative. La pellicola riuscì a sfondare il muro della diffidenza di un pubblico generalista, senza dover cedere a troppe semplificazioni. Ma è un film che, rispetto a Il vizietto, sembra chiedere scusa per esistere: più attento a piacere che a resistere.

La differenza tra i due film non è solo culturale, ma politica. In Francia e in Italia, Il vizietto poteva ancora permettersi una forma di anarchia narrativa, una leggerezza che era in realtà spiazzante; The Birdcage, invece, è figlio di un’industria che ha bisogno di rassicurare, di incasellare. Il travestimento americano è più “spettacolo” che “identità”, e la lotta interiore dei personaggi è più moralizzata. È un film più sicuro di sé, ma anche meno fragile. E la fragilità – come insegna Zazà – è una forma altissima di verità.


La ricezione queer contemporanea: da commedia a culto

Oggi, Il vizietto è diventato un classico. Ma soprattutto è diventato un riferimento ineludibile della memoria queer europea. La comunità LGBTQ+ guarda al film con un misto di tenerezza, riconoscenza e desiderio critico. Se da un lato è innegabile il valore pionieristico della rappresentazione di una coppia omogenitoriale felice, visibile, funzionale, dall’altro è emersa negli anni una lettura più complessa della sua ambiguità. Albin è, per molti, un’icona queer nel senso più autentico: ironica, vulnerabile, consapevolmente teatrale. Ma il film non sfugge del tutto alla trappola della performatività effeminata come unico modello rappresentabile di omosessualità.

È per questo che oggi, in un tempo in cui le narrazioni queer si sono moltiplicate – dalle serie tv come Pose fino ai film d’autore di Xavier Dolan o Pedro Almodóvar – Il vizietto viene letto anche come documento storico. È un film che ha avuto il coraggio di mostrare ciò che non si poteva dire, ma che inevitabilmente porta con sé le tracce del compromesso, del non detto, dell’autoironia come scudo.

E tuttavia, proprio questa sua natura “impura”, non militante, non ideologica, lo ha reso un oggetto cult. Per le generazioni che sono cresciute negli anni Ottanta e Novanta, il film è stato spesso la prima occasione per vedere due uomini che si amavano. Non in un dramma straziante, non in una tragedia simbolica, ma in una commedia. In un sorriso. In un abbraccio.

Oggi, le proiezioni di Il vizietto nei cineclub queer sono eventi carichi di affetto. Albin e Renato non sono solo personaggi: sono zii, madri, padri spirituali. Il loro appartamento kitsch è diventato un archetipo. La loro storia un rito d’iniziazione. E in un’epoca che ha visto la radicalizzazione del discorso sull’identità, Il vizietto torna ad avere un senso profondo: ricordarci che l’utopia, a volte, può abitare anche nei piccoli gesti, nei rituali quotidiani, nelle bugie pietose, nelle piume che volano mentre si serve la cena.


Eccoci in una nuova sezione di approfondimento, dedicata al confronto tra Il vizietto e il teatro queer europeo contemporaneo — un confronto che fa scintille, tra memoria e rottura, tra piume e sangue, tra risate e pianti a luci viola.

Dal palcoscenico alla performance radicale: il corpo queer tra Il vizietto e le scene europee di oggi

Il vizietto, nato dalla commedia teatrale di Jean Poiret (La cage aux folles, 1973), porta con sé l’eco di una tradizione teatrale consolidata, ancora legata al vaudeville, alla farsa borghese, al travestimento come gioco. Albin, la Zazà, è la maschera dell’eccesso, l’epitome di un femminile esasperato e disarmato, ma sempre all’interno di una gabbia di riconoscibilità. Il suo corpo è scenico, decorativo, stilizzato: mai minaccioso. Renato è il padre tragicomico, l’uomo che cerca di “gestire” l’eccesso del partner e renderlo socialmente sopportabile. Il conflitto tra visibilità e dissimulazione, tra famiglia queer e apparenza eteronormata, si risolve in un compromesso narrativo: tutto si sistema, la bugia ha funzionato, l’amore ha vinto, ma senza sconvolgere davvero le gerarchie del mondo. Una rivoluzione domestica, non politica. Una flamboyance addomesticata.

Eppure, se oggi ci affacciamo sulle scene del teatro queer europeo — da Berlino a Barcellona, da Bruxelles a Napoli — ci accorgiamo di come quel compromesso, oggi, venga fatto esplodere. Il teatro queer contemporaneo non gioca più con l’identità come con una maschera, ma ne espone la carne viva. Non la teatralizza: la mette a nudo, la smonta, la espone allo sguardo come forma di resistenza e di rivolta.

