Non c’è un vero inizio per questo percorso: piuttosto c’è un filo invisibile che si dipana, e che collega tutto ciò che ho visto, ascoltato e sentito. Guardando oggi, capisco che senza Jole non avrei avuto gli strumenti per guardare davvero, e senza Merz non avrei compreso fino in fondo quanto quegli strumenti fossero vivi. A Jole de Sanna devo tutto ciò che so, e questa frase non è retorica: è la sostanza della mia memoria, il punto da cui ogni riflessione nasce e torna. Eppure Merz non è meno importante: i suoi igloo, le sue luci al neon, le foglie adagiate con precisione numerica, tutto ciò che sembra fragile eppure esplosivo, è il contrappunto perfetto al rigore e alla cura che de Sanna mi ha insegnato a portare nello sguardo.
Ricordo il primo incontro con Jole. Non era una lezione formale, non parlava dall’alto, ma come se fosse accanto a me, invitandomi a osservare con occhi nuovi. Le sue parole complicavano più che chiarire: smontavano certezze, aprivano voragini nella mente che io non sapevo di avere. Ma proprio in quel disordine, in quell’inquietudine, si formava la possibilità di comprendere. Jole aveva un modo unico di far percepire che l’arte non è un contenuto da imparare, ma uno spazio da abitare. Era un invito silenzioso a stare, a soffermarsi, a lasciarsi attraversare.
Fu grazie a de Sanna che per la prima volta vidi Merz come non lo avevo mai visto. Prima, forse, lo avrei guardato con sospetto: un igloo costruito con legno e vetro, una sequenza di numeri al neon, foglie adagiate come architetture impossibili. Sembrava un enigma, o peggio un capriccio moderno. Ma con la voce di Jole nella mente, tutto si trasformava: quell’opera era necessità, urgenza, energia pura, uno spazio che ferisce e accoglie insieme. Ogni igloo era un ventre che respingeva e attirava, un vuoto che non cercava di essere colmato ma abitato.
Davanti a un igloo di Merz mi sentivo smarrito e protetto allo stesso tempo. La sua forma primordiale parlava di rifugio e isolamento, ma la fragilità dei materiali mi obbligava a percepire la tensione tra precarietà e infinito. De Sanna, con la sua pazienza, mi insegnava a leggere quell’inquietudine come segno di vita. Ogni angolo di vetro, ogni curva del legno, ogni cifra al neon era parte di una danza cosmica, un atto di creazione visibile e al tempo stesso fragile.
I numeri di Merz, la sequenza di Fibonacci, le luci al neon che crescevano nello spazio come organismi viventi, non erano formule matematiche da memorizzare: erano visioni. Erano energia pura che diventava immagine, ritmo, movimento. “I numeri vivi danno delle visioni”, diceva lui, e de Sanna mi aveva insegnato a non fermarmi all’apparenza, a cercare la relazione tra scienza e arte, tra razionalità e intuizione, tra misura e libertà. In quel dialogo tra Merz e Jole de Sanna imparai che il vuoto non è mai semplice assenza, ma possibilità di germinazione, spazio da attraversare con la massima attenzione e rispetto.
E poi c’era la materia: legno, vetro, ferro, cera, foglie. Ogni elemento fragile eppure potente, capace di catturare lo sguardo e l’energia del corpo. Merz li maneggiava con disinvoltura, senza mai lasciarsi ingannare dal loro fascino ambiguo. De Sanna mi mostrava come l’osservatore dovesse fare altrettanto: percepire senza appropriarsi, comprendere senza possedere. L’arte diventava così un dialogo tra precarietà e forza, tra resistenza e vulnerabilità, tra gesto e memoria.
Ricordo ancora le parole di Jole quando parlavamo della “casa tra gli alberi”: non era solo un esercizio di immaginazione, ma un modo per pensare l’arte come abitazione dello spirito. Merz, con i suoi igloo e le sue architetture di foglie, incarnava questa stessa poetica: abitare il vuoto, creare spazio senza limiti definiti, fare dell’instabilità una condizione di vita. De Sanna mi aiutava a leggere ogni gesto, ogni forma, come se fosse una tesi viva sull’abitare e sul pensiero: una casa che germina, si muove, disperde e concentra energia insieme.
