lunedì 15 settembre 2025

Abbandonarsi al caso: Hans Arp e la genesi del senso nell’arte dadaista


Prefazione d’autore

Scrivere questo testo non è stato per me un esercizio di critica né un tributo accademico a una figura del Novecento. È stato, piuttosto, un lungo avvicinamento, un apprendistato esistenziale, quasi un cammino. Non avevo previsto di scrivere su Hans Arp, né l’ho scelto. È stato lui, in qualche modo, a scegliermi. O forse è stato il caso – quel caso che egli ha saputo abitare con più grazia di chiunque altro – a far sì che mi imbattessi nel suo nome, nei suoi rilievi, nei suoi versi, in un momento della mia vita in cui anch’io cercavo una forma che non fosse imposta, ma trovata.

Arp non ti prende per la gola. Non urla. Non si impone. Ma una volta entrato nel suo universo – fatto di curve inoffensive, di parole fluttuanti, di titoli enigmatici, di forme che sembrano nate più che pensate – qualcosa accade. Come un ronzio che si intensifica. Come un sorriso che non finisce. Come se una parte di te, che ignoravi o avevi dimenticato, cominciasse a parlarti nella lingua di una foglia che cade.

Questo testo è il tentativo di dare ascolto a quel linguaggio.

Non si tratta di una biografia, né di un’analisi filologica, né di una monografia sistematica. È, piuttosto, un corpo testuale, attraversato da una domanda che mi accompagna da anni e che Arp ha saputo formulare meglio di molti filosofi: può esistere un’arte che non rappresenta, ma accade?
Un’arte che non grida, ma sussurra. Che non costruisce, ma lascia crescere. Che non “dice qualcosa”, ma permette a qualcosa di apparire.
In un tempo come il nostro, in cui tutto sembra dover avere uno scopo, una funzione, un valore d’uso o d’immagine, l’opera di Arp mi è apparsa come un atto politico e spirituale insieme: l’affermazione silenziosa di una fiducia profonda nel mondo.

Scrivendo, ho cercato non tanto di spiegare Arp, ma di seguirlo. Di lasciarmi portare. Di smettere di decidere sempre dove andare. Ogni sezione del saggio è nata così: come una forma che si è offerta, come un ritmo che si è imposto, come una voce che mi chiedeva di essere ascoltata e non interpretata. Ho usato molte fonti, certo. Ma ogni volta che sentivo che l’analisi stava diventando eccessiva, mi sono imposto di tornare all’opera, al suo silenzio, al suo umorismo, alla sua tenerezza.

Perché Arp è anche questo: un artista della dolcezza. Un uomo che ha attraversato due guerre, il crollo di più imperi, la perdita e il disincanto, senza mai smettere di credere che il mondo, malgrado tutto, continua a produrre bellezza. Non una bellezza sublime, drammatica, tormentata. Ma una bellezza che nasce nel gesto più semplice: tagliare un pezzo di carta, lasciarlo cadere, e accettare il posto dove è caduto.

Questo gesto, che può sembrare insignificante, per me è diventato un insegnamento. Mi ha aiutato a scrivere senza forzare. A pensare senza dogmatizzare. A vivere, forse, con un po’ più di leggerezza.

Se questo libro potrà trasmettere anche solo una piccola parte di quella leggerezza – che non è superficialità, ma consapevolezza profonda dell’imprevedibile – allora il suo scopo sarà compiuto.

Lo dedico a chi sa ancora fidarsi del caso. E a chi, inciampando in una forma, ha saputo riconoscerla come una rivelazione.


Introduzione generale 

Questo saggio prende forma dall’urgenza – al tempo stessa teoretica, critica e poetica – di restituire a Hans (Jean) Arp la posizione che gli spetta non soltanto nella storia delle avanguardie europee, ma nella riflessione profonda sull’origine della forma, sul mistero del senso e sullo statuto dell’opera d’arte nel tempo della sua crisi.
Nato nel 1886 a Strasburgo, in un’Alsazia che era da poco passata alla Germania e che tornerà alla Francia dopo la Prima guerra mondiale, Arp incarna sin dalla biografia un’identità plurale, dislocata, fluida. La sua doppia firma – Hans e Jean – ne è già emblema: non solo un vezzo linguistico, ma un gesto politico ed esistenziale. Un rifiuto della fissità, una rivendicazione dell’ambiguità come risorsa, una dichiarazione implicita di nomadismo interiore.

La storia dell’arte, tuttavia, non ha sempre saputo accogliere questa ambiguità. Arp è stato celebrato come “padre del Dadaismo”, ma spesso relegato al ruolo di figura laterale, decorativa, gentile: il poeta delle forme molli, lo scultore delle curve astratte, il dadaista mistico. Le grandi narrazioni moderniste – dominate da figure assertive come Duchamp, Picasso, Malevič, Breton – hanno faticato a integrare la sua quiete, la sua ironia priva di cinismo, la sua radicalità priva di frattura. Laddove altri artisti tagliavano, strappavano, scandalizzavano, Arp lasciava cadere, seminava, rideva piano. La sua era una rivoluzione senza proclami.