Artisti come Phia Ménard in Francia, che trasforma il proprio corpo in scena attraverso lente mutazioni fisiche e simboliche, o come Milo Rau e il suo International Institute of Political Murder, che nei suoi lavori porta la marginalità queer dentro narrazioni documentarie di guerra, genocidio e colonialismo, si muovono in tutt’altra direzione rispetto all’universo tenero e rassicurante di Renato e Albin. Lo stesso dicasi per performer come Florentina Holzinger, che trasforma la scena in una palestra post-femminista, dove il corpo queer e il corpo femminile non sono più soggetti estetici ma campi di battaglia.

Il corpo, oggi, è queer perché è ferito, resistente, mutante. È un corpo che sanguina, che si espone all’umiliazione, alla chirurgia simbolica, alla riscrittura. Non basta più “mettere i tacchi”: bisogna decostruire il piede. Non basta la parrucca: si sfila il cuoio capelluto. Il queer è diventato autopsia estetica di ogni binarismo, anche quello comico. Non c’è più lo zucchero della farsa: c’è il dolore come gesto politico, l’eccesso come arma.

Eppure, proprio per questo, Il vizietto resiste. Come oggetto del passato, certo, ma anche come luogo affettivo, archivio del desiderio, momento mitico di un’identità che stava imparando a darsi una forma condivisibile. Oggi, quel film può essere riletto alla luce delle pratiche performative contemporanee: Albin non è più solo la drag tenera e tragicomica, ma diventa il prototipo di una generazione che si è fatta visibile con grazia perché non poteva farlo con rabbia. Dove oggi c’è il grido, allora c’era il sorriso. Dove oggi c’è lacerazione, allora c’era il trucco.

Il confronto non è tra vecchio e nuovo, ma tra due modi di abitare il corpo queer in scena: uno mediato, ironico, borghese, che gioca a sfiorare il trauma senza mai mostrarlo; l’altro diretto, feroce, erotico, che rifiuta ogni pacificazione. In questo senso, Il vizietto e il teatro queer di oggi si parlano come generazioni diverse della stessa famiglia: la prima ha aperto la porta con grazia, la seconda ha buttato giù i muri con la forza.

Ma forse — come sempre nel queer — non si tratta di scegliere. Forse oggi possiamo guardare Il vizietto come guardiamo le fotografie delle nostre zie che ridevano troppo forte nei battesimi anni ’70: con amore, con una certa vergogna, e con infinita riconoscenza.


Qui una nuova sezione, dedicata al ruolo delle drag queen e del cabaret queer, da Il vizietto a RuPaul's Drag Race e oltre. Un arco lungo, che attraversa piume, parrucche, politica, plastica e poesia.

Dalla Zazà a Sasha Velour: genealogia di un corpo performativo

Nel cuore de Il vizietto c’è lei, Albin, in arte Zazà Napoli. Una drag queen “di vecchia scuola” che canta Edith Piaf, si offende con eleganza, e incarna l’idea che l’identità queer possa trovare legittimità proprio grazie alla sua teatralizzazione. La Zazà non è una performer “radicale”, ma è una figura ambigua e tenerissima, tanto iperfemminile quanto materna, che sposta l’asse della drag da gesto dissacrante a gesto domestico. E questo è un passaggio storico: per la prima volta nel cinema europeo un uomo in abiti femminili non è un mostro, non è solo un buffone, ma è un essere umano amabile, che merita rispetto. È una rivoluzione travestita da commedia. Il travestimento, nel caso di Albin/Zazà, non serve solo a nascondere: serve a rivelare. È uno specchio attraverso il quale si afferma una verità.

Ma cosa resta oggi di quella verità, dopo che la drag culture è esplosa in ogni direzione, diventando fenomeno globale, marchio estetico, merchandising, pedagogia e a volte perfino neoliberismo glamourizzato?

L’avvento di RuPaul’s Drag Race ha segnato un punto di non ritorno: la drag non è più confinata ai cabaret, né ai locali LGBTQ+ delle metropoli notturne. È diventata mainstream entertainment, reality show, arte pop e (per certi versi) anche disciplina. Se Albin lottava per essere accettata all’interno di una famiglia borghese francese, oggi le drag queen sono le zie globali di una generazione queer che ha fatto del trucco un manifesto, della lip sync una forma di sopravvivenza e del body contouring una geografia alternativa del corpo.

Tuttavia, in questo passaggio dalla marginalità alla visibilità estrema, qualcosa si è trasformato — e si è anche perso. Il cabaret queer, come forma d’arte notturna, era un luogo di resistenza: un rifugio e insieme un’offensiva. Era poesia sporca, arte del fallimento, eleganza nella ferita. Pensiamo alla drag di Leo Bersani o alle genderfuckers di performance art negli anni '80: figure che non volevano piacere, ma disturbare. Oggi, in molti casi, la drag è diventata spettacolo levigato, estetica della competizione, showreel identitario che premia l’abilità tecnica e la passabilità. Il vizietto si muoveva in un’epoca premediatica, in cui la performance drag non era una tappa per la fama, ma un gesto d’amore. Si cantava Piaf per sopravvivere, non per il titolo di "America's Next Drag Superstar".