Il progetto che avevo intrapreso, “La poesia numerica di Mario Merz”, nasceva da questo intreccio di sguardo e parola. De Sanna seguiva il mio lavoro, commentava, correggeva, stimolava. L’intesa con lei fu lunga e profonda, e quell’esperienza cementò la mia comprensione di Merz come poeta del vuoto e della misura. Jole mi insegnò che la scrittura poteva essere un igloo di parole, che ospita e protegge la visione, ma che al tempo stesso deve essere aperta, sospesa, fragile.
Merz e Jole, insieme, hanno costruito per me una grammatica dell’energia e della memoria. Lui, con i suoi igloo, con i suoi numeri, con le foglie che diventano architettura; lei, con la sua critica militante, con la sua pazienza e severità, con la capacità di far vivere l’opera nel cuore di chi la guarda. Senza di loro, non avrei imparato a percepire lo spazio, il vuoto, la misura e la luce come elementi indispensabili della comprensione artistica.
Oggi so che questa eredità non si esaurisce nel passato. Ogni volta che mi trovo davanti a un’opera, ogni volta che scrivo o parlo di arte, la lezione di Jole de Sanna e la presenza di Merz sono lì, inseparabili. Il vuoto continua a parlare, i numeri continuano a crescere, le foglie continuano a germogliare nelle installazioni che hanno lasciato il segno. E io, con la gratitudine che non potrà mai finire, porto dentro di me il loro insegnamento come un luogo di energia, silenzio e trasformazione.
Ogni igloo di Merz aveva una sua storia, e io imparai presto a percepirla non come semplice struttura fisica, ma come organismo vivo, quasi respirante. Ricordo una mostra alla Triennale di Milano nel 1986, Sentiero per qui, dove tutto nella sua opera parlava di movimento, di energia, di tautologia concettuale. Ogni igloo era al tempo stesso centro e periferia, rifugio e crocevia. Jole mi aveva già insegnato a leggere così l’arte: come spazio che non si lascia possedere, come esperienza che costringe a fare i conti con la propria presenza. Ma davanti a quelle installazioni, compresi qualcosa di più: che il vuoto e la misura non erano solo concetti da applicare alla visione, ma materia viva con cui confrontarsi.
In quel contesto, i numeri non erano freddi, né le luci al neon sterile decorazione: erano segnali di vita, pulsazioni visibili di un universo che si espandeva davanti a me. La sequenza di Fibonacci che Merz tracciava con eleganza geometrica diventava un ritmo organico, una vibrazione che attraversava lo spazio e arrivava fino al corpo. De Sanna, seduta in platea o accanto a me, osservava con gli occhi di chi conosce l’arte non come dogma, ma come metodo di esperienza. E io imparavo a sentire quei numeri non come formule da memorizzare, ma come inviti a camminare, a sostare, a percepire il mondo nella sua simultanea fragilità e potenza.
Le foglie, che a prima vista sembravano semplici elementi naturali, in realtà diventavano architettura. Ogni foglia posta con cura era un gesto etico: Merz non parlava, ma agiva, costruendo uno spazio che era insieme riparo e messaggio. E de Sanna mi faceva notare come ogni gesto, ogni elemento, fosse necessario alla costruzione del senso. Non era sufficiente osservare: occorreva entrare, muoversi dentro quell’opera con lo sguardo, con il corpo, con la mente. L’arte diventava allora pratica viva, abitazione del pensiero.
Mi tornano in mente i giorni trascorsi a discutere con Jole de Sanna della scrittura che avrei dedicato a Merz. Lei non accettava compromessi: se volevo parlare di “poesia numerica”, dovevo prima sentire il numero vibrare nello spazio, capire come l’energia si trasformasse in gesto, come ogni sequenza fosse parte di un continuum che si muoveva tra osservatore e osservato. Non era una lezione teorica: era una prova di vita, un confronto diretto con l’opera e con la coscienza di chi la guarda. Così il mio testo, che ancora giace inedito, nacque da questa doppia presenza: la precisione e la severità di de Sanna, e la libertà e l’urgenza di Merz.