Questo libro nasce dunque anche da un gesto di riparazione. Non per “riabilitare” Arp – ché non fu mai davvero marginale – ma per rileggerlo nella sua complessità, nella sua fecondità teorica, nella sua attualità silenziosa. Non si tratta, qui, di comporre un ritratto enciclopedico, né di stabilire una cronologia definitiva delle sue opere. Si tratta, piuttosto, di interrogarne la postura: il modo in cui Arp sta nel mondo attraverso l’arte. Un modo fondato non sulla volontà, ma sull’ascolto; non sull’imposizione, ma sull’accoglienza; non sulla rappresentazione, ma sull’evento.

Il punto di partenza è il principio che dà il titolo a questo studio: abbandonarsi al caso. Un gesto che può apparire, a uno sguardo superficiale, frivolo o giocoso. Ma che in Arp assume il carattere di una vera e propria ontologia artistica: abbandonarsi al caso significa sospendere il dominio dell’io, fidarsi dell’intelligenza interna della materia, riconoscere al mondo una capacità generativa autonoma. Significa anche accettare che la forma non nasca da un progetto, ma da una forza. Che il senso non si costruisca, ma si manifesti. E che l’artista, lungi dall’essere un demiurgo, diventi piuttosto un testimone, un giardiniere, un sacerdote.

Perché Arp non è solo uno scultore, un poeta, un artista visivo. È un pensatore: non nel senso accademico, ma in quello originario. Un pensatore della forma, intesa non come geometria, ma come apparizione. Un pensatore del senso, inteso non come significato, ma come ritmo. Un pensatore del mondo, inteso non come oggetto da descrivere, ma come complice da abitare. La sua arte è un atto di conoscenza che precede ogni linguaggio – e insieme lo fonda.

Per affrontare questa complessità, il presente studio ha scelto una struttura che non segue rigidamente un criterio cronologico, ma attraversa trasversalmente i temi centrali dell’opera arpiana. Otto sezioni si susseguono, ciascuna focalizzata su un aspetto fondamentale: il ruolo del caso come principio anti-cartesiano; la materia come soggetto pensante; l’inconscio e il sogno come strumenti generativi; la forma biomorfa come modello vivente; la natura come alleata; l’umorismo come chiave metafisica; l’eredità dell’informe come genealogia critica.
Ciascuna sezione è costruita come un piccolo saggio autonomo, ma tutte insieme intendono comporre un corpo organico, come le stesse opere di Arp: una totalità discontinua, coerente solo nel suo fluire.

Dal punto di vista metodologico, l’indagine è volutamente transdisciplinare. Alla storia dell’arte si affiancano strumenti della filosofia della forma, dell’estetica fenomenologica, della psicoanalisi, della semiotica poetica, della cosmologia simbolica. Non per accumulare teorie, ma per inseguire – come Arp stesso ha fatto – il punto in cui i saperi smettono di spiegare e cominciano a danzare. Il riferimento al pensiero pre-socratico, a Nietzsche, a Bataille, a Deleuze, a Merleau-Ponty, non risponde a un canone, ma a una consonanza: ogni voce teorica è evocata come un’eco della postura arpiana.

Nella lettura qui proposta, Hans Arp appare come un artista filosofico, ma anche come un mistico profano. La sua religione è quella del gesto leggero, del silenzio che crea, dell’organico che pensa. In un secolo segnato dalla frattura, dalla violenza, dalla perdita di senso, Arp ha scelto la via più fragile e più forte: quella della fiducia. Fiducia che la materia sappia. Fiducia che il caos non sia minaccia, ma origine. Fiducia che il caso racchiuda, come scrive lui stesso, tutte le leggi.

A chi si chiede perché tornare oggi su Arp, in un’epoca dominata dal digitale, dall’iper-visibilità, dalla compulsione identitaria, questo libro risponde con una tesi semplice e radicale: perché Arp indica un altro modo di stare al mondo. Un modo non gerarchico, non centrato, non possessivo. Un modo gentile, ma non per questo debole. Un modo che accoglie l’errore, il vuoto, la discontinuità. Che non cerca la verità, ma la forma che si genera da sé. Che non progetta, ma accompagna. Che non afferma, ma rivela.

In questo senso, l’opera di Arp non è solo attuale: è profetica. Essa prefigura una possibile ecologia del pensiero, una nuova alleanza tra uomo e mondo, tra idea e materia, tra linguaggio e silenzio. Arp non fonda una scuola: genera una costellazione. Non enuncia un sistema: lascia che le forme si chiamino tra loro. Non pretende coerenza: lascia che il senso emerga, come un fiore in un campo di possibilità.

Scrivere su Arp, allora, significa anche mettersi alla prova. Rinunciare alla sintesi, accettare la digressione, sprofondare nel dettaglio, ascoltare i vuoti. Questo libro, per quanto rigoroso nei suoi riferimenti, si è voluto scrivere anche come un atto poetico: un tentativo di aderire, nella forma stessa del discorso, alla logica arpiana. Un saggio non sistematico, ma organico. Non assiomatico, ma germinante.

Forse, in definitiva, Arp ci insegna non tanto cosa vedere, quanto come vedere. Non cosa cercare, ma come lasciar accadere ciò che non si cerca. Non come produrre senso, ma come lasciarlo emergere, casualmente, come un ritaglio di carta che cade.
E se questo testo è riuscito, almeno in parte, a riflettere questa postura, allora avrà fatto quello che Arp chiede a ogni forma: non rappresentare, ma accadere.