Eppure, la genealogia non si spezza: si ibrida. Le nuove generazioni di drag queen — da Sasha Velour a Symone, da Bimini a La Big Bertha — stanno riscrivendo il rapporto tra corpo, politica e spettacolo. Alcune tornano a un’estetica cabarettistica di denuncia, altre usano il mezzo televisivo per parlare di razzismo, transessualità, disabilità. La drag contemporanea può essere tanto un gesto di bellezza quanto di militanza. Non si tratta più di imitare la donna, ma di scomporla. La femminilità diventa materiale plastico, flessibile, esplosivo. Un campo di sperimentazione che prende le mosse proprio da quella Zazà che, nel 1978, tra un colpo di cipria e uno svenimento drammatico, già reclamava il diritto a essere guardata e amata senza doversi giustificare.

Il cabaret queer, sebbene meno visibile rispetto al monolite mediale di Drag Race, continua a esistere nei sotterranei delle città europee, nei piccoli festival indipendenti, nelle notti in cui la performance si fonde con la confessione. È lì che si percepisce ancora oggi lo stesso fremito che Albin prova quando entra in scena, sostenuta dal pubblico che applaude, ma anche dalla paura di essere “troppo”. Ed è proprio quel “troppo” che è diventato, per molti, un’etica. L’etica del glitter, della risata come arma, del trucco come rivendicazione.

Zazà e RuPaul non sono antagonisti: sono due declinazioni della stessa fame. Fame di visibilità, di narrazione, di esistenza. Ma se Zazà chiedeva solo di essere lasciata in pace con la sua famiglia queer, oggi la drag chiede di cambiare il mondo. Di smantellare il sistema. Di riscrivere la grammatica del desiderio.

E, in fondo, ogni volta che un ragazzo mette il rossetto e si guarda allo specchio per la prima volta, c’è ancora un po’ di Zazà dentro di lui. E forse anche di noi.


Propongo ora un confronto iconografico, discorsivo e poetico, tra Albin/Zazà e alcune figure storiche cruciali del travestitismo teatrale e della performance queer: Divine, Vaginal Davis, Coccinelle e Lindsay Kemp. Le mettiamo in dialogo non solo per la loro estetica, ma per ciò che ciascuna ha incarnato, rotto, trasformato. Non una classifica, ma un coro, dove Zazà canta insieme alle altre.

Zazà e le altre: corpi in posa, corpi in guerra

Quando Albin, nei panni di Zazà, si prepara a salire sul palco, lo specchio riflette un’idea molto precisa di femminilità: quella della diva francese, della cantante di cabaret, della madre-moglie-amante tutta piume e dolori. È una drag queen “tradizionale” nella forma, ma il suo gesto ha una portata radicale: non è parodia, è empatia. Zazà non è una maschera, è un volto. E qui si compie una delle prime fratture iconografiche rispetto a Divine.

Divine, la creatura di Harris Glenn Milstead, irrompe nella cultura pop americana con un corpo che rifiuta la grazia: un’anti-diva, sovrappeso, truccata in modo grottesco, aggressiva, punk. Dove Zazà cerca di adattarsi, Divine distrugge. La sua performance è il contrario del compiacimento: è sfida, pornografia dello sguardo, rivolta contro il “buon gusto”. Se Zazà chiede accettazione, Divine urla per la libertà. Ma entrambe — una con le piume, l’altra con l’immondizia — mettono in scena il trauma e il desiderio di chi non ha mai potuto vivere secondo le regole degli altri. Divine è l’urlo. Zazà è il pianto. Ma in entrambi si piange e si urla con il corpo.

E poi c’è Vaginal Davis: intellettuale afroamericana, gender non-conforming, performer politica, artista situazionista. Lontana anni luce dalla figura addomesticata della drag queen da cabaret, Davis ha incarnato la dissidenza queer postpunk degli anni ’80 e ’90. Le sue performance smontano razza, genere, classe. È arte concettuale in forma di corpo. È un’“altra” drag, che non cerca né bellezza né femminilità. Ma anche qui, sebbene sembri lontanissima dalla compostezza di Albin, c’è una parentela profonda: l’uso del travestimento come sabotaggio. Solo che Zazà lo fa con i tailleur di Chanel, Vaginal Davis con parrucche di seconda mano e testi femministi letti al contrario. Due strategie, un unico fine: scompaginare l’ordine.

Coccinelle, invece, è la seduzione pura. Diva transessuale francese attiva dagli anni ’50, portò in scena una femminilità stilizzata, lirica, quasi religiosa. Fu tra le prime artiste trans a ottenere visibilità mediatica e sociale, ben prima che la parola “transgender” fosse in uso. Dove Zazà è mamma e moglie, Coccinelle è sirena e madonna. Ma anche lei recita la parte che il mondo le nega: la bellezza, la dignità, la grazia. E lo fa col corpo, attraverso abiti, gesti, capelli. Come Zazà, è regina di un regno inventato, ma reale.

