Non è necessario iniziare dalla parola, né da un enunciato compiuto che fissa i contorni di ciò che verrà detto. Al contrario, sarebbe più opportuno cominciare da un tremito, da un accadere minimo che non appartiene né al pensiero né al linguaggio, ma a una zona intermedia in cui i segni non hanno ancora preso forma. Forse potrei dire che la poesia nasce come un gesto impercettibile: il polso che si contrae, l’aria che vibra nella gola, la mano che si muove senza sapere perché. Prima che esista un verso o una figura retorica, c’è una traccia somatica che non vuole esibizione ma solo esistenza: un’impronta nella polvere, il passaggio fugace di un’ombra sul muro, il rumore di un passo che non trova ascolto.
Questa origine sfugge alle categorie, perché si situa nel confine tra ciò che è percepito e ciò che non lo è ancora. È qui che il poeta impara ad ascoltare, non tanto se stesso quanto un silenzio più vasto che lo circonda e lo attraversa. Non serve cercare immagini o metafore: esse accadono spontaneamente, se si accetta di rinunciare al dominio della coscienza. L’atto poetico è prima di tutto un atto di sospensione. Sospendere significa arrestare il flusso abituale delle cose, interrompere il bisogno di dire tutto, mettere da parte il desiderio di essere compresi. Solo allora emerge la possibilità di una parola non strumentale, di un linguaggio che non serve a comunicare ma a custodire l’invisibile.
La sospensione è anche rinuncia. Rinuncia a giudicare, a raccontare, a spiegare. È un taglio, un gesto che sottrae invece di aggiungere. In un mondo dominato dall’eccesso di narrazione, dall’urgenza continua di produrre discorsi e significati, la poesia si pone come atto contrario: non saturare ma svuotare, non spiegare ma esitare, non accumulare ma aprire un vuoto. Ed è in questo vuoto che la parola poetica prende corpo, non come rappresentazione del mondo, ma come collisione interna al linguaggio.
L’immagine poetica, allora, non è una copia, non è lo specchio di ciò che vediamo. È piuttosto un campo di tensioni: un luogo in cui le parole si scontrano, si attraggono, si respingono. Non sono semplici segni, ma entità vive, corpi che obbediscono a leggi proprie. La poesia non mette in scena una realtà esterna: crea un mondo altro, fatto di collisioni verbali che generano figure nuove, imprevedibili. In questo spazio, l’io non sta di fronte al mondo come osservatore neutrale, ma vi è immerso, coinvolto, quasi sopraffatto. La poesia non descrive: accade.
Tutto ciò diventa visibile quando si osserva la duplicità del corpo scrivente. Da un lato, c’è il corpo vivo del poeta: la carne vulnerabile, la voce tremante, il respiro che si affanna. È questo corpo che soffre, che desidera, che ama. Dall’altro lato, c’è il corpo oggettivato, quello che la scrittura produce e consegna alla lettura. Questo secondo corpo è già distanziato, trasformato in traccia, in segno, in cosa. Eppure, senza la tensione tra i due, non esisterebbe la poesia. È nello scarto tra presenza e rappresentazione che nasce il senso, un senso che non si lascia mai fissare del tutto.
In questo contesto, immaginare non significa inventare favole o proiettare fantasie consolatorie. Immaginare è piuttosto neutralizzare il mondo, metterlo tra parentesi, renderlo estraneo per poterlo guardare diversamente. L’immaginazione poetica non aggiunge, non abbellisce: sottrae, cancella, annulla. È un atto di nientificazione. Ed è proprio in questo annullare che si apre la possibilità del nuovo, del mai visto, del possibile. Ciò che non c’è ancora si intravede solo quando ciò che c’è viene sospeso, oscurato, reso silenzioso.
Ma la poesia, anche quando si sottrae al mondo, non lo abbandona mai del tutto. C’è sempre un legame nascosto con il quotidiano, con la vita concreta. È come una radice che rimane nella terra mentre il tronco si allunga verso il cielo. La scrittura poetica porta in sé le tracce del corpo vivo da cui nasce, anche quando sembra volerle cancellare. Per questo il suo problema centrale non è rappresentare la vita, ma custodirne la percezione originaria, quella che precede ogni concetto. Il poeta non descrive: testimonia il momento in cui il percepito e l’impercettibile si toccano.
È in questo spazio che nasce il tema dell’“inesistente-esistenza”: una percezione che non è semplice sguardo ma esperienza primordiale. Non si tratta di guardare assenze o fenomeni, ma di abitare quella soglia in cui il reale e l’irreale si intrecciano. La poesia non è mai del tutto presente, ma neppure del tutto assente: è un’oscillazione, una vibrazione, un continuo apparire e scomparire.
Il soggetto che vi abita non è un io trionfante, non è il poeta che mette in scena se stesso come protagonista. Non è il fenomeno da baraccone di tanto presenzialismo letterario contemporaneo, né l’ego smanioso che vuole farsi riconoscere. È invece un corpo poetico senziente, animato da un’intenzionalità precategoriale. Non ragiona, non analizza: sente, percepisce, registra. Non trascende il mondo, ma vi è immerso. Non domina il linguaggio, ma ne è attraversato.
Da qui deriva un’altra possibilità di sapere. Non un sapere sistematico, non una dottrina o una teoria, ma un sapere lampo: momenti di evidenza originaria che illuminano per un istante il nostro vivere. La poesia non insegna: mostra. Non spiega: rivela. E proprio per questo, la sua forza è irriducibile.
Oggi, forse, il compito della poesia è questo: non competere con i linguaggi della comunicazione, non cercare un ruolo nel mercato culturale, ma custodire la propria estraneità. La poesia resta ai margini perché è nel margine che abita la sua verità. È lì che la scrittura diventa di nuovo corpo, gesto, contatto. Non segno da interpretare, ma esperienza da vivere.
Se il poeta appare “minore”, non è per difetto, ma per scelta. Non vuole visibilità, non cerca riconoscimento, non si piega al gioco della competizione. Resta fedele al silenzio, alla sospensione, alla zona in cui la parola si fa fragile e necessaria. E in questo restare fedele, il poeta non scompare: continua a esistere, a resistere, anche quando nessuno lo nomina.
Perché ciò che nasce dal corpo vivo non muore con il corpo. La scrittura, se davvero radicata in questa esperienza primordiale, non appartiene alla critica né al mercato: appartiene al sensibile, e dunque continua a vibrare. Così il poeta “minore”, dimenticato dai più, non smette di essere: la sua parola sopravvive come eco, come respiro, come silenzio che ritorna.
E in quel silenzio, che è più eloquente di ogni discorso, si custodisce ancora la forza originaria della poesia.