Franco Citti, in Accattone (1961), non è solo un attore alle prime armi, ma un vero autore "inconsapevole" del proprio personaggio, capace di portare sullo schermo una vita che conosceva intimamente. Citti, fratello del celebre sceneggiatore e regista Sergio Citti, proveniva dagli stessi luoghi e ambienti che Pier Paolo Pasolini voleva esplorare nel suo cinema: le borgate romane, con il loro linguaggio crudo, la violenza quotidiana e una vitalità disperata. Questo lo rendeva un interprete perfetto, non tanto per la sua esperienza recitativa, inesistente all’epoca, quanto per la sua autenticità. Citti non "recita" Accattone, lo è.
La sua presenza magnetica, capace di alternare brutalità e fragilità, dà al personaggio una dimensione tragica. Accattone è un anti-eroe che si muove in un mondo di desolazione morale, ma nel suo sguardo, nei suoi silenzi e persino nella sua risata scanzonata, emerge un’umanità che sfiora il sacro. Pasolini vedeva in lui una figura archetipica, un "povero Cristo" moderno, e Citti, con il suo volto scavato e i suoi gesti istintivi, seppe incarnare questa visione con una naturalezza che raramente si vede al cinema.
Dopo il successo di Accattone, Franco Citti diventa un attore ricorrente nell’universo pasoliniano, interpretando ruoli iconici come il demonico Edipo in Edipo Re (1967) e il diabolico Gianni nel mediometraggio Che cosa sono le nuvole?. Ma il suo contributo al cinema non si limita alla collaborazione con Pasolini. Grazie al fratello Sergio, Franco sviluppa un interesse per la regia e la scrittura, due ambiti che gli permettono di rielaborare in modo personale quell’universo di borgata che aveva vissuto e interpretato.
Nel 1983, Franco Citti esordisce come regista con Casotto a Ostia, un film scritto insieme a Sergio e impregnato del linguaggio e dell’immaginario di quella Roma marginale e pulsante di vita che avevano condiviso. Anche in questa veste, Franco dimostra una sensibilità unica nel raccontare il quotidiano di chi vive ai margini, senza retorica né moralismo. Il suo sguardo è intriso di una conoscenza diretta, viscerale, che non cerca di abbellire la realtà, ma di restituirne la dignità.
Franco Citti, dunque, non è solo il volto iconico di una stagione irripetibile del cinema italiano, ma anche un narratore autentico, un autore che ha saputo portare sullo schermo un pezzo d'Italia invisibile ai più, trasformandolo in materia poetica. La sua parabola artistica è quella di un uomo che ha saputo trasformare il proprio vissuto in arte, prima come attore e poi come regista, mantenendo sempre la fedeltà a se stesso e alle proprie origini.
Franco Citti, celebre per essere il volto iconico di tanti film di Pier Paolo Pasolini, è stato anche un autore e regista che ha saputo reinterpretare il mondo delle borgate romane attraverso una lente personale. La sua parabola artistica va ben oltre il ruolo di attore e lo trasforma in una figura complessa, capace di portare avanti un immaginario e una poetica che, pur vicina a quella pasoliniana, si distacca per autenticità e autonomia.
La regia: Franco e Sergio, due voci intrecciate
Dopo aver costruito la sua carriera come attore, grazie a ruoli iconici in film come Accattone, Edipo Re e Il Decameron, Franco Citti si avvicina alla regia in collaborazione con suo fratello Sergio Citti, sceneggiatore e regista visionario. Il legame tra i due fratelli è profondamente creativo: Sergio, con il suo linguaggio surreale e grottesco, ha sempre avuto un ruolo di guida, ma Franco, con la sua esperienza diretta e la sua fisicità, rappresenta il cuore pulsante di questa sinergia.
Nel 1983 Franco esordisce alla regia con Casotto a Ostia, un film che, purtroppo, ha ricevuto meno attenzione rispetto ai suoi lavori come attore. Scritto con il fratello, il film esplora ancora una volta il mondo marginale delle periferie romane, ma lo fa con uno sguardo intimo e crudo, capace di mescolare ironia e tragedia. Qui Franco dimostra di essere non solo un attore, ma un narratore attento e dotato di uno sguardo registico in grado di restituire la poesia della vita quotidiana, con i suoi piccoli drammi e le sue epifanie.
Il suo approccio alla regia è profondamente legato alla sua esperienza di vita: Citti non inventa mondi, ma li racconta per come li conosce. Ogni inquadratura, ogni scelta stilistica porta il segno di chi ha vissuto le borgate, con le loro contraddizioni, il degrado, ma anche la vitalità e l’umanità che si annidano in esse. La regia di Franco si distingue per la sua capacità di osservare senza giudicare, raccontando personaggi perdenti e marginali con rispetto e empatia.