Infine, Lindsay Kemp: figura che travalica ogni etichetta. Danzatore, mimo, visionario, maestro di Bowie e di Kate Bush, ha fatto del corpo un campo di apparizioni. I suoi travestimenti non sono drag, sono metamorfosi: creature androgine, anime in scena. In Kemp si fondono dolore e stupore, infantilismo e tragedia. Come Albin, anche Kemp fa piangere e ridere nello stesso gesto. Ma se Zazà è cabaret, Kemp è rito. Entrambi, però, abitano il medesimo bisogno: che il teatro ci salvi, anche solo per un minuto.


Una costellazione queer

Mettere Zazà accanto a queste icone non significa ridimensionarla, anzi: significa riconoscerne la statura. Se Divine è l’osceno, Davis la militanza, Coccinelle l’eleganza trans e Kemp la visione mistica, Zazà rappresenta la dimensione domestica e quotidiana della performance queer. Non rompe il mondo: lo aggiusta con la cipria. E anche questo è un atto politico. È la resistenza dell’affetto. È l’eroismo della normalità.

Tutte queste figure — Zazà inclusa — hanno usato il corpo come linguaggio. Hanno risposto all’esclusione con l’eccesso, alla vergogna con la teatralità. Si sono rese visibili nonostante tutto, e proprio per questo sono diventate archetipi. Figure che oggi, nella fluidità contemporanea, continuano a parlarci. Anche se lo fanno con voci diverse, tutte ci chiedono la stessa cosa: guardaci. E, se puoi, amaci.


Ora due sezioni intrecciate ma distinte: la prima sul corpo queer come linguaggio teatrale e politico nel contesto post-pandemico e nelle arti visive contemporanee, la seconda su travestimento, lutto e nostalgia come triade affettiva e performativa. Entrambe in dialogo con quanto già esplorato: da Zazà a Divine, da Kemp alle nuove generazioni.

I. Il corpo queer dopo il 2020: scena, soglia, sopravvivenza

La pandemia ha lasciato una traccia visibile nei corpi: silenziati, distanziati, mascherati, spesso invisibili. Ma ha anche funzionato come cesura simbolica per il corpo queer in scena. Il teatro, ridotto al margine, ha perso il suo pubblico fisico; e proprio lì, nel vuoto, il corpo queer ha trovato nuovi modi per significare.

Il corpo queer post-pandemico non è più (solo) spettacolo: è sopravvivenza incarnata. Portatore di memoria biologica (HIV, isolamento, minoranza immunitaria), si è fatto archivio del trauma. In molte performance attuali — dal teatro documentario di Milo Rau alle installazioni corporee di Cassils — il corpo queer non “interpreta”, ma “testimonia”. Si mette in gioco come reliquia e come urgenza. Il performer queer oggi non abita un ruolo, ma un rischio: quello di esistere in un sistema che ancora lo marginalizza o lo feticizza.

Questo vale tanto per il teatro quanto per le arti visive. Si pensi alla body art queer contemporanea, dove la ferita non è solo estetica ma politica: basti pensare alle opere di Zanele Muholi, alle installazioni dolorose di Puppies Puppies, o ai tableau vivants rituali di Paul Maheke. Il corpo è non-binario non solo nel genere, ma nella grammatica: sfugge, trasborda, disturba. Fa attrito. Non è mai comodo.

E se negli anni ’80 il corpo queer portava la morte sul palco (si pensi a “Angels in America”), oggi porta la vita in eccesso, la carne come sberleffo alla distanza. Ogni trucco, ogni parrucca, ogni posa è un ritorno al mondo dopo l’interruzione. Drag è resurrezione.

Il teatro queer odierno — da Justin Vivian Bond a Mx. Justin Shoulder, da Peaches Christ alle nuove generazioni non-binarie nei collettivi transfemministi — è sempre meno imitazione e sempre più invenzione: linguaggio che ridefinisce, di volta in volta, cosa sia un corpo, uno spazio, una voce. Non chiede più permesso. Chiede presenza.


II. Travestimento, lutto e nostalgia: una triade queer

Dietro ogni gesto di travestimento si cela un lutto. Non solo perché si simula un altro da sé, ma perché si mette in scena ciò che non si è potuto vivere. Il travestimento queer — da Zazà in poi — è spesso una danza con i fantasmi: dell'infanzia negata, dell'amore perduto, della figura materna idealizzata o rimossa.

Questa nostalgia performativa è il cuore segreto della drag, del cabaret, della trasformazione. Non è mai solo esibizione: è commemorazione. Ecco perché il trucco è spesso rituale, quasi liturgico. La parrucca non copre, evoca. Il tacco alto non eleva, convoca. Ogni drag queen, ogni performer trans o non-binario, porta con sé una memoria incarnata — di chi non c'è più, di chi non ha potuto essere.

Nel travestimento queer convivono euforia e lutto. La risata del pubblico nasconde sempre una lacrima privata. Si pensi a RuPaul che ripete: “We’re all born naked and the rest is drag”. Ma quel “resto” è fatto di perdite, di abbandoni, di esclusioni. Il trucco copre, ma è anche un modo per non dimenticare. Zazà che canta “la donna che sono” canta per tutte le donne — e tutti gli uomini — che non hanno potuto esserlo.

La nostalgia queer non guarda solo al passato perduto, ma anche a un futuro mai accaduto. È la malinconia per qualcosa che non è ancora avvenuto e forse non avverrà mai: un mondo dove non ci sia bisogno di travestirsi per essere accettati. Ma finché quel mondo non esiste, ci si traveste per sopravvivere, per affermare che si è ancora vivi.


Ora un focus sui rituali queer nel teatro comunitario contemporaneo, poi un’estensione articolata sul concetto di “archivio corporeo” nella performance queer, come modalità di trasmissione non lineare della memoria, del trauma e del desiderio. Entrambe le sezioni restano in continuità con quanto esplorato — da Il vizietto alle genealogie drag, dal corpo come scena al travestimento come lutto attivo.

I. Riti del comune: il teatro queer come spazio comunitario e rituale

Nel teatro queer comunitario contemporaneo, la ritualità si trasforma in linguaggio e in gesto politico. Non si tratta più di “mettere in scena” un’identità, ma di costruire un tempo condiviso, una sospensione, un respiro collettivo che unisce artistə, spettatorə, luoghi e memorie. È un teatro che non distingue tra chi guarda e chi agisce, ma che propone rituali situati, partecipativi, spesso effimeri e affettivi.

Al centro di questa esperienza ci sono corpi in trasformazione che non rappresentano ma convocano: il dolore della marginalità, la gioia euforica del riconoscimento, la rabbia accumulata, la tenerezza politicizzata. In molte pratiche — dalle azioni performative di Travis Alabanza, alle performance collettive del gruppo cileno LasTesis, passando per le liturgie transfemministe di Motel Kaiju e i rituali stregoneschi del collettivo romano Favolose — il teatro queer comunitario si configura come spazio liminale tra il rito, la veglia funebre e il rave.

Il “rituale queer” non cerca di guarire nel senso normativo del termine, ma di disfare la ferita e condividerla. Non c'è catarsi classica, ma un'intimità disordinata e potente, fatta di confessione, esibizione e mutua protezione. Qui, la performance diventa qualcosa di più simile a una cura collettiva. Si creano cerchi, cori, corpi in cerimonia. La comunità è il testo.

Spesso questi rituali si oppongono agli spazi teatrali tradizionali: si svolgono in magazzini abbandonati, in case occupate, in boschi, online, in stanze disadorne. L’informalità è una dichiarazione poetica e politica: non c’è quarta parete, c’è solo pelle condivisa.

Questo tipo di teatro non cerca di essere “spettacolare”, ma “spettro”. Un’evocazione. Come nei cabaret di Zazà, ciò che conta non è solo ciò che accade sulla scena, ma l’energia che resta dopo. L’effetto residuo. La coda affettiva. Il canto finale che riecheggia nelle ossa.

II. L’archivio corporeo: il corpo queer come deposito e trasmissione

Il corpo queer è un archivio vivente. Non solo perché conserva tracce, ma perché le riattiva. È un archivio mobile, instabile, intersezionale, erotico e traumatico al tempo stesso. Un contenitore di storie non scritte, un palinsesto di esclusioni e resistenze.

Nella performance contemporanea — da Keith Hennessy a Vaginal Davis, da Eisa Jocson a M Lamar — l’archivio corporeo agisce come linguaggio trasversale alla storia ufficiale. Il corpo mette in scena ciò che è stato rimosso, ciò che non ha avuto voce. Ogni movimento, ogni vocalizzo, ogni postura evoca non solo una scelta estetica, ma una genealogia.

Pensiamo a cosa significa ballare il voguing oggi, o portare in scena una camminata femminile esasperata, o una maschilità baritonale in drag: sono tutti gesti che riattivano una memoria queer silenziata, sono esercizi di sopravvivenza e di trasmissione orizzontale. Il corpo queer non documenta, ma incarna, si fa medium.

E qui, l’archivio non è mai neutro. È sempre affettivamente marcato. Ogni performance diventa una veglia e un atto d’amore. Un modo per parlare con i morti e con le future generazioni. In molte pratiche di artistə trans e non-binarə, il corpo è l’unico archivio disponibile, soprattutto in contesti dove non esistono archivi ufficiali. Questo produce una pedagogia incarnata: insegnamenti che passano da corpo a corpo, da voce a voce, da sguardo a sguardo.