L’ordine segreto del disordine: un’estetica dell’inconscio creativo

Nel 1916, nel pieno del primo conflitto mondiale, un gruppo di artisti e poeti si riunisce a Zurigo nel Cabaret Voltaire. Tra di loro, Hans (Jean) Arp – nato a Strasburgo nel 1886, figlio di un mondo di confini mobili e culture mescolate – introduce uno dei gesti più destabilizzanti e radicali della modernità artistica: la resa al Caso come forza generativa.

La frase che apre questo saggio – «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi...» – non è soltanto un principio estetico, ma una dichiarazione metafisica. Arp non intende il caso come pura aleatorietà, ma come manifestazione dell’invisibile, come principio strutturale che attraversa l’essere stesso. La sua poetica nasce da un’esigenza profonda: dare forma a ciò che sfugge alla ragione, fidarsi di un ordine che nasce da uno scarto, da una caduta, da un frammento gettato su un foglio.

La presente indagine si propone di esplorare a fondo il pensiero e l’opera di Hans Arp nel contesto del Dadaismo, interrogando la sua specifica declinazione della Poetica del caso, il suo rapporto con le avanguardie del Novecento, il legame con l’inconscio (in senso psicoanalitico e pre-psicoanalitico), e la persistenza di una visione cosmogonica dell’arte. In questo viaggio, Arp emergerà non solo come artista, ma come filosofo dell’irrazionale, cultore della metamorfosi, mistico dell’assurdo.


I. IL CASO COME LINGUAGGIO: UNA FILOSOFIA ANTI-CARTESIANA

Hans Arp fonda la propria pratica su una visione del mondo radicalmente opposta a quella cartesiana. Dove Cartesio cerca la certezza, Arp celebra la discontinuità, l’incontrollabile, l’imprevedibile. Il caso, per Arp, non è negazione del senso, ma sua genesi. Egli scrive:

«Il caso è il solo ordine possibile dell'universo. Tutto ciò che vive è frutto del caso e della necessità».

Arp si oppone così al principio classico della mimesis come riproduzione del reale, e persino alla sua deformazione espressionista. L’arte non deve più rappresentare: deve accadere. Il gesto artistico è quindi un atto non lineare, una scrittura discontinua, un’invocazione al caos come principio creativo.

Questo concetto lo avvicina ad alcune intuizioni della filosofia pre-socratica (in particolare ad Anassimandro e alla sua idea dell'ápeiron), ma anche a quelle di Nietzsche e più tardi di Deleuze, per cui la creazione è sempre scarto, differenza, deterritorializzazione.

Perfetto. Ho iniziato a scrivere il saggio accademico su Hans Arp e la poetica del caso: il documento è ora impostato e procederò ad ampliare ciascuna sezione per raggiungere l'estensione di circa 50 cartelle. Proseguirò ora con i capitoli successivi, sviluppando analisi iconologiche, riferimenti storici, confronti critici, approfondimenti filosofici e testuali.


II. La materia che pensa: il caso come genesi formale

L’arte di Hans Arp non nasce dalla volontà ma dalla rinuncia. Non si tratta di imporre un disegno, ma di ascoltare un ritmo interno alle cose. La materia è viva, e l’artista ne è il complice. Già a partire dai primi collage eseguiti a Zurigo, Arp adotta una tecnica che lascia la composizione alle leggi del caso: taglia delle forme astratte nella carta colorata e le lascia cadere su un supporto, fissandole dove il caso le ha fatte posare.

«Tagliai delle forme in carta colorata, le lasciai cadere sul foglio e poi le incollai nel punto in cui erano cadute. Ne risultò una composizione, più forte di quanto avessi mai potuto comporre di mia volontà.»

In questo gesto apparentemente semplice si compie una rivoluzione: Arp rinuncia all’ego dell’artista demiurgo per divenire tramite di una logica superiore e inconoscibile. Il caso si configura non come negazione della forma, ma come sua matrice. Il gesto dell’artista non è più generativo in senso lineare, ma rivelativo: fa emergere un ordine latente.

Questa poetica implica una concezione animista della materia. Le forme di Arp non sono mai geometriche in senso freddo, ma evocano organismi viventi, gocce, cellule, semi, amebe, così come forme celesti, meteoriti, lune, galassie. La sua è un’estetica dell’organico, una geometria fluida dove la curva domina la linea retta. L’idea non è costruire ma lasciar crescere. In tal senso, Arp si avvicina all’idea di “morfogenesi” della biologia, ma anche al concetto di forme informate dall’informe caro a Bataille.

Le sue “concrezioni” — termine che già di per sé implica una crescita naturale più che una costruzione — sembrano depositi spontanei di un flusso invisibile. In sculture come Concrezione umana, Pagliaio lunare, Fiore che sboccia in un sogno (titoli che da soli evocano una poetica della vita), le forme si arrotondano, si piegano, si appoggiano nello spazio come se fossero germinate da una forza interna.

La poetica del caso è dunque anche una poetica della non-intenzionalità in senso psichico e simbolico. Arp si pone in una posizione affine a quella del medium, lasciando che la forma si manifesti da sé, secondo leggi che non possono essere comprese razionalmente. Eppure, questa assenza di controllo genera opere di forte coesione formale. Il caso, in Arp, non è disordine: è un ordine altro.

Il discorso si fa ancora più interessante se lo si mette in relazione con i coevi sviluppi della psicoanalisi e del pensiero simbolico. Il “lasciar accadere” di Arp trova paralleli nella pratica del sogno, dell’associazione libera, dell’automatismo. Ma rispetto al Surrealismo, in cui l’automatismo tende a svelare contenuti interiori, in Arp l’automatismo è orientato alla forma, non al contenuto. Non vuole dire, vuole far apparire.

In sintesi, la materia – lasciata libera di cadere, curvare, occupare lo spazio secondo leggi non precostituite – pensa. E nell’opera di Arp, l’artista si pone al suo servizio, come sacerdote di un mistero cosmico che ha le sembianze dell’informe e l’intelligenza della vita stessa.


III. Arp tra Dada e oltre: confronto con le avanguardie e rottura del paradigma moderno

Il caso, nella sua formulazione arpiana, non è un semplice espediente formale né una provocazione dadaista: è un principio epistemologico. Ma per comprendere appieno la portata di questo gesto, occorre inserirlo nel più vasto panorama delle avanguardie storiche. Arp si muove in un orizzonte attraversato da tensioni contraddittorie: da un lato la volontà di distruggere l’arte borghese e razionalista, dall’altro la ricerca di un linguaggio originario, arcaico, che preceda il logos occidentale. In questo doppio movimento, egli si distingue nettamente sia dai compagni dadaisti, sia dai futuri surrealisti.

Nel Dadaismo, Arp incarna l’anima più contemplativa e cosmica. Se Hugo Ball, Richard Huelsenbeck o Tristan Tzara esasperano la rottura linguistica attraverso il nonsenso, l’urlo, il pastiche, Arp invece cerca il silenzio primordiale da cui tutto emana. Il suo dadaismo non è nichilistico, ma mistico. Non urla contro la ragione: la dissolve in una danza silenziosa di forme che si auto-generano.

Non è un caso che Arp si distacchi presto dalle pratiche dadaiste più rumorose. La sua poetica si radica in un’antropologia del segno e della materia, dove l’arte diventa una sorta di scrittura anteriore al linguaggio articolato, vicina ai glifi, ai fossili, alle prime impronte. In questo senso, è affine più a un Paleolitico immaginario che a un’utopia futurista.

La distanza cresce ulteriormente nel confronto con il Surrealismo. Arp viene spesso assimilato ai surrealisti per la comune attenzione all’inconscio e all’automatismo, ma questa è solo una contiguità apparente. Là dove Breton e i suoi seguaci cercano il meraviglioso nel perturbante, lo choc psichico, Arp coltiva una serenità arcana. Non c’è mai violenza o erotismo nella sua poetica, ma una dolcezza disarmante, un umorismo che confina con il taoismo più che con la psicoanalisi. Non a caso Arp scrive: «L’arte è frutto dell’armonia divina. [...] L’arte deve essere come una stella: calma, lucente, pura».

Arp non vuole “esprimere” l’inconscio, bensì lasciarlo filtrare attraverso la forma, come fa l’acqua con le pietre porose. Le sue opere non sono interpretazioni ma epifanie. In ciò si avvicina di più a Paul Klee, con il quale condivide un’idea musicale e cosmica della creazione. Entrambi vedono l’arte come qualcosa che cresce, che vibra, che respira. Ma mentre Klee è ancora legato a un pensiero simbolico e pedagogico, Arp dissolve ogni significato per far parlare la forma in quanto tale, svincolata da qualunque narrazione.

Lontano anche dal costruttivismo e dal razionalismo del Bauhaus, Arp mantiene una posizione marginale rispetto ai grandi movimenti, e proprio per questo si fa figura centrale di una modernità che non ha rinunciato al mistero. Se Mondrian ricerca un’armonia tramite l’equilibrio delle rette e dei colori primari, Arp affida l’equilibrio al divenire, al fluido, al molle. È una differenza ontologica: là dove la modernità tende a ridurre, ordinare, astrarre, Arp moltiplica, distende, lascia accadere.

Persino nel confronto con artisti come Brâncuși o Giacometti – entrambi alla ricerca dell’essenziale – Arp si distingue per la sua rinuncia a ogni verticalità ascetica. Le sue forme non si elevano, non fuggono verso l’alto: si adagiano, si raccolgono, si rotolano nello spazio come creature stanche e felici. La sua è un’arte senza tensione, senza dramma, che testimonia una mistica orizzontale, vegetale, quasi oceanica.

Infine, è impossibile non cogliere in Arp una precocissima intuizione postmoderna: quella della decostruzione del soggetto, della crisi del significato, dell’estetica della processualità. La sua opera anticipa in modo silenzioso e radicale molte delle pratiche concettuali del secondo Novecento. Artisti come John Cage, Robert Rauschenberg, Ellsworth Kelly, ma anche Anselm Kiefer o Giuseppe Penone, riconosceranno in Arp una sorta di antesignano: non tanto per ciò che ha fatto, ma per il modo in cui ha lasciato che accadesse.

La sua poetica si potrebbe riassumere così: non si tratta di creare forme, ma di lasciarsi creare da esse. E in questo ribaltamento, l’artista non è più autore, ma evento.


IV. Arp e l’inconscio: sogno, metamorfosi e sacralità dell’informe

La poetica del caso, in Arp, non può essere compresa appieno senza affrontare la dimensione dell’inconscio. Ma non si tratta semplicemente di appoggiarsi alle suggestioni freudiane o junghiane – per quanto affiorino in superficie –, quanto piuttosto di interrogare un’esperienza interiore che precede la psicoanalisi stessa: un’alleanza intuitiva con le forze profonde dell’essere, con ciò che è pre-verbale, pre-concettuale, pre-identitario.

Arp non “usa” l’inconscio per scopi artistici; semmai, si dispone all’ascolto di un’inconscienza cosmica, impersonale, che si manifesta sotto forma di sogno morfologico. Il suo gesto è quello del medium, del sonnambulo lucido, di colui che veglia mentre l’universo sogna. Scrive nei suoi testi poetici:
«Siamo nati nel fango, siamo cresciuti nell’erba. In noi cresce l’acqua, in noi si rifugia il cielo. Noi siamo le uova del vento e i gameti del caos.»

Questa visione non è mai retorica. La sua scrittura poetica – come la sua opera plastica – è attraversata da una dolcezza ipnotica, dove l’assurdo non è mai stridente ma quieto, dove l’illogico non è trauma ma leggerezza. L’inconscio arpiano non ha nulla dell’ossessione freudiana, né della vertigine abissale di Bataille: è piuttosto un campo di germinazione, una placenta della forma, un humus. Il suo sogno è naturale, mineralizzato, vegetale.

In questo senso, Arp non si limita a rappresentare il sogno, ma a costruire un linguaggio che funziona come un sogno: per scarti, condensazioni, slittamenti, metamorfosi. Le sue figure mutano incessantemente: una foglia diventa seno, un uovo diventa volto, una nube diventa mano. La forma è sempre liminare, in transizione, mai compiuta. Non a caso, molti titoli delle sue opere sembrano fluttuare nel paradosso: Concrezione astrale, Fiore che sboccia in un sogno, Nascita simultanea di una forma e di un’anima. Ogni immagine è un evento onirico in divenire, una parola che si smaterializza mentre viene pronunciata.

Da qui l’impressione che l’informe in Arp non sia mai caotico, ma sacro. In ciò, si situa ai confini del pensiero mistico, e in particolare di una mistica della metamorfosi. È possibile leggere Arp attraverso il filtro di Eraclito o Empedocle, ma anche di Jacob Böhme o Meister Eckhart, in quella tradizione spirituale che concepisce la creazione come flusso continuo, dove la divinità non è un’entità distinta dal mondo, ma un’energia che lo attraversa. L’informe, in questo senso, è la forma del divino: non ciò che manca di struttura, ma ciò che eccede ogni struttura.

Anche l’umorismo – componente costante dell’opera di Arp – si configura come un segno della sua visione spirituale dell’assurdo. Non si ride contro qualcosa, ma con il cosmo stesso, nella sua imprevedibilità. Le sue “costellazioni navali”, i suoi “musi silenziosi” o “piedi floreali” non sono giochi surreali, ma epifanie dell’inspiegabile. L’associazione libera in Arp non scava nel trauma, come nei surrealisti, ma costruisce un universo parallelo, morbido, ove regna una logica diversa, non gerarchica, non oppositiva, più simile al pensiero mitico o infantile che a quello razionale.

Arp è, in questo senso, vicino alla visione junghiana dell’inconscio collettivo, ma se ne distacca nella misura in cui non cerca archetipi, bensì processi. L’archetipo cristallizza, la forma arpiana scorre. Non c’è mai un simbolo fisso: tutto è relazione, slittamento, eco. La sua opera non può essere “letta”, solo osservata nel suo accadere.

Persino l’idea di “personalità” artistica, tanto cara all’estetica novecentesca, viene dissolta. Arp non costruisce uno stile, ma un clima, un’atmosfera, un campo di vibrazioni in cui le opere si generano come entità autonome. Non firma un’identità, ma genera una genealogia di immagini che sembrano provenire da una mitologia che non ha mai avuto bisogno di essere raccontata. Un “prima” del mito, una mitogenesi formale.

In questo senso, la sua idea di arte come “scrittura senza significato” è perfettamente coerente con la sua ricerca dell’inconscio non come contenuto, ma come modalità dell’esistere. L’inconscio non è il deposito del rimosso, ma la lingua madre del mondo.

Così, nell’opera di Hans Arp, l’informe non è vuoto, ma grembo. Il sogno non è evasione, ma nutrimento della forma. E l’artista, nella sua rinuncia a significare, diventa il custode silenzioso di una creazione che si rigenera ogni volta – per caso, per grazia, per ascolto.


V. Arp e la natura: forme fluide e organicità dell’universo

La natura, per Hans Arp, non è paesaggio né sfondo, ma origine. È ciò da cui ogni forma proviene e verso cui ogni forma tende. Non c’è nulla di mimetico, però, nella sua rappresentazione del vivente: Arp non copia la natura, ma ne assume il linguaggio. Non dipinge fiori, ma si lascia attraversare dalla logica generativa dei fiori. Non scolpisce il corpo, ma lascia che le sue curve evochino la carne, la linfa, la forza morfologica che plasma ogni essere.

In questo senso, Arp può essere definito un poeta della biomorfia. La sua arte si nutre di forme che crescono, si incurvano, si piegano su se stesse secondo un principio di adattamento organico. Come cellule in divisione, come molluschi, come frutti, le sue figure sembrano uscite da un codice genetico non scritto. La sua geometria è erotica, fertile, liquida. L’ellisse, l’ovale, la spirale dominano le sue composizioni come archetipi del divenire.