Franco Citti autore e narratore del sottoproletariato
Anche se spesso associato indissolubilmente a Pasolini, Franco ha sempre portato una propria voce nel raccontare le borgate e il sottoproletariato romano. Dove Pasolini vedeva archetipi universali e una dimensione quasi sacrale, Franco si concentrava sull’umano e sul quotidiano. I suoi personaggi non cercano redenzione o salvezza, ma sopravvivono, a volte con ferocia, altre volte con rassegnazione, in un mondo che non lascia spazio ai sogni.
Nel 1992 Franco dirige insieme a Sergio un altro film, I magi randagi. Qui emerge tutta la loro capacità di mescolare elementi grotteschi e fiabeschi per raccontare una storia che è, ancora una volta, un’ode agli ultimi. Il film segue tre attori girovaghi che si ritrovano a interpretare i Re Magi durante un presepe vivente. La narrazione, intrisa di ironia e amarezza, riflette sul valore dell’arte e della finzione, ma soprattutto sul ruolo degli emarginati in una società sempre più indifferente.
Un autore viscerale e poco compreso
Se come attore Franco Citti è stato giustamente celebrato per la sua capacità di incarnare i personaggi pasoliniani, come regista e autore non ha ricevuto la stessa attenzione. Il suo cinema, spesso ignorato dalla critica, soffrì probabilmente del confronto con l’ombra gigantesca di Pasolini e della difficoltà di ritagliarsi uno spazio autonomo in un panorama cinematografico che stava cambiando radicalmente. Eppure, il suo contributo rimane prezioso: Franco non ha mai tradito la sua origine e ha sempre raccontato con onestà e autenticità quel mondo che lo aveva formato.
Il legame con Pasolini e la ricerca di una voce autonoma
Franco Citti resterà per sempre legato al nome di Pier Paolo Pasolini, che lo scelse come volto simbolo del suo cinema. Eppure, questa associazione, per quanto gli abbia dato fama e riconoscimento, non ne limita la portata come artista autonomo. Se Pasolini vedeva in lui un'icona del sottoproletariato, una sorta di incarnazione vivente della poesia e della tragedia umana, Franco aveva in realtà una personalità artistica ben definita, meno intellettuale e più visceralmente radicata nella vita delle borgate. Il suo cinema e le sue interpretazioni non tentano di sublimare la realtà: ne restituiscono la brutalità, ma anche il paradossale calore umano.
La sfida di Franco, una volta raggiunta la notorietà, è stata proprio quella di staccarsi dalla figura del maestro e trovare un suo linguaggio. Da regista, non si preoccupa di creare opere "compiute" secondo i canoni del cinema d'autore: i suoi film sono esperienze, frammenti di vita che catturano l’essenza del mondo marginale. Dove Pasolini trasfigurava i suoi personaggi in figure mitiche, Franco li riporta a terra, mostrando le loro contraddizioni e debolezze senza idealizzarli.
L'eredità culturale di Franco Citti
Nonostante le sue regie non abbiano avuto lo stesso impatto dei suoi ruoli come attore, l'eredità di Franco Citti è quella di un uomo che ha portato sullo schermo un pezzo d'Italia che pochi avevano osato raccontare con tanta sincerità. Le borgate romane, con il loro linguaggio crudo e i loro personaggi ai margini, sono diventate protagoniste grazie a lui e al fratello Sergio, che insieme hanno costruito un’immagine del sottoproletariato libera da stereotipi.
Franco è stato una figura di ponte tra due mondi: da un lato il cinema d’autore, con la sua ambizione di raccontare storie universali; dall’altro il cinema popolare, con il suo bisogno di comunicare in modo diretto e immediato. Nei suoi lavori, sia come attore che come regista, questi due approcci si fondono in modo unico. La sua capacità di vivere i personaggi, piuttosto che interpretarli, rende le sue performance indimenticabili, mentre la sua regia testimonia una rara autenticità, quella di chi non racconta dall'alto ma dal cuore di una realtà vissuta.
L'uomo dietro l'artista
Fuori dal set, Franco Citti era una persona schiva e lontana dalle luci della ribalta. Viveva con semplicità, legato alle sue origini, senza cercare il clamore mediatico. Questa autenticità si riflette nel suo lavoro: che fosse davanti o dietro la macchina da presa, Citti non recitava, ma portava se stesso. La sua carriera, fatta di alti e bassi, è stata segnata dalla volontà di rimanere fedele alla propria visione, senza piegarsi alle esigenze di un'industria che spesso non comprendeva la profondità del suo mondo.
Franco Citti, scomparso nel 2016, resta un simbolo di un cinema che non esiste più, un cinema fatto di corpi, di sguardi e di storie vere. Come attore, è stato il volto e il corpo della Roma pasoliniana; come regista, ha offerto una prospettiva personale e intima su quel mondo che lo aveva formato. La sua eredità artistica non è solo cinematografica, ma culturale: un monito a non dimenticare le voci degli ultimi, a dare dignità a chi vive ai margini e a raccontare la vita così com’è, senza abbellimenti, ma con infinito rispetto.