Ciò che si trasmette non è solo il “cosa”, ma il “come”. Come si sopravvive. Come si seduce. Come si urla. Come si resiste sorridendo.

Il travestimento, in questo senso, è un dispositivo d’archivio. Ogni parrucca è un documento. Ogni sopracciglio ridisegnato è un atto di citazione. Zazà, Divine, Coccinelle non sono solo icone: sono capitoli mobili di un archivio che si sfoglia col trucco e si legge con la pelle.

L’archivio corporeo è sempre in perdita, perché non può essere fissato. Ma proprio per questo è prezioso: perché esiste nell’incontro, nella vibrazione, nella presenza. È un sapere che si può solo vivere, non possedere.


Ora esploriamo un tema centrale: la trasmissione intergenerazionale delle estetiche queer, dal passato cinematografico e teatrale fino ai formati digitali contemporanei come TikTok, meme, filtri e reels. Un viaggio che va da Il vizietto alle nuove forme di performance e memoria queer costruite online.

I. Da "Il vizietto" a TikTok: una genealogia visiva dell'estetica queer

La trasmissione intergenerazionale delle estetiche queer è un fenomeno che si estende lungo decenni e attraversa generazioni. Da Il vizietto (1978) alla cultura visiva di TikTok, passando per il drag dei club, i musical anni ’80 e ’90, fino ai meme di internet, questa genealogia estetica è una continua reinvenzione della stessa sagoma travestita, del corpo esposto e del linguaggio liberatorio.

Nel caso di Il vizietto, il film si inserisce in un contesto cinematografico che inizia a trattare l’identità di genere in modo più ironico e teatrale, senza ancora il peso di un linguaggio esplicitamente politico, ma con una forte carica emotiva e sociale. Zazà/Albin, con la sua estetica sofisticata e iconica, diventa un archetipo del travestimento teatrale che riverbera nelle generazioni future. La figura della drag queen come personaggio cardine del film è una delle prime ad affrontare il tema con un'ironia morbida, pur mantenendo una potente dimensione di conflitto sociale.

Da lì, l’evoluzione della cultura queer attraverso il cinema e il teatro si fonde con un movimento più ampio, dove i corpi non sono più solo contenitori di identità predefinite, ma spazi fluidi di negoziazione culturale e visiva. Dagli anni '90 fino a oggi, la cultura drag è diventata sempre più visibile grazie anche a RuPaul’s Drag Race, che ha portato l'estetica queer mainstream, ma con l’emergere di TikTok e Instagram, la trasmissione visiva dell'estetica queer ha preso una piega ancora più immediata, rapida, democratizzata.

Sui social media, la memoria queer si costruisce velocemente. Qui, la tradizione drag e il linguaggio queer non è solo perpetuato, ma reinventato: i meme, i filtri, i reels sono modalità performative in cui il corpo, sebbene spesso filtrato, diventa ancora una volta il sito di una pratica identitaria e politica. L'estetica che una volta era trasmessa tramite film, spettacoli teatrali o clubbing, ora si costruisce e si tramanda in tempo reale, e proprio questa velocità la rende particolarmente potente.

II. I meme, i filtri e i reels: la memoria queer nel presente digitale

Il passaggio dalle rappresentazioni tradizionali delle identità queer (cinema, teatro) alle pratiche digitali non è solo un'evoluzione tecnologica, ma una vera e propria mutazione linguistica. Oggi, l'**identità queer si costruisce attraverso frasi rapide, immagini manipolate, video auto-riprodotti. TikTok, Instagram, e altre piattaforme permettono una continua reinvenzione estetica, dove l’autocostruzione del corpo diventa simultaneamente un atto di resistenza e di divertimento.

I meme queer sono un modo potente per conservare e trasmettere memorie collettive attraverso un linguaggio veloce e ironico. Si pensi a meme che sfruttano le icone storiche del drag, come Divine o RuPaul, riproposte con un filtro ironico che le rielabora per commentare l'attualità sociale e politica. Questi meme diventano una formazione intergenerazionale che collega il passato (come Il vizietto) al presente, ma anche al futuro.

I filtri, in particolare quelli che esagerano i tratti fisici (occhi grandi, pelle levigata, bocca esagerata) sono utilizzati come sistemi performativi di travestimento immediato, in cui chiunque può sperimentare un’altra identità visiva. La questione del corpo, dell’aspetto, della bellezza, che è stata al centro del movimento drag e queer fin dagli anni ‘70, è ora sovvertita dalla possibilità di essere “chiunque” per un breve istante. Condividere un reel o un meme con un filtro drag diventa un atto performativo collettivo, una miniatura di quello che è sempre stato il cuore del movimento drag: un gioco di trasformazione che esprime la fluidità dell'identità.

