La luce del giorno si era spenta lentamente, come se l’intero mondo avesse deciso di sospendere il respiro. Il sole calava dietro la collina e il cielo si tingeva di un blu profondo, con lievi sfumature di grigio e indaco che si mescolavano tra loro. Fuori, l’aria portava l’odore freddo e pungente dell’inverno imminente: un miscuglio di legna bruciata, di terra umida e di foglie secche. Nel cortile, la neve di qualche giorno prima aveva lasciato una patina sottile e ghiacciata, e il suo scricchiolio si perdeva appena nel silenzio che già si faceva denso.
Dentro casa, il buio si insinuava tra le travi e le pareti di pietra, dilatandosi e avvolgendo ogni angolo. Le luci erano poche e tremolanti: una candela posata sul tavolo, la brace ancora viva nel focolare, qualche lampada a olio nel corridoio. Le stanze sembravano più piccole e raccolte, come se il tempo stesso si fosse ristretto e piegato sotto il peso della notte.
La cena era stata semplice, ma sostanziosa: una zuppa calda di legumi e cereali, pane di segale appena sfornato, un filo di olio e qualche fetta di formaggio stagionato. Ogni gesto era lento, misurato, come se già il pensiero fosse rivolto a quello che sarebbe venuto dopo. Il fuoco scoppiettava basso, mandando bagliori arancioni che danzavano sulle pareti scure, e l’odore acre della legna bruciata si mescolava al profumo del pane e del cibo.
Dopo aver mangiato, i rumori si fecero più sommessi. Il tintinnio delle stoviglie lavate, il cigolio leggero del legno che si assestava, il soffio del vento che si insinuava tra le fessure delle imposte. Tutto sembrava prepararsi al riposo. Anche il respiro di chi viveva quella casa si faceva più calmo e profondo, in attesa della notte vera.
Mi coricai presto, come era consuetudine nei mesi freddi. La coperta di lana grezza aveva il peso di un abbraccio antico, e il suo calore cominciò a diffondersi lentamente dalle spalle fino ai piedi, scaldandomi e rassicurandomi. Il letto era semplice, fatto di assi di legno e paglia, ma in quei momenti diventava un rifugio sacro, un luogo dove lasciare andare tutto il giorno e abbandonarsi al sonno.
Il primo sonno arrivò come un’onda lenta e sicura. Non ci fu resistenza né pensiero, solo la consapevolezza del corpo che si rilassava, della mente che si spegneva, e del buio che si faceva totale. Scivolai in quel sonno compatto e profondo, senza sogni, senza rumori, senza tempo.
Non saprei dire quanto durò. Forse quattro ore, forse cinque. Mi svegliai senza scatti o risvegli improvvisi. Gli occhi si aprirono piano, come se il corpo stesso avesse deciso che era tempo di riemergere. L’aria della stanza era cambiata: più fredda, più limpida, e portava con sé un odore lieve di cenere spenta e lana.
La luna era alta nel cielo e filtrava attraverso le imposte socchiuse, disegnando lame di luce argentata sul pavimento. La stanza appariva diversa, quasi magica: ogni cosa sembrava sospesa tra realtà e sogno. Non c’era fretta né inquietudine, solo un senso profondo di appartenenza a quell’ora di veglia.
Mi sollevai con calma, scostai le coperte e posai i piedi nudi sul pavimento di legno, che mi accolse con il suo freddo pungente. I passi verso la cucina furono ovattati, attenti a non rompere il silenzio. In cucina, il focolare si consumava lentamente. Le braci ancora vive emanavano un calore tenue, pulsante, come un cuore addormentato. L’odore della legna bruciata si mescolava a quello delle erbe essiccate appese alle travi, creando un profumo antico e confortante.
Mi sedetti vicino al fuoco, lasciando che quel calore mi raggiungesse a ondate leggere. Versai acqua calda in una tazza di terracotta e vi immersi un mazzetto di menta e timo raccolti durante l’estate. Il vapore salì lentamente, avvolgendomi il volto con la sua freschezza pungente. Bevvi a piccoli sorsi, sentendo il tepore che scendeva nella gola e si diffondeva nel petto.
Fuori, il mondo respirava piano. Il vento soffiava fra i rami spogli degli alberi, portando con sé il gemito di una trave che cedeva al freddo, il fruscio di neve secca che scivolava dal tetto, e l’eco lontana di un gufo che rompeva il silenzio con il suo verso malinconico. Il villaggio dormiva, ma non era un sonno profondo, piuttosto un riposo vigile, un respiro trattenuto in attesa di ciò che sarebbe venuto dopo.
Aprii le imposte quel tanto che bastava per guardare fuori. La strada era deserta e coperta da una patina di ghiaccio che scintillava alla luce della luna. Il pozzo, al centro del cortile, era un cerchio scuro circondato da ombre lunghe e tremolanti. Tutto sembrava fermo, immobile, sospeso in un attimo senza tempo.
Restai a lungo così, immobile, ad assorbire quell’aria fredda che pizzicava la pelle. Sentivo il battito lento del mio cuore, la mia respirazione che si faceva regolare, e una pace antica che sembrava sciogliere le tensioni del corpo e della mente. Quella sospensione era parte viva della notte, non un’interruzione del sonno, ma un intervallo sacro, un momento che apparteneva a un altro modo di abitare il tempo.
Nel silenzio di quelle ore mi vennero alla mente i racconti degli anziani, le storie di tempi in cui nessuno dormiva tutto d’un fiato, ma la notte si spezzava in due atti distinti. Non era insonnia, né malessere, ma un rito antico e naturale.
Guardando fuori, i fiocchi di neve cominciarono a cadere lenti, danzando leggeri nell’aria gelida. Le ombre si fecero più morbide e il mondo sembrò abbracciato da un soffice manto bianco. Ogni suono veniva attutito e tutto sembrava rallentare ancora di più.
Lentamente, il tepore del fuoco si affievolì, e il freddo tornò a farsi sentire. Tornai verso il letto con un passo lieve, come se non volessi disturbare quel fragile equilibrio. La coperta attendeva, pronta a riavvