“Queer” di Luca Guadagnino — L’urlo sordo dell’amore negato
Sconvolgente. Sporco. Necessario: la malattia dell’amore non corrisposto
Ci sono film che raccontano una storia, altri che raccontano un sentimento. Queer non fa nessuna delle due cose. Guadagnino ci scaraventa in un territorio ancora più viscerale: quello del desiderio che deforma, che umilia, che contamina. E lo fa con una maestria stilistica che non cerca più la bellezza, ma la sua rovina. Questo film è una rovina. Una rovina abbagliante.
Adattare Queer, il romanzo postumo e maledetto di William S. Burroughs, è già di per sé un atto di brutalità e audacia. Guadagnino non lo adatta, lo reinventa, lo violenta amorevolmente. Ne conserva la pulsazione tossica, la frustrazione dell'io narrante, la claustrofobia di un sentimento che non ha luogo né legittimità. Ma poi gli impone il suo sguardo, la sua estetica, il suo amore per i corpi scomposti, per le relazioni senza forma.
Lee (Ben Whishaw) è un corpo che si disgrega. È il doppio allucinato di Burroughs, impastato di nostalgia, siringhe, sudore e umiliazione. La sua passione per Allerton (Jacob Elordi), giovane ex marine dagli occhi bovini e dal corpo erotico come un'arma, non è solo un'infatuazione: è una malattia. L’intero film ruota attorno a questa impossibilità. Allerton non è un soggetto d’amore, è un’assenza erotica che brucia tutto ciò che sfiora. Guadagnino costruisce la loro relazione come un balletto asimmetrico: uno vuole essere visto, l’altro si lascia guardare senza mai restituire lo sguardo. Il risultato è devastante.
L’ambientazione – un Messico di inizio anni ’50 – è un luogo dell’anima, più che geografico. Guadagnino lo mostra come un sogno febbrile: caldo, sporco, colorato di sangue secco. Le strade sono liquami che sanno di tequila e sudore, le stanze sembrano celle d’ospedale o bordelli della mente. Non c’è mai sollievo, né per il protagonista né per lo spettatore. Il Messico è un inferno mentale dove il desiderio non trova sfogo, ma solo ulteriore eco.
Il film è girato con una precisione maniacale, ma non compiaciuta. Ogni dettaglio ha il sapore di una ferita aperta: il taglio delle camicie, le sigarette che si consumano troppo in fretta, gli sguardi persi nel vuoto. Guadagnino rinuncia a qualsiasi redenzione. Queer non si apre, non evolve, non risolve. Rimane inchiodato alla sua ossessione, come Lee rimane inchiodato ad Allerton: inerme, isterico, sempre più solo.
È un film sul rifiuto, ma ancora di più sulla percezione di sé come qualcosa di non degno d’amore. Lee è costantemente fuori tempo, fuori contesto, fuori luogo. La sua voce narrante (un fiume carsico di amarezza e ironia) non accompagna, ma incrina. È lo spettro di un’identità queer che non può esprimersi se non nell’ombra, nel ripetersi ossessivo del desiderio e della frustrazione.
Ben Whishaw, inutile dirlo, è immenso. Non interpreta: implora, si sgretola, si fa piccolo fino a sparire. Jacob Elordi, con il suo Allerton indecifrabile, è perfetto nella sua superficialità abissale: un corpo oggetto, un idolo involontario. Il film vive del loro disequilibrio, della costante tensione tra eccesso e sottrazione, tra fame e assenza.
E il queer? Guadagnino non lo usa come bandiera, né come estetica. Lo incarna. Queer è un film che rifiuta qualsiasi centralità del “normale”. È cinema queer nel senso più radicale: è devianza, è ferita, è sguardo minoritario che si incista nella pelle del mondo senza chiedere il permesso. Non redime, non consola, non include. Disturba. E finalmente, lo fa con orgoglio.
Non è un film per tutti, e neppure un film da vedere una volta sola. È un’esperienza sensoriale, mentale e politica che ti lascia addosso il sapore acre del rifiuto. Ma anche la struggente, disperata bellezza di chi continua ad amare senza speranza. E senza pudore.