Ma il corpo queer, ora mediato da schermi e filtri, non è mai statico. Ogni immagine è un "passaggio", un frammento che può essere rimesso in discussione. Ciò che fa parte della memoria queer non è solo la costanza dell’icona, ma anche la permeabilità di tale icona. Da TikTok alle storie di Instagram, l’estetica queer non è mai un “ritratto”, ma una sottile dissolvenza, una messa in discussione continua.

III. Il futuro della trasmissione: da Zazà ai corpi connessi

Come risuoneranno i corpi queer di domani? È difficile da dire, ma sicuramente l'evoluzione dell'estetica e delle pratiche queer digitali ha creato un panorama dove tutti possono diventare memoria. Ogni video, ogni filtro, ogni meme è un atto di resistenza e di sopravvivenza.

Ciò che Il vizietto e film simili hanno fatto negli anni ‘70-80 è stato aprire un canale visivo e emotivo attraverso cui trasmettere l’identità e la politica queer a una nuova generazione. Oggi, con TikTok e altre piattaforme, i meme queer sono pratiche di affermazione immediata. Ogni singolo spettatore può essere non solo pubblico, ma attore e creatore di una memoria visiva condivisa. La trasmissione intergenerazionale non avviene solo attraverso la cultura pop, ma attraverso ogni pixel, ogni immagine che esprime un corpo che non è mai “completo” o “definito”.


L’estetica queer si è spostata dal grande schermo alle piccole schermate dei telefoni, ma questo non ha diminuito la sua forza. Al contrario, ha reso la memoria queer più interconnessa e globale, democratizzando il “viaggio” visivo di una storia che è sempre in movimento, mai stabilita.

I. La tensione tra virtuale e fisico nell’esperienza queer contemporanea

La tensione tra virtuale e fisico è un tema centrale nelle pratiche queer contemporanee, in particolare in un'epoca in cui l'interazione tra identità, estetiche e politica avviene simultaneamente nel mondo reale e in quello digitale. Per le persone queer, l'immersione nel virtuale offre spazi di liberazione e espressione identitaria che sfidano le normali limitazioni fisiche e sociali, ma solleva anche difficoltà legate alla rappresentazione e alla transizione tra i due mondi. Questa dualità ha radici profonde nelle pratiche di travestimento, performatività e rappresentazione che storicamente definiscono la cultura queer, ma oggi si estende in nuove forme di comunicazione e di partecipazione.

Nel contesto post-pandemico, dove le interazioni fisiche sono state temporaneamente ridotte, i corpi queer hanno dovuto confrontarsi con spazi digitali come forme alternative di espressione. Questi spazi, pur consentendo una liberazione dalle normative sociali tradizionali, presentano nuove sfide, come il rischio di superficialità e di separazione dalla realtà fisica. L'estetica queer digitale, tra meme, filtri e avatar virtuali, offre una nuova dimensione performativa, ma solleva anche la questione di come queste pratiche, che sono spesso liquide e temporanee, possano essere archiviate, ricordate e tramandate nel lungo periodo.

Il corpo fisico, che nel drag e nelle performance teatrali queer tradizionali assumeva una posizione di resistenza e sovversione, trova nel virtuale una forma di libertà, ma anche di alienazione. Le performance queer virtuali possono rivelare o nascondere aspetti del corpo che, nel mondo fisico, sarebbero giudicati o esclusi. La maschera digitale, sotto forma di avatar o filtri, è un potente strumento di auto-affermazione, che però può anche ridurre la ricchezza della performance fisica a una serie di scelte estetiche e stilistiche predefinite.

La tensione quindi è duplice: da un lato, il virtuale consente ai corpi queer di sfuggire alle restrizioni fisiche, e dall'altro, rischia di annullare la corporeità, una delle dimensioni più significative del movimento queer. L'ironia e il gioco, che sono al cuore di queste pratiche digitali, potrebbero infatti mascherare un conflitto più profondo: quello tra l'identità fisica, autentica e talvolta dolorosa, e la maschera digitale, che può essere percepita come evasiva.

II. La proliferazione di linguaggi queer in spazi digitali: gaming e live streaming

I giochi online e le piattaforme di live streaming rappresentano oggi alcuni degli spazi più vivaci e significativi per l'espressione queer contemporanea. Questi spazi, nati inizialmente come luoghi di intrattenimento, sono diventati arenas performative in cui gli utenti queer possono esplorare identità multiple e costruire comunità. Le possibilità offerte dalle identità digitali (tramite avatar, chat e interazioni in tempo reale) permettono alle persone queer di negoziare il proprio posto nel mondo senza le limitazioni fisiche e sociali del mondo materiale.

Il gaming come spazio queer

Nel contesto dei giochi online, la fluidità di genere è spesso esplorata in modo sottile ma potente. Nei giochi di ruolo (RPG), i giocatori possono scelta liberamente il proprio avatar, spesso aggirando le tradizionali rappresentazioni di genere imposte dai media mainstream. Qui, la mascolinità e la femminilità sono spesso ridefinite, e la possibilità di modificare l'aspetto del proprio avatar crea spazi in cui l'identità è fluida e mai fissa.