Nella serie delle “concrezioni” – siano esse in legno, gesso o bronzo – questa tendenza diventa tangibile. Si tratta di opere che non sembrano scolpite, ma cresciute. Il loro titolo stesso allude a un fenomeno geologico e organico: la concrezione è ciò che si forma per accumulo, per aggregazione lenta, come una perla o un corallo. L’artista non impone la forma, ma la asseconda. Ogni volume si offre come risultato di una pressione invisibile, di un movimento segreto della materia verso la propria figurazione.

Arp stesso scrive:
«La natura è una musa cieca ma infallibile. Dobbiamo imparare a non interromperla, a non correggerla, ma a seguirla nel suo ritmo sordo e profondo.»

Questo “ritmo” è l’essenza della sua visione del mondo. Egli concepisce la realtà come una danza lenta, una pulsazione costante tra nascita e dissoluzione. La forma, quindi, non è mai statica: è sempre evento temporale, cristallizzazione effimera di una vibrazione più vasta. In questo senso, le sue opere sono tempo congelato, istanti fossili di un’energia che sfugge. È per questo che anche le sue sculture sembrano sempre sul punto di mutare, di scivolare, di sciogliersi.

La vicinanza con la natura si esprime anche nel suo rapporto con i materiali. Arp non cerca la nobiltà marmorea della scultura classica, ma si affida spesso al legno, al cartone, alla carta, al gesso: materiali umili, porosi, vivi. Questa scelta non è solo tecnica, ma etica. Come se il materiale stesso dovesse parlare, come se l’artista dovesse solo predisporre le condizioni perché la materia si manifesti. Si torna, così, alla centralità del caso: non come gesto anarchico, ma come fiducia nel processo naturale.

Il dialogo con la natura si traduce anche in una consapevolezza ecologica ante litteram. In un secolo dominato dall’industrializzazione, dalla guerra e dalla distruzione sistematica del paesaggio, Arp propone una forma d’arte che si riconnette al ciclo del vivente. Non rappresenta la natura come qualcosa di esterno, ma la incarna attraverso la forma. Le sue opere sono forme-natura, forme-vita, forme-respiro.

Si potrebbe dire che l’arte di Arp è una forma di panpsichismo plastico: ogni oggetto è animato, ogni forma respira, ogni volume pensa. Il confine tra soggetto e oggetto si dissolve. In una delle sue riflessioni più profonde, scrive:

«Ciò che è vivo non si lascia racchiudere. La vera forma è quella che fugge: la nuvola, la fiamma, l’acqua, la donna, l’embrione. L’arte deve seguire questa fuga, senza mai pretendere di afferrarla.»

Questa “fuga” della forma è il cuore del suo pensiero estetico. L’arte non è più un sistema chiuso, ma un organismo aperto, un ciclo. In questo, Arp si avvicina sorprendentemente ad alcune posizioni della filosofia orientale, in particolare al taoismo, dove l’arte è intesa come flusso, come via (Dao), come ascolto profondo dell’energia che attraversa tutte le cose.

Ecco perché le sue opere, pur essendo astratte, non sono mai fredde. Non respingono, non distaccano, non separano. Al contrario, accolgono, abbracciano, generano intimità. Ci si avvicina a esse come a creature amiche, come a pietre rotonde che parlano una lingua muta. Anche in scala monumentale – come nei suoi lavori più tardi – le forme di Arp non dominano lo spazio, ma lo accarezzano.

In definitiva, per Arp la natura non è un tema, ma un principio strutturale. La sua arte non la descrive, ma ne continua il gesto: è il prolungamento della sua energia generativa, il suo sogno figurato. E in questo sogno, l’artista non è che un ramo, una goccia, una costellazione casuale – il testimone felice di una metamorfosi senza fine.


VI. Il silenzio e l’umorismo: il riso dell’universo in Arp

Hans Arp è forse uno dei pochi artisti del XX secolo a cui si addice davvero la definizione di umorista metafisico. Un’arte che scaturisce dal caso, dall’organico, dall’informe, eppure attraversata da una leggerezza disarmante, da una felicità obliqua, mai dichiarata, come il sorriso calmo di una pietra. Arp ride – ma non per deridere. Ride con il mondo, non del mondo. E nel farlo, disegna un universo dove il senso si sdoppia, si scioglie, si traveste: diventa gioco.

Questo umorismo, tuttavia, non è affatto superficiale. È semmai il prodotto di una consapevolezza profonda del nonsenso fondamentale dell’esistenza, accettato con grazia. Arp scrive:
«L’arte è un frutto che cresce nel silenzio e ride sotto la pelle.»

Il riso, qui, è silenzioso: nasce dalla sospensione della logica, dallo scarto poetico che separa il segno dal significato. Le sue poesie visive, le sue sculture, i suoi titoli – Musa a forma di sole, Concrezione da rinfresco, Testa verticale di pensiero orizzontale – non sono battute, ma piccoli koan zen: paradossi che disarticolano la mente per aprire spiragli nel reale. In questo, Arp non è solo dadaista: è un mistico dell’assurdo.

A differenza di Duchamp, il cui umorismo è spesso intellettuale, sarcastico, meccanico, Arp coltiva un’ironia più liquida, quasi vegetale. Non destabilizza per criticare, ma per disorientare con tenerezza. La risata non è uno strappo, ma un ondeggiamento. È come il movimento delle sue forme: curva, rimbalza, si moltiplica. È un riso germinativo, che non chiude ma apre.