Genesi di un desiderio proibito: “Queer” tra Burroughs e Guadagnino
La gestazione di Queer come film è stata lunga, sfuggente, quasi clandestina. Proprio come il libro da cui prende il titolo. William S. Burroughs scrisse Queer negli anni '50, ma non lo pubblicò fino al 1985. Era un testo troppo intimo, troppo compromettente, troppo scoperto per l'autore stesso. Un romanzo che ruotava attorno all’amore tossico per un giovane americano a Città del Messico, nella forma di una prosa incerta, spesso spezzata, segnata dalla vergogna e dalla lucidità brutale. Burroughs, l’autore che sarebbe poi diventato l’icona della scrittura automatica e del cut-up, si lasciava qui contaminare dal lirismo e dalla confessione, come se scrivendo Queer stesse ancora cercando di capire cosa gli fosse successo.
Per Luca Guadagnino, Queer rappresenta il punto di collisione tra due ossessioni: il corpo maschile come enigma erotico e la vulnerabilità sentimentale come patologia. È la prosecuzione più cupa, più onesta, e più straziante della sua ricerca sul desiderio. Ma stavolta il desiderio non è idealizzato né celebrato. Non ci sono pesche, non c’è pianoforte, non c’è la carezza solare della Lombardia. C’è il buio. E una fame che non si placa.
Il progetto è stato scritto da Justin Kuritzkes (lo stesso di Challengers), che ha saputo rispettare il cuore nervoso e contraddittorio del romanzo, trasportandolo nel linguaggio del cinema contemporaneo senza renderlo un oggetto museale o un vezzo d’autore. Guadagnino e Kuritzkes hanno scelto di restare fedeli non tanto alla trama – esile, ellittica – quanto all’atmosfera, all’impotenza narrativa, alla ripetizione ossessiva del desiderio che consuma il protagonista.
La produzione stessa ha avuto un’aura di sottrazione. Poche immagini trapelate, poche interviste, un cast scelto quasi in silenzio. È come se il film si fosse nutrito fin dall’inizio di quella stessa inquietudine e segretezza che permea il romanzo: una confessione sussurrata, troppo compromettente per essere davvero rivelata.
E poi c’è una questione più sottile: Queer è anche un film che Guadagnino non avrebbe potuto fare dieci anni fa. Troppo intimo. Troppo scoperto. Se “Call Me by Your Name” era un primo sguardo d’amore – meravigliato, nostalgico, classicamente costruito – Queer è il momento dopo: la disillusione, il rimpianto, la consapevolezza che l’amore non corrisposto non è solo un dolore, ma una forma di prigionia. E Guadagnino, che in passato si è spesso lasciato sedurre dalla forma, qui finalmente si sporca. Sta dalla parte del perdente, del molesto, del bisognoso. E lo fa con onestà.
Partiamo da due momenti cardine di Queer, entrambi emblematici del linguaggio che Guadagnino plasma sul desiderio: la scena della danza nel locale e l’ultima sequenza tra Lee e Allerton.
1. La danza nel locale: un’eucarestia queer
È forse la scena più sensuale e destabilizzante del film. Non è una semplice danza, è un rito. Siamo in un locale popolare di Città del Messico, dove la musica latina è quasi assordante. I corpi si muovono, sudano, si strusciano. In mezzo a tutto questo, Allerton (Elordi) si lascia andare a un ballo improvviso, irriverente, sfrontato. Non balla per Lee. Balla per sé. Ma Lee – e noi con lui – non può che fissarlo. La macchina da presa si stringe sul suo sguardo, quasi doloroso, come se la bellezza del giovane stesse squarciando la sua pelle dall’interno.
Guadagnino filma la scena come una vera e propria eucarestia queer: Allerton diventa il corpo glorificato, che tutti guardano, ma che nessuno può possedere. Il ritmo è ipnotico, la camera danza insieme ai corpi, ma Lee è fermo. Come se il suo desiderio fosse immobilizzante, paralizzante. È una delle scene più tragiche del film, anche se nessuno muore. Perché è lì che capiamo: il desiderio non è reciproco. E non lo sarà mai.
Ma non c’è cinismo, né colpa. Solo l’insopportabile bellezza dell’altro. Una bellezza che Lee consuma solo con lo sguardo. E che lo brucia vivo.