Ogni incontro con le sue opere, anche dopo anni, conservava l’intensità di quella prima visione. L’igloo non smetteva mai di parlare: era spazio che respira, spazio che misura, spazio che chiama. Le luci, i numeri, il legno e il vetro erano strumenti di un linguaggio che io imparavo a decifrare grazie a Jole. Senza la sua guida, avrei forse visto solo un insieme di materiali e geometrie; con lei, ogni elemento diventava parte di un ordito di energia, un atto di resistenza, una dichiarazione di bellezza e precarietà.
E allora cominciai a capire anche le contraddizioni di Merz: fragile e potente, concettuale e naturale, rigoroso e spontaneo. Era un artista che non si lasciava ridurre a schema, e Jole de Sanna mi mostrava come, di fronte a un simile gesto, la critica dovesse essere anch’essa un atto di coraggio. Non si trattava di catalogare o giudicare, ma di abitare, di percorrere con attenzione, di lasciarsi attraversare. Ogni numero, ogni foglia, ogni vetro erano una sfida e un insegnamento.
Le sue case tra gli alberi, le architetture impossibili, erano più che opere: erano metafore di un’abitazione dell’anima. Merz mi insegnava che abitare non significa possedere, ma essere presenti, e Jole de Sanna mi insegnava che capire significa rischiare di essere feriti, di muoversi dentro il vuoto senza protezione. Questa duplice lezione divenne per me il principio cardine di ogni lettura artistica: guardare con responsabilità, muoversi con delicatezza, accettare il pericolo della conoscenza come condizione di crescita.
Le installazioni fragili, le sequenze luminose, il silenzio dentro l’igloo: tutto era tessuto insieme come un canto che non cessa. Merz e Jole de Sanna operavano sullo stesso terreno, anche se in modi diversi: uno con la materia e lo spazio, l’altra con le parole e la capacità di far vivere l’opera nell’osservatore. Io ero il testimone di questo dialogo invisibile, e ogni passo nel loro mondo diventava parte di un percorso di formazione senza fine.
Passeggiando tra le installazioni di Merz, mi accorgevo di quanto ogni gesto fosse calibrato, ma al tempo stesso libero. Ogni tubo, ogni vetro, ogni foglia sembrava muoversi con una propria volontà, e io imparavo a percepire questa vitalità solo grazie agli insegnamenti di Jole. Ricordo un pomeriggio alla Triennale, quando davanti a un igloo quasi completamente trasparente, Jole de Sanna si chinò leggermente, osservando le giunzioni del legno con la stessa cura con cui si osservano le sfumature di un dipinto antico. “Non è la forma che conta,” disse, “ma come il vuoto dialoga con lo spazio circostante, come costringe chi guarda a misurarsi con sé stesso.” Io annuivo, prendendo nota mentalmente, mentre Merz mi parlava con il silenzio delle sue opere, senza bisogno di parole.
La sequenza di Fibonacci che attraversava il pavimento con luci al neon mi appariva ora come un percorso da seguire, una mappa invisibile del movimento dell’energia. Jole mi fece notare come il numero non fosse mai un ornamento: “Osserva come cresce,” mi disse, “come si dispiega nello spazio come un organismo vivo. Non serve capirlo, serve sentirlo.” E io sentivo, e il corpo stesso diventava misura, ritmo, vibrazione. Ogni passo era un dialogo tra il mio corpo, il vuoto e la forma: una lezione di equilibrio tra energia e silenzio.
Non si trattava solo di vedere, ma di entrare in una dimensione in cui ogni elemento è relazionale. Il vetro dell’igloo, trasparente e fragile, permetteva di guardare dentro senza poter mai possedere, mentre il legno segnava confini, limiti. Eppure i limiti erano generativi: il pensiero diventava abitazione, la percezione diventava creazione. Jole de Sanna mi spiegava che Merz lavorava con la tensione tra presenza e assenza, e che solo chi era disposto a rischiare di perdersi dentro le forme poteva percepire questa energia.
Ricordo anche una visita in una galleria più piccola, dove Merz aveva disposto un igloo accanto a una sequenza di foglie, sospese in aria. Ogni foglia sembrava galleggiare, in equilibrio perfetto tra gravità e leggerezza, e io rimasi a lungo a osservare il gioco tra ciò che era materiale e ciò che era solo percezione. “Guarda come il gesto semplice diventa architettura,” disse Jole, e io capii che quell’architettura era più che fisica: era etica, concettuale, estetica. Ogni elemento era parte di un ordine invisibile, e insieme costituiva un invito a prendere coscienza della propria presenza nel mondo.