Ed è un riso che nasce dal silenzio. Per Arp, la parola è importante quanto la pausa. Il vuoto ha la stessa dignità della forma piena. Molti suoi testi poetici somigliano a liturgie senza dogma: frammenti di frasi galleggianti, che sembrano rivolte a un dio che si nasconde dietro un sasso. E le sue opere plastiche sono spesso titolate in modo così straniante da innescare un cortocircuito tra ciò che si vede e ciò che si legge: lo spettatore, preso tra la tenerezza della forma e l’enigma del titolo, è spinto a uno stato di contemplazione sorridente, quasi infantile.

Questo umorismo ha anche una funzione salvifica. È la risposta dell’artista alla tragedia del secolo: le guerre, i confini, la frammentazione dell’io. Arp, che ha vissuto tra imperi scomparsi e frontiere mutevoli, tra il tedesco e il francese, tra l’Alsazia e la Svizzera, ha fatto dell’ambiguità un rifugio. L’umorismo diventa così una strategia di sopravvivenza, una via d’uscita dalla gravità del mondo moderno. Non una fuga, ma un’alternativa.

È anche, sorprendentemente, una forma di amore. Le sue forme sembrano accarezzarsi tra loro, toccarsi senza violenza, corteggiarsi nello spazio. Le curve, i vuoti, le asimmetrie: tutto parla una lingua erotica priva di tensione, come se il desiderio fosse già realizzato nel solo fatto di esistere. E il riso, qui, è quello dell’orgasmo sottile del cosmo: un piacere quieto, che non ha bisogno di grida.

In Arp, il riso non è mai disgiunto dalla sacralità. È la forma che il mistero assume quando rinuncia alla solennità. E in questo si avvicina a una lunga tradizione: dal riso dionisiaco al riso di Francesco d’Assisi, fino al riso senza oggetto dei bambini e dei saggi. L’umorismo arpiano è questo: un umorismo inutile, non finalizzato, gratuito. E proprio per questo, necessario.

La sua poetica è dunque una liturgia dell’assurdo e una spiritualità del sorriso. Come se l’universo, dopo aver generato se stesso senza motivo, si sedesse un attimo a contemplare ciò che ha fatto, e ridendo dicesse: «Va bene così.»


VII. L’eredità di Arp: genealogie dell’informe e attualità del caso

L’opera di Hans Arp, a lungo percepita come appartata, si rivela oggi come una delle sorgenti più fertili e silenziose dell’arte contemporanea. Se nel cuore delle avanguardie Arp era figura eccentrica – troppo quieta per il dadaismo, troppo astratta per il surrealismo, troppo spirituale per il costruttivismo – è nel secondo Novecento e oltre che la sua poetica mostra la sua sorprendente capacità germinativa. La sua è un’eredità rizomatica: non una scuola, non una linea, ma una proliferazione sotterranea di intuizioni che riaffiorano nei luoghi più impensati.

Uno dei primi territori in cui il pensiero di Arp si riversa è quello dell’arte processuale e del minimalismo organico. Negli anni Sessanta e Settanta, artisti come Eva Hesse, Richard Tuttle, Lynda Benglis e Barry Le Va riscoprono il valore del gesto come evento non intenzionale, la centralità della materia fluida, la rinuncia al dominio formale. Le loro opere – tra colature di lattice, pieghe molli, getti casuali – sembrano declinazioni radicali del principio arpiano: lasciare che la forma accada. Ma mentre il minimalismo classico cerca la perfezione seriale, questa linea arpiana ne rovescia l’assunto, valorizzando l’errore, l’incompiutezza, la mutazione.

Ancora più esplicito è il debito di molti artisti concettuali e performativi che hanno eletto il caso a criterio operativo. Si pensi a John Cage, che nei suoi lavori musicali – dal Music of Changes alla celebre conferenza “Lecture on Nothing” – adotta strutture aleatorie ispirate al pensiero zen e al Libro dei Mutamenti cinese (I Ching), ma che trovano nell’idea arpiana di abbandono generativo un’eco precisa. Cage, come Arp, crede che la bellezza risieda nell’accadere spontaneo, nella sospensione del controllo, nel vuoto che genera la forma.

Simile è il caso di Merce Cunningham, la cui danza senza coreografia fissa si configura come forma in divenire, e ancora di Robert Rauschenberg, i cui Combines sono accumulazioni informali, organismi-collage che sembrano germinare come le concrezioni di Arp, ma in chiave urbana e iconica. E in Allan Kaprow, con i suoi happenings aperti all’imprevedibile, il principio del caso diventa una vera e propria liturgia dell’improvvisazione.

Nel campo della scultura contemporanea, Arp è stato una figura-guida per artisti come Giuseppe Penone, Tony Cragg, Anish Kapoor, Jean-Luc Moulène: tutti, a loro modo, cultori dell’informe come struttura. In Penone, la linfa vitale della pianta si manifesta nella forma stessa della scultura, che non viene creata ma scoperta, come un albero sbucciato a mano per rivelarne il flusso interno. In Kapoor, la superficie riflettente o assorbente non ha funzione estetica, ma metafisica: la forma non mostra, inghiotte; non rappresenta, fa avvenire. E in Cragg, la materia si muove, si accartoccia, si sposta come spinta da forze interne che evocano direttamente l’animismo plastico di Arp.