2. L’ultima sequenza: l’assoluto rifiuto, la liberazione impossibile
L’ultimo incontro tra Lee e Allerton è di un’intensità glaciale. Non ci sono urla, non c’è dramma. C’è solo un grande silenzio, una lontananza irreparabile. Lee, ormai disfatto, tenta ancora una volta di avvicinarsi. Un gesto, uno sguardo, una parola in più. Ma Allerton, con la sua consueta calma ambigua, lo respinge senza respingerlo. È la violenza passiva di chi non ha bisogno di dire di no. Perché il suo no è già nel corpo, nell’assenza di desiderio.
Guadagnino filma la scena come fosse un esorcismo. Lee guarda Allerton un’ultima volta e capisce che non ci sarà redenzione, né complicità, né possesso. Ma non c’è neppure l’odio. Solo la pietà – forse per se stesso, forse per quella parte di lui che si è persa dentro un amore che non è mai cominciato.
La macchina da presa indugia sul volto di Whishaw, sfigurato dalla stanchezza, dalla fame d’amore, dalla vergogna. È un volto nudo. Che dice: “Non ci sarà un seguito”. Ma anche: “Sono ancora qui”.
Il film si chiude senza una vera conclusione. Perché non c’è via d’uscita dal desiderio non corrisposto. Solo la sopravvivenza.
Proseguiamo con un confronto fra “Queer” di Guadagnino e altri grandi film queer sul desiderio non corrisposto, per cercare di cogliere le risonanze, le fratture, i fantasmi comuni.
“Morte a Venezia” vs “Queer”: estetica della condanna
Non si può parlare di Queer senza evocare Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti. In entrambi i casi il protagonista è un uomo solo, colto, decadente, che proietta su un giovane maschile la totalità del suo desiderio. Tadzio, come Allerton, è un simulacro. Non è un personaggio, ma un’apparizione. Ma se Visconti lo trasforma in simbolo metafisico – il bello platonico che sfugge a ogni contatto – Guadagnino compie un’operazione più perversa: Allerton è reale, parla, fuma, scompare e ritorna, e proprio per questo la sua distanza è più crudele.
Dove Visconti sublima, Guadagnino dissacra. Lee non muore tra le sabbie dell’ideale: vive, si trascina, si umilia, ama male. E soprattutto: non è più solo la contemplazione estetica del giovane a uccidere. È la sua ambiguità, la sua tiepidezza, la sua complicità ambivalente. In questo senso, Queer è più vicino a una tragedia da bar, mentre Morte a Venezia resta un requiem.
“Happy Together” vs “Queer”: il melodramma tropicale e l’abbandono
Il confronto con Happy Together (1997) di Wong Kar-wai è altrettanto necessario. Anche lì siamo lontani dalla patria (Buenos Aires invece di Città del Messico), anche lì un uomo ama troppo e male, anche lì l’altro è sfuggente, crudele, eppure irresistibile. La coppia si consuma in un’esplosione di malinconia, sigarette e camere d’albergo spoglie.
Ma se Wong Kar-wai ci lascia una speranza lirica, un’uscita dall’inferno attraverso la solitudine scelta e la memoria (“Let’s start over”), Queer non offre riscatto. Guadagnino sottrae ogni epica all’amore tossico. Ci mostra solo l’impossibilità del ritorno, lo sgretolarsi della dignità. In questo senso, Lee è un personaggio ancora più radicale del protagonista di Wong: non cede mai alla tentazione di rifarsi una vita. Vuole Allerton. Solo Allerton. Anche quando sa che non lo avrà.
“Querelle” vs “Queer”: il corpo come trappola
Infine, Querelle de Brest di Fassbinder (1982): qui l’oggetto del desiderio è violento, enigmatico, forse persino fascista, e tutto è immerso in un clima da teatro artificiale, con luci al neon e gesti ritualizzati. In Queer, Guadagnino rinuncia a quell’estetizzazione barocca. Il corpo maschile non è mitico. È umano, presente, contaminato. Allerton non è né una musa né un dio pagano: è un ragazzo narciso, a tratti tenero, a tratti sadico, che si lascia desiderare per noia. Querelle gioca col potere; Allerton lo subisce e lo esercita senza nemmeno volerlo.
Ma procediamo con il confronto fra il romanzo "Queer" di William S. Burroughs e la sua trasfigurazione cinematografica secondo Luca Guadagnino, scavando a fondo nelle scelte stilistiche, politiche e simboliche che separano – e connettono – le due opere.
Burroughs vs Guadagnino: dal diario tossico al melodramma dei sensi
Nel testo originale, scritto tra il 1952 e il 1953 ma pubblicato solo nel 1985, Burroughs compone una sorta di confessione abissale, senza alcuna pietà per sé stesso né per il mondo che lo circonda. Lee è un relitto umano: alcolizzato, patetico, privo di fascino. Il Messico è lo sfondo di una fuga dalla giustizia americana dopo l’omicidio della moglie Joan (che nel film è solo alluso), ma è anche lo specchio di un disfacimento identitario. Allerton, nel libro, non è nemmeno descritto come bello: è scostante, ruvido, “stronzo” nella sua indifferenza.
Il punto è che Burroughs non cerca la redenzione. Non la chiede. Queer è una discesa nel desiderio come patologia, dove la scrittura stessa è febbre, allucinazione, vomito verbale. Guadagnino invece compie un’operazione opposta: dona bellezza al testo. Lo fa fiorire, lo rende visivamente seducente, ne fa quasi un’opera lirica. Là dove il romanzo sporca, il film incanta. E nel farlo, però, non si addomestica: sublima la tragedia, ma senza perdonarla.
La grande divergenza: estetica della miseria vs estetica del desiderio
Nel libro, il desiderio è un crampo, un’ossessione priva di poesia. Nel film, è un canto. Guadagnino prende l’anarchia bruciante di Burroughs e la orchestra in una partitura visiva colma di languore, movimenti di macchina lenti, luci calde, corpi nudi che non sono mai pornografia ma liturgia. Il volto di Whishaw, con le sue pieghe dolorose e il corpo scavato, prende la funzione della scrittura: è lì che leggiamo la degradazione, l’attaccamento malato, il bisogno.
E se Burroughs si rifiuta di dare uno spessore psicologico a Allerton (un corpo, un pretesto, un abisso), Guadagnino lo riempie di ambiguità umana. Jacob Elordi non è solo bellissimo: è irritante, tenero, sfuggente. Un oggetto del desiderio ma anche un agente del caos. A tratti sembra voler bene a Lee. A tratti sembra disprezzarlo. Come ogni figura tossica, si lascia amare senza mai restituire nulla. Guadagnino è abilissimo nel non giudicarlo. Lo lascia esistere. Il che è ancora più inquietante.
Città del Messico: da fossa esistenziale a giardino carnale
La città di Burroughs è malsana, marginale, popolata da fantasmi tossici e fughe impossibili. È lo scenario di un mondo decadente, pre-AIDS, ma già votato alla malattia. Guadagnino rifonda completamente questo spazio: la città è calda, colorata, piena di vita e movimento. È un luogo erotico, pieno di promesse, ma anche teatro di una solitudine irreparabile. Guadagnino capovolge il paradigma: non è il mondo a essere malato, è Lee che è fuori asse. L’esterno è vivo, ma il suo sguardo lo filtra in ombra.
E il dolore?
Il dolore nel romanzo è costante, bruciante, autodiretto. Nel film è più sottile, più insidioso. Guadagnino non ci sbatte in faccia la dipendenza, l’autoannientamento, l’umiliazione più grottesca. Ce la lascia intuire. Eppure quando arriva – in certe scene con Whishaw solo in camera, a letto, che guarda il vuoto – colpisce più forte. Perché non è più la disperazione esibita del drogato: è il dolore senza soluzione del non essere visti. Guadagnino, in fondo, ha girato un film sull’invisibilità di chi ama troppo.
Spalanchiamo ora una delle porte più delicate e oscure di Queer: il desiderio coloniale. Sì, perché il film – come già il romanzo – è tutt’altro che innocente nella scelta della sua ambientazione. Parla (e mostra) di un uomo bianco che ama, bracca e consuma il proprio desiderio in terra straniera, nella Città del Messico degli anni Cinquanta, dove i corpi degli altri sono al tempo stesso altro da sé e carne disponibile. Ma Guadagnino, a differenza di Burroughs, non si limita a restituire questo meccanismo: lo mette in scena come un teatro di tensione morale.
Chi guarda chi?