Merz non lasciava nulla al caso, eppure non imponeva mai la propria volontà. Ogni installazione era aperta, sospesa, capace di accogliere e di respingere insieme. E io imparavo a camminarvi dentro con lo stesso rispetto con cui si attraversa un bosco sacro, con lo stesso silenzio che Jole de Sanna mi aveva insegnato a portare davanti a un’opera. Non c’era retorica, non c’era spettacolo: c’era il gesto essenziale, la prova di una logica interiore che si manifestava attraverso materiali fragili, numeri, luce e spazio.
Fu allora che compresi anche il senso della “casa tra gli alberi” e delle altre architetture di Merz: non erano rifugi in senso fisico, ma luoghi di esperienza, strumenti per misurare sé stessi e la relazione con lo spazio. Jole osservava queste opere con occhio critico eppure pieno di ammirazione: le sue note, i suoi commenti, i suoi silenzi erano un percorso parallelo, un filo che mi guidava attraverso il linguaggio complesso eppure chiaro di Merz. Così imparai che l’arte non è mai solo oggetto, ma gesto, spazio, misura e responsabilità.
Anche le installazioni più fragili, quelle in vetro o in foglie secche, non erano mai solo delicatezza: erano la prova che la vulnerabilità può diventare forza, che la precarietà può contenere un universo. De Sanna mi insegnava a leggere questa contraddizione come chiave interpretativa: l’opera non è mai stabile, ma non per questo meno vera; il gesto artistico non cerca sicurezza, ma significato. Merz e Jole de Sanna, insieme, mi mostravano che il vuoto e la misura, la fragilità e la forza, non sono opposti ma strumenti di comprensione.
Ci sono pomeriggi che ricordo con una nitidezza che ancora oggi mi sorprende. Seduto accanto a Jole, osservavo un igloo di Merz come se fosse vivo. Lei non parlava subito, mi lasciava cogliere i dettagli, il ritmo, le luci, i numeri. Poi, come se leggesse il mio stupore, pronunciava una parola, una frase breve, che all’improvviso apriva la scena intera: “Guarda il vuoto come generatore di energia.” Era un invito a misurare la mia presenza nello spazio, a percepire la densità dell’aria, il peso del silenzio, il movimento impercettibile della luce sul vetro. In quei momenti, l’arte non era più rappresentazione, ma esperienza totale, un atto che coinvolgeva corpo, mente e memoria.
Ricordo anche un pomeriggio di vento, quando alcune foglie sospese da Merz oscillavano leggermente, come se respirassero. Jole mi osservava con uno sguardo che era insieme severo e indulgente: “Non fermarti alla forma,” disse, “senti il gesto, la sua energia, la sua pulsazione.” E io sentivo, mentre il vento spostava le foglie, la geometria invisibile che le legava, la sequenza di Fibonacci che si ripeteva ovunque, dal piccolo dettaglio alla struttura dell’igloo. Ogni elemento diventava metafora: il corpo dell’osservatore si muoveva nello spazio come un numero nella sequenza, come una foglia nel respiro dell’aria.
Fu in quegli incontri che capii davvero il concetto di “abitare il vuoto”. Merz non costruiva solo forme visibili: creava luoghi che costringevano chi li osservava a prendere coscienza della propria presenza, della propria energia e fragilità. E Jole, con la sua pazienza e la sua acutezza, mostrava come percepire ciò che non è immediatamente visibile, come trasformare la contemplazione in esperienza. Ogni parola, ogni commento di de Sanna era ponte tra materia e coscienza, tra il gesto di Merz e la mia capacità di comprenderlo.
Un ricordo mi è rimasto particolarmente impresso: davanti a un igloo in vetro e legno, Jole de Sanna si chinò, accarezzando con lo sguardo ogni dettaglio. Io ero incerto, temevo di avvicinarmi troppo, di rompere l’armonia fragile di quella struttura. Lei mi sorrise e disse: “L’arte ti permette di rischiare, ma sempre con rispetto. Non è possesso, è abitazione.” Quelle parole mi segnarono: imparai che il vuoto non è mai assenza, ma opportunità, possibilità di misurarsi, spazio dove il pensiero diventa gesto e il gesto diventa energia.