In parallelo, la riflessione sull’informe proposta da Georges Bataille e successivamente elaborata da Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois nel volume Formless. A User’s Guide (1997), ha aperto uno spazio teorico che indirettamente consacra Arp come antenato imprevisto di molte tendenze postmoderne. L’informe non è più assenza di forma, ma strategia critica, scarto dalla norma, forma del divenire. In questa ottica, Arp appare come uno dei primi a incarnare tale tensione, non per programma teorico ma per sensibilità ontologica.

Nel presente, le installazioni ambientali, le opere site-specific, le pratiche ecologiche e relazionali che mettono in discussione l’autorialità, la fissità dell’opera e la centralità dello sguardo, trovano in Arp una radice comune. Basti pensare alle poetiche effimere e naturali di Andy Goldsworthy, agli oggetti smarriti e sedimentati di Kader Attia, o ancora all’universo vegetale, poroso e astratto di Dora Budor o Camille Henrot. Tutti questi artisti, senza dover nominare Arp, ne condividono l’approccio: un’arte che non costruisce, ma lascia crescere.

Persino le nuove forme artistiche legate all’intelligenza artificiale, al machine learning, agli algoritmi generativi, si muovono paradossalmente in continuità con l’idea arpiana di una forma senza autore, di un senso che nasce dall’abbandono dell’intenzionalità. Se la macchina crea, se l’opera si autogenera, se il codice produce il caos, allora Arp è presente – silenzioso, come sempre – anche nell’arte generativa del XXI secolo.

In conclusione, Hans Arp non ha fondato una scuola, né un’estetica codificabile. Ma proprio per questo, la sua eredità è pervasiva. Ha insegnato a fidarsi del non-intenzionale, a celebrare il fluido, a convivere con l’ambiguità del senso. Ha offerto una via di fuga dalla retorica del progetto, del dominio, della struttura. E lo ha fatto con una leggerezza cosmica che oggi – in un mondo segnato da crisi ecologiche, identitarie e semantiche – appare più attuale che mai.

La sua arte è come una foglia che cade nel vento. Non sai dove andrà a posarsi. Ma quando si posa, capisci che non poteva andare altrove.


VIII. Conclusione: Arp o della fiducia nel mondo

Nel cammino tracciato da Hans Arp attraverso l’arte, il linguaggio, la materia e il silenzio, si delinea una figura che oltrepassa il semplice ruolo di artista per assumere quello – più raro – di pensatore dell’esistere. Non un filosofo in senso sistematico, né un teorico dell’immagine, ma un mistico senza religione, un sapiente del fluido, che ha saputo leggere il mondo non come enigma da risolvere, ma come realtà da accompagnare nella sua danza.

Tutta la sua opera si può leggere come un atto di fiducia. Fiducia nella materia che si organizza secondo leggi invisibili. Fiducia nel caso come forza strutturale. Fiducia nella forma come evento che accade senza volerlo. Fiducia, infine, nell’universo stesso, che Arp non ha mai rappresentato come ostile, meccanico o minaccioso, ma come spazio aperto, fertile, in cui la bellezza nasce non per intenzione, ma per dono.

In un’epoca come la nostra, ancora segnata dalla nostalgia del controllo e dal terrore dell’informe, la lezione di Arp assume una potenza etica. Rinunciare al dominio, accettare la metamorfosi, ascoltare il ritmo delle cose senza sovrapporsi: tutto ciò non è solo poetica, ma filosofia di vita. Arp insegna che il senso non deve essere cercato, ma lasciato emergere. Che l’opera non va costruita, ma accolta. Che l’artista non deve affermare, ma sparire nella forma, come un seme nel suo frutto.

Non è un caso che le sue forme evochino spesso la nascita, la crescita, il respiro. Arp non ha mai interrotto la sua alleanza con la natura, anche quando tutto intorno a lui crollava: imperi, ideologie, linguaggi, scuole artistiche. In mezzo alla catastrofe del Novecento, ha scelto il silenzio dell’organico, la trasparenza della curva, l’innocenza della casualità. Una forma di resistenza sottile, quasi impercettibile, ma incrollabile.

Arp è stato fedele a un’idea semplice quanto rivoluzionaria: la bellezza è già nel mondo, e l’artista deve solo predisporre lo spazio per lasciarla accadere. È un pensiero umile, e per questo profondamente spirituale. In un’epoca in cui l’arte spesso grida, denuncia, afferma, Arp ci ha insegnato l’elogio del cedere. Ha rifiutato il gesto eroico per offrire il gesto necessario. Ha sostituito la volontà con l’ascolto, la costruzione con la germinazione, la firma con la dissolvenza.

La sua eredità, come abbiamo visto, non è dogmatica ma biologica: è un’eredità che si riproduce per fioritura, per spore, per trasmissione laterale. È presente nei luoghi imprevisti, come un’erba tra i mattoni, come una conchiglia su un terrazzo urbano. La poetica di Arp vive oggi ogni volta che un artista rinuncia al progetto per fidarsi del processo; ogni volta che un’opera non rappresenta, ma accade; ogni volta che la materia non viene dominata, ma accompagnata nel suo divenire.

In definitiva, la forza della sua visione risiede nella sua discrezione. Hans Arp ha costruito un universo dove l’arte non è più un atto di conquista, ma di abbandono. Dove il caso non è minaccia, ma promessa. Dove l’informe non è assenza di senso, ma soglia del possibile.
E nel fare ciò, ci ha insegnato che si può abitare il mondo non con la pretesa di comprenderlo, ma con l’intelligenza di danzare con esso.

Fidarsi del mondo. Non esiste, forse, forma più alta di pensiero.