Lee guarda Allerton. Lo fissa, lo insegue, lo tocca, lo annusa. Ma è sempre lui lo straniero. Il suo sguardo colonizza tutto: le feste locali, le strade, i volti dei ragazzi messicani che si intravedono appena – troppo fuggevoli per avere un nome, abbastanza presenti da indicare un sistema di gerarchie. In ogni scena, Guadagnino ci chiede: da dove stiamo guardando? Dal punto di vista dell’uomo che desidera, o da quello del mondo che lo subisce?
In una scena silenziosa, Lee osserva Allerton che balla con un ragazzo messicano. Ma lo sguardo non è gelosia amorosa: è furia imperiale, è la rabbia di chi vede sfuggire la sua preda verso un corpo non-bianco, giovane, a suo agio nel mondo. È in quell’istante che il film esplode. Non succede nulla, ma tutto cambia.
Il corpo esotico e l’oggetto d’amore
In Burroughs, Messico è solo uno sfondo: una taverna malfamata, un letto sfatto, una bottiglia. L’altro è un supporto al delirio tossico dell’io. Guadagnino invece trasforma lo spazio e i corpi in agenti attivi. Non ci dà mai l’alibi di un “desiderio innocente”. Ogni gesto erotico è attraversato dal privilegio bianco, dalla solitudine americana, dalla disperazione del colonizzatore decaduto.
Jacob Elordi, in questo quadro, è l’uomo bianco esotizzato: il biondo che diventa corpo tropicale. Guadagnino compie una torsione brillante: Allerton è l’oggetto colonizzato, ma non dal Messico – da Lee. Ed è proprio il fatto che sia bianco, alto, maschio, borghese, a rendere il gioco ancora più tossico: Lee desidera qualcuno che è già il simbolo della normalità, della mascolinità egemonica, del privilegio. In questo senso, il suo desiderio è anche un suicidio politico: ama ciò che lo esclude.
Erotismo postcoloniale: Guadagnino contro Burroughs
Guadagnino, rispetto a Burroughs, restituisce voce ai margini. Non li fa parlare, ma li fa esistere. Le inquadrature su volti, mani, piccoli gesti di corpi che non sono né Lee né Allerton – ma popolano lo spazio – sono come contro-canti visivi. Il desiderio queer qui non è mai solo liberazione: è predazione, consumo, rovina. E allo stesso tempo, è tutto ciò che resta. Guadagnino non giudica. Mostra. Ma nel mostrare, disseziona.
Lee come decadenza dell’Impero
Alla fine, Lee è l’ultima carcassa di un’America al tramonto. Non è più il cowboy virile, non è il liberatore, non è il beatnik geniale. È un uomo piccolo, dolente, che vuole essere amato da chi non lo vede. In Messico, invece di trovare il paradiso erotico (come nei sogni di tanti turisti del Novecento), trova la sua disfatta. La cultura che voleva consumare gli restituisce silenzio, o peggio: un sorriso beffardo.
Guadagnino gira il suo film queer più radicale a partire dal testo più tossico del canone gay americano, e lo fa senza snaturarlo né salvarlo, ma ritrasformandolo in tragedia lirica. In questo, compie un gesto potentissimo: riscrive la genealogia del desiderio omosessuale, non come percorso di liberazione ma come architettura di rovine.
Un’operazione queer nella sua forma più estrema
Perché “queer” non è soltanto desiderare contro il sistema, o amare chi si vuole. “Queer” è fallire la norma. È mancare il bersaglio. È non essere né salvi né salvabili. Guadagnino lo sa. E in questo film costruisce un’ode a chi ha amato fuori tempo massimo, a chi ha cercato nel corpo dell’altro una ragione per sopravvivere, fallendo. Eppure – miracolosamente – non c’è cinismo. C’è pietà.
Burroughs scriveva “Queer” come un documento crudo, anticatartico, antiromantico. Guadagnino ne fa un’aria d’opera del rimorso, un film che si muove come se ogni fotogramma fosse l’ultimo pensiero prima della morte. E proprio per questo riesce dove il libro non osa: fa tremare la carne. Non per la passione, ma per la mancanza d’amore.