I numeri al neon, le sequenze di Fibonacci, le luci che si rincorrevano sulle pareti dell’igloo: tutto ciò si legava al corpo dell’osservatore, a chi si muoveva nello spazio con attenzione. De Sanna mi mostrava come Merz non creasse opere per essere semplicemente guardate, ma per essere vissute, per generare una trasformazione interiore. Ogni passo dentro quell’installazione era una misura della propria coscienza, ogni respiro un dialogo con la fragilità e la forza dei materiali.
Nel corso degli anni, la mia scrittura cercò di riprodurre questa esperienza: il testo “La poesia numerica di Mario Merz” non era solo un tentativo di analisi, ma un igloo di parole, un luogo in cui chi legge potesse sentire, anche a distanza, la vibrazione dei numeri, il respiro del vuoto, la pulsazione dello spazio. Jole osservava con attenzione, correggeva, suggeriva, incoraggiava: la sua presenza era la garanzia che la scrittura non tradisse l’energia originaria, che il gesto di Merz non fosse ridotto a concetto sterile.
Così imparai che Merz e Jole de Sanna operavano in parallelo, seppur in ambiti diversi: uno con la materia, i numeri, la luce, l’energia; l’altra con la parola, la critica, la visione. Io ero testimone di questo dialogo invisibile, e ogni passo nel loro mondo diventava formazione, esperienza viva, consapevolezza della relazione tra corpo, spazio e pensiero.
Ogni igloo, ogni sequenza numerica, ogni foglia sospesa era un invito a non fermarsi alle apparenze. Jole mi insegnava a entrare nel vuoto senza paura, a misurare il proprio spazio e la propria energia, a percepire la tensione tra fragilità e forza. Merz, con la sua precisione e libertà, mostrava come il gesto artistico possa essere misura e al tempo stesso energia, concetto e vita. E io, camminando tra le sue opere, continuavo a sentire, a imparare, a comprendere.
Ricordo quando, nei corridoi dell’Accademia, Jole chiamava ogni studente “artista”. Non era un titolo concessivo, né una gentilezza retorica: era un atto di fiducia, un riconoscimento di responsabilità e potenzialità. Lo diceva a me, lo diceva a tutti quelli che si sedevano davanti a lei con fogli e matite tremanti, con dubbi e sogni. Sentirsi chiamare artista da Jole de Sanna significava ricevere la licenza di esistere pienamente nello spazio dell’arte, di muoversi con libertà ma anche con consapevolezza, di abitare il vuoto come Merz abitava i suoi igloo.
Ecco perché la mia memoria di Merz e di Jole è così intrecciata: Merz costruiva spazi che richiedevano attenzione, energia e rispetto, e Jole mi insegnava a leggere, percorrere e abitare quegli spazi senza timore e senza pregiudizio. L’arte, per lei, non era esercizio di accademia fine a sé stesso, ma vita, misura, responsabilità. Il suo appellativo di “artista” verso ciascuno di noi era un atto di coraggio e fiducia: ci metteva sullo stesso piano della creazione, senza gerarchie, senza concessioni.
Ogni volta che rileggo i miei appunti su Merz, le sequenze numeriche, le luci, le foglie e gli igloo, sento la voce di Jole che mi guida: “Non fermarti all’apparenza. Non pensare che l’opera esista solo per essere guardata: tu sei parte di essa.” E io comprendo quanto quell’“artista” applicato a noi studenti significasse la stessa cosa: non un titolo, ma un invito a partecipare, a essere responsabili, a misurarsi con il vuoto e con l’energia, con la fragilità e con la potenza.
Merz e Jole de Sanna, in parallelo, mi hanno insegnato che l’arte non è mai separata dall’esperienza, dal corpo e dal pensiero. Ogni igloo, ogni foglia sospesa, ogni sequenza numerica diventava lezione di vita: misura, energia, equilibrio tra rischio e sicurezza, dialogo con il vuoto e con il pieno. De Sanna chiamava artista chiunque avesse il coraggio di mettersi in gioco; Merz mostrava come quell’artista potesse misurarsi con materiali fragili e visioni potenti, generando spazi dove la coscienza e la percezione si incontrano.