Alcuni giochi, come The Sims o World of Warcraft, hanno implementato meccaniche che permettono ai giocatori di esplorare identità di genere e sessualità diverse, sfidando i tradizionali ruoli eteronormativi. I server di giochi gestiti da comunità queer diventano veri e propri spazi sicuri, dove non solo si esplorano identità e storie, ma si crea anche una memoria collettiva, trasmessa attraverso gli scambi sociali e le narrazioni create dai giocatori stessi. La chat vocale, le interazioni tra giocatori e la creazione di legami virtuali sono momenti performativi che costruiscono una lingua queer fluida, che può essere rapidamente adattata e aggiornata a seconda delle necessità della comunità.

Il live streaming e la performance queer

Le piattaforme di live streaming come Twitch e YouTube sono diventate spazi cruciali per la comunità queer, dove le performance in tempo reale offrono sia un'opportunità di espressione sia una possibilità di interazione diretta con il pubblico. I creator queer che trasmettono in diretta i loro giochi, talk show o performance artistiche, creano comunità interattive che vanno oltre la mera visualizzazione, creando un legame viscerale tra il corpo che performa e quello che osserva. In queste piattaforme, il linguaggio queer si manifesta non solo nei contenuti, ma anche nelle dinamiche di interazione.

Ad esempio, alcuni streamer queer usano questi spazi non solo per esprimere la propria identità, ma per educare, per parlare di temi legati ai diritti civili, alla salute mentale e alla politica sociale. Le performance queer in questi contesti non sono solo un riflesso della propria identità, ma sono anche attività di costruzione sociale, che coinvolgono attivamente la comunità in discussioni che riguardano la vita queer.

Un aspetto interessante delle piattaforme di live streaming è come esse permettano l'uso di linguaggi non verbali. Le reazioni, i gesti e le emozioni possono essere espresse attraverso emoji, GIF o reazioni in tempo reale, creando nuove modalità di comunicazione, che rinforzano il messaggio di una performance continua. Qui, il corpo diventa avatar, ma non perde mai la sua capacità di influenzare, anche in un contesto digitale.

III. Il corpo queer: tra virtuale e fisico

Il passaggio tra il corpo fisico e quello digitale rimane il cuore di molte delle riflessioni più profonde sulla memoria e sull’identità queer. Sebbene la cultura queer si esprima con forza nel digitale, il corpo fisico non perde mai la sua importanza. Il corpo, sebbene modificato, trasfigurato e spesso mascherato, resta il principale veicolo di identità, sia nel mondo fisico che virtuale. La sfida consiste nel bilanciare questa dicotomia tra l’identità digitale, con tutte le sue possibilità e limitazioni, e l’autenticità di un corpo reale che continua a esistere, anche se nel silenzio di una chat o dietro uno schermo.

L'importanza di memoria e archivio rimane quindi fondamentale: da un lato, il virtuale permette di mantenere vive e aggiornate le memorie collettive queer, dall’altro, il corpo fisico non perde mai il suo valore simbolico. La trasformazione dell’identità queer non è mai un processo lineare, e proprio per questo la tensione tra il virtuale e il fisico continua a essere un campo di esplorazione profonda e stimolante per le generazioni più giovani.

L'interrogativo che nasce è: fino a che punto il virtuale può sostituire il fisico senza perdere la potenza politica e performativa del corpo? La risposta risiede forse nella complicità tra i due mondi, che si alimentano a vicenda, mantenendo vivi e vibranti i messaggi, le lotte e le estetiche queer nel tempo.


Una conclusione provvisoria (come ogni trasformazione)

Il corpo queer è oggi più che mai campo di battaglia e di resurrezione. Teatro e arti visive lo raccontano non come identità fissa, ma come movimento, come memoria che si reinventa. Travestimento, lutto e nostalgia non sono limiti, ma linguaggi d’amore. Ogni gesto, ogni strass, ogni posa non è solo performance: è un messaggio lasciato nel buio.

Il palco — che sia un club, una galleria, un marciapiede o uno streaming — è sempre lo stesso: un luogo dove si muore e si rinasce ogni sera, con le ciglia finte e le cicatrici vere. Proprio come Zazà.

Il vizietto è, a tutti gli effetti, un classico. Ma non è un classico “perché è piaciuto a tutti”. È un classico perché ha aperto una porta, ha mostrato che si può ridere di tutto senza deridere nessuno, che si può essere travolgenti e profondi, e soprattutto che si può parlare di omosessualità senza doverla giustificare, spiegare o semplificare. Un piccolo capolavoro che ancora oggi brilla, come le unghie laccate di Zazà, con una luce impertinente e commovente.