Lee è Sebastian (e anche Blanche), Allerton è Chance Wayne
Lee è la reincarnazione maschile delle eroine travolte di Tennessee Williams: fragile, implorante, pericoloso nella sua tenerezza, inadatto al mondo, eppure mai veramente innocente. È Blanche che mendica un abbraccio. È Sebastian che cerca nel corpo degli altri qualcosa che plachi il gelo. Ma Guadagnino, ancora una volta, non fa pastiche. Sutura le ferite di Burroughs con i nervi scoperti di Williams.
Allerton invece è la mascolinità incarnata e sfuggente, il giovane dio che non si lascia toccare – a meno che non sia lui a decidere. La sua bellezza non è mai neutra. È potere. Guadagnino lo sa. E non fa nulla per nasconderlo.
Un film che non consola
Ed è qui che Guadagnino supera se stesso. Perché “Chiamami col tuo nome” era già malinconia. Ma “Queer” è strazio puro, senza redenzione. Un’agonia estetica. Non ci sono finali dolci. Non c’è la scena-memoria da custodire. C’è solo un uomo che ha perso tutto, che non ha mai avuto niente, e che guarda il mondo andare avanti senza di lui.
Ed è anche questo che è queer: essere fuori tempo, fuori luogo, fuori tono. Guadagnino, più che fare un film su Burroughs, ha scritto una lettera d’addio al desiderio stesso. E nel farlo, ci ha lasciato forse il suo capolavoro più disperato.
Posiamo l’orecchio sulla musica – quella lingua che Guadagnino conosce fin troppo bene. In Queer, la colonna sonora non è solo accompagnamento. È il doppio lirico del protagonista, un organismo che respira con lui, che urla al posto suo, che si spezza quando lui tace. E anche qui, l’operazione è radicale: non ci consola, ci scortica.
Musica queer come controcanto della vergogna
Ogni tema musicale, da quelli rarefatti e opachi di Alberto Iglesias fino agli inserti jazz che irrompono come schiaffi, funziona come memoria abortita, come qualcosa che voleva essere amore e invece è rimasto suono. Non c’è dolcezza. C’è l’eco di ciò che non è stato. Guadagnino sa che nella musica si annida l’ultima zona franca del desiderio: la possibilità di sublimarlo, di trattenerlo, di trasformarlo in ferita portabile.
Ma qui non c’è sublimo, solo lamento. La musica non nobilita. Canta il fallimento.
Jazz: suono del desiderio disarticolato
Il jazz, in questo film, non è glamour anni ’50. È psicosi. È la voce di Lee quando non riesce a parlare. Quando Allerton entra in scena, il ritmo si spezza. Le frasi musicali diventano sghembe, spezzate, come se anche il suono provasse vergogna. È il jazz non come libertà, ma come disordine erotico.
E qui Guadagnino tocca un vertice: trasforma la musica in campo di battaglia morale. Lo spettatore non è sedotto, è spinto ai margini del suono, dove vibra la vertigine del troppo tardi.
Il silenzio come gesto queer
E poi c’è il silenzio. Guadagnino lo usa come un coltello. Non per farci respirare – ma per farci sentire ogni assenza. È un silenzio che non calma. È un silenzio che punisce. Come se Lee, ormai svuotato, non potesse più permettersi nemmeno un tema musicale.
Il silenzio è queer, perché nega il climax, nega la catarsi. Il film non esplode mai: si disfa. E il suono sparisce con lui.
Guadagnino, regista della nostalgia impossibile
C’è qualcosa che attraversa Chiamami col tuo nome, Suspiria, Bones and All e ora Queer: la nostalgia per qualcosa che non è mai esistito. Guadagnino non rievoca un passato, ma un vuoto di passato. I suoi personaggi non ricordano: rimpiangono ciò che non hanno mai avuto, ciò che hanno solo immaginato. E questa nostalgia-fantasma è ciò che rende Queer così doloroso.
Perché Lee – come Elio, come Susie, come Maren – vive in una memoria che si scrive nel presente, che sanguina mentre accade. Il suo amore non è perduto: è immaginato, sognato, abortito. Non ha mai trovato una forma. Eppure ne porta il lutto.
Questa è la vera rivoluzione di Guadagnino: l’erotismo come lutto precoce. Desiderare significa già piangere. E nessuno come lui riesce a trasformare il desiderio in elegia.