Alla fine, ripenso al testo che progettai, “La poesia numerica di Mario Merz”, e a quanto di quella esperienza sia diventata scrittura, osservazione, attenzione. Senza Jole de Sanna, non avrei avuto strumenti per percepire il numero come energia, il vuoto come possibilità, la fragilità come forza. Senza Merz, non avrei saputo come abitare concretamente quell’energia nello spazio. Insieme, mi hanno trasmesso una lezione unica: il rispetto per l’opera, per chi osserva e per chi crea, e la consapevolezza che l’arte è sempre dialogo, rischio e attenzione.
Chiamare artista un allievo significa riconoscere la sua capacità di creare, di percepire, di abitare il mondo con consapevolezza. Jole de Sanna lo faceva ogni giorno, e quel gesto, apparentemente semplice, contiene tutto: fiducia, rigorosità, amore per l’arte e per chi la pratica. E io porto dentro di me questa lezione, come un igloo di parole, come un numero che cresce nello spazio, come una foglia che germoglia, fragile e potente insieme.
Ogni volta che ripenso a quegli anni, a quegli spazi, a quegli igloo, sento come se Merz e Jole de Sanna avessero costruito per me un percorso invisibile ma perfettamente tracciato. Non si tratta solo di opere o di lezioni: si tratta di presenza, di energia, di attenzione. Merz mi mostrava che il numero, il vetro, il legno, la foglia non sono strumenti passivi, ma organismi viventi che richiedono rispetto, cura e partecipazione. E Jole de Sanna mi insegnava come rispondere a questa sollecitazione: come muoversi nello spazio dell’arte con consapevolezza, come leggere il vuoto, come abitare il silenzio, come chiamare artista chiunque abbia il coraggio di confrontarsi con la fragilità e la forza di ciò che crea.
Ricordo ancora il suono dei passi sul pavimento di legno davanti a un igloo, il riverbero della luce al neon sulle pareti trasparenti, il vento che muoveva leggermente le foglie sospese. Tutto era simultaneamente fragile e potente, ordinato e caotico, visibile e invisibile. Jole de Sanna mi faceva notare la delicatezza di ogni dettaglio, il ritmo nascosto nelle sequenze, la necessità di percepire il gesto prima ancora di poterlo nominare. Quell’invito a sentire, più che a capire, rimane la lezione più preziosa.
Chiamare artista i suoi studenti dell’Accademia non era gesto di cortesia: era riconoscimento di responsabilità, fiducia e dignità. Significava accogliere ciascuno nel grande dialogo dell’arte, dare dignità a chi osserva e a chi crea, trasformare l’apprendimento in esperienza viva. È grazie a questo, insieme alle visioni di Merz, che imparai a comprendere l’opera non come oggetto esterno, ma come spazio da abitare, energia da misurare, tensione da percepire. L’igloo, la foglia, il numero, il vuoto: tutto diventava occasione di conoscenza, misura dell’io e del mondo.
E ora, rileggendo le pagine del mio testo su Merz, sento che l’esperienza non è mai conclusa. Il vuoto continua a parlare, i numeri continuano a crescere, le foglie continuano a germogliare nella memoria dello spazio che l’artista ha costruito. E io porto con me la presenza di Jole, di de Sanna, di Jole de Sanna: come guida, come maestra, come testimone di ciò che significa chiamare artista chiunque abbia il coraggio di creare, e di affrontare l’arte e la vita con la stessa intensità e responsabilità.
Alla fine, Merz e Jole mi hanno insegnato una cosa fondamentale: che l’arte è misura, energia, spazio e silenzio insieme; che abitare il vuoto significa essere presenti con coscienza; che chiamare qualcuno artista significa riconoscere la sua capacità di creare, di sentire, di essere nel mondo. A loro devo tutto: la mia attenzione, il mio sguardo, la mia capacità di percepire e di restituire l’arte come esperienza viva. E ogni volta che mi confronto con un’opera, ogni volta che scrivo, ogni volta che cammino nello spazio dell’arte, sento quella presenza come un igloo invisibile che accoglie, protegge e sfida.
A Jole, a de Sanna, a Jole de Sanna, devo tutto ciò che so, tutto ciò che sento, tutto ciò che posso restituire. E in questo debito non c’è stanchezza, non c’è conclusione: solo energia, misura, attenzione, e il perpetuo movimento tra fragilità e potenza che è la vera lezione di Merz e della sua inseparabile guida.