Un controcanto queer a “Carol”
Queer è l’anti-Carol. Dove Haynes cerca lo splendore anche nella rinuncia, la grazia nella perdita, Guadagnino spinge fino al collasso la disarmonia tra i corpi. Haynes lavora per levare, Guadagnino per aggiungere crepe. Dove Carol trattiene, Queer eccede. Dove Carol si chiude su un sorriso ambiguo, Queer finisce con un’implosione glaciale.
Therese guarda Carol con desiderio muto; Lee guarda Allerton con fame di annientamento. Entrambi sanno che non avranno ciò che vogliono. Ma solo Lee continua a chiedere. E questa insistenza tragica – questa volontà di restare nel campo della vergogna – è ciò che rende Queer infinitamente più lacerante.
Il corpo maschile sonorizzato
Nel cinema queer, il corpo femminile è spesso avvolto, quasi cullato dalla musica: basti pensare alla Julianne Moore di Haynes, o alla Nicole Kidman in “The Hours”. Ma il corpo maschile, soprattutto quello desiderato da un altro uomo, viene accompagnato da suoni franti, sincopati, pieni di vuoti. È il corpo che “non può” – non può amare, non può arrendersi, non può danzare.
Allerton è bello, certo. Ma la sua bellezza è disonante, disturbata. Guadagnino non la esalta: la interroga. E la musica lo fa sanguinare. Come se anche il suono volesse dire: non puoi farti amare impunemente.
Guadagnino e il cinema come “luogo del mancato incontro”
In un’intervista, Guadagnino ha dichiarato che il cinema per lui è un luogo dell’impossibilità, uno spazio dove il desiderio non ha mai piena realizzazione. E questo è il cuore del suo lavoro: la messa in scena di ciò che non accade. La grande forza del suo cinema è che ci parla del desiderio come di un “fuori campo”, un’assenza permanente. Nel momento in cui un incontro è sul punto di accadere, c’è sempre un abisso che lo separa, un passo che nessuno dei personaggi può fare.
Nel caso di Queer, il “mancato incontro” è il cuore pulsante del film. Lee e Allerton non si incontrano mai davvero. Non si possiedono mai. Quello che vediamo è solo la prova visiva di un amore che non si consuma. Non c’è verità in quello che vediamo, solo l’incompiutezza di una passione che resta sempre in una zona liminare. La bellezza di Lee non è quella di chi ama, ma di chi ama disperatamente senza riuscirci mai.
Ogni scena, ogni incontro, sembra una danza di fantasmi: la superficie dei corpi è solo la traccia di un sogno che non si concretizzerà mai. Guadagnino è maestro nell'arte di mantenere l’illusione dell’incontro senza mai permettergli di accadere veramente.
Desiderio come possessione e malattia: Burroughs vs Genet
La malattia come desiderio è un tema che corre sottotraccia in tutto Queer, ma è Burroughs a offrire la sua traccia più oscura. La malattia, per Burroughs, non è solo un fallimento fisico. È la forma stessa del desiderio: un desiderio che devasta, che consuma, che annienta, ma che non trova mai fine. È il contrario della passione romantica: non c’è salvezza, non c’è purificazione. Solo un possesso che ci corrode senza restituirci niente.
Genet, al contrario, propone una visione più lirica della malattia del desiderio. Nei suoi lavori, il desiderio è un’esperienza più estetica, più elegante, anche se tragica. È un desiderio che si consuma nel dolore, ma non è mai volgare. Per lui, l’eros è sempre una forma di rivelazione. La bellezza del corpo come rivelazione di sé.
Guadagnino, mescolando queste due visioni, crea un incontro violento tra l’ansia di distruzione di Burroughs e la morbosa bellezza di Genet. Nel suo film, il desiderio è qualcosa che ci possiede, ma che allo stesso tempo ci trasforma in corpi vuoti. Non si tratta solo di un desiderio di possesso: è una malattia che ci consuma dall’interno, senza che ci sia mai un sollievo.
“Queer” e Mapplethorpe: il corpo come carne vivente
Se Mapplethorpe ha fotografato il corpo come se fosse una macchina da riparare, come se fosse la tela di un dipinto da rendere immortale, Guadagnino lo rimette in scena come carne da sacrificare, da brutalizzare. Nelle fotografie di Mapplethorpe c’è una bellezza dolce e perturbante, una sensualità che fluisce con naturalezza, come se il corpo fosse un oggetto da contemplare.
Nel cinema di Guadagnino, il corpo è una prigione, una carne che grida, un contenitore che non riesce a trattenere nulla. È una fisicità violenta, mai contemplativa. Il corpo non è mai solo desiderato: è consumato dal desiderio stesso. Come nella fotografia di Mapplethorpe, anche nel film il corpo diventa il “luogo dell’oscuro”, ma con una differenza sostanziale: mentre Mapplethorpe lo esalta, Guadagnino lo usa come luogo di morte.
Un’ulteriore lettura su Burroughs e Genet
Entrambi scrivono del corpo come luogo di corruzione, ma Burroughs porta questo tema all'estremo, dove il corpo non è più un veicolo di piacere ma una macchina, una struttura invasa dal virus del desiderio. Il suo corpo è qualcosa di incontrollabile, di malato, sempre pronto a esplodere. Guadagnino, influenzato da Burroughs, ci porta all’estremizzazione di quel desiderio: il corpo di Lee è qualcosa che non si può possedere o salvare. Non è solo una tela: è una macchina che implode.
Genet, d’altro canto, scrive di corpi che si sublimano nel desiderio. Il corpo di Genet è sempre una forma estetica, è il teatro di una passione che è anche un atto di grazia. Guadagnino, però, non vuole celebrare la bellezza estetica del corpo di Lee. Vuole corromperlo. Vuole farne il luogo di un sogno mancato, dove ogni gesto d’amore finisce in un cratere.
L’amore come fallimento universale
Queer non è un film che ti lascia con la sensazione di aver assistito a una storia d’amore non corrisposto. No. È un film che ti scuote perché ti fa capire che l’amore, in fondo, non è mai stato davvero il punto. La storia tra Lee e Allerton è il pretesto, ma la vera trama è il fallimento dell'amore stesso, la sua impossibilità di esistere in una forma che possa essere definita come "felice" o "completa". Non c’è né catarsi, né liberazione. C’è solo la continua erosione del desiderio che resta insoddisfatto.
Guadagnino ci fa navigare in questo spazio liminale dove ogni gesto d’amore è quasi un atto di violenza. Ogni sguardo, ogni carezza, è segnata da quella frattura: non possiamo mai davvero toccarci. È come se, a un certo punto, l’amore avesse smesso di essere qualcosa da raggiungere, e fosse diventato invece la cicatrice stessa di una ricerca perennemente frustrata.
Nel momento in cui Allerton si allontana, nel momento in cui Lee si volta, capiamo finalmente che il vero tema del film è l’incapacità di “arrivare all’altro”, che non è solo una difficoltà fisica o relazionale, ma una verità esistenziale. Guadagnino ci lascia con la consapevolezza che l’amore è, in fondo, l’unica cosa che non possiamo mai veramente possedere.
Una conclusione epica per un film che non si è mai compiuto
C’è qualcosa di inevitabile in Queer: come se tutto il film fosse una lunga, triste, inevitabile discesa verso una conclusione che già sappiamo. Ma ciò che rende la fine così potente, così insopportabile, è il fatto che Guadagnino non ci permette mai di risollevarci. Siamo già a terra quando il film finisce. E non c’è redenzione.
Ecco, allora il gran finale: Guadagnino lascia il pubblico con l’immagine più forte, quella che resterà impressa nella memoria collettiva: Lee, solo, disperato, completamente distrutto dall’amore non ricambiato. Ma non è un'immagine di fallimento. È un’immagine che, paradossalmente, ci dà un’intensa sensazione di libertà. Perché questa disperazione è l’unica verità. La libertà, come il desiderio, non è mai stata un luogo di arrivo. E quando tutto crolla, nel silenzio di una notte che non finisce mai, quel fallimento diventa il nostro unico rifugio.
Queer non ti consola. Non ti fa sperare in un “domani migliore”. Ma ti svela il segreto: il vero atto di libertà non è mai stato nel soddisfacimento del desiderio. È stato nel riconoscere che il desiderio è, sempre e comunque, una mancanza. E che questa mancanza è la nostra unica realtà.
Ed è proprio qui che finisce Queer: nell'accettazione del vuoto, nel riconoscere che la bellezza non è mai stata nell'incontro. È sempre stata nella distanza.
Il gran finale è tutto in questo silenzio che non smette mai di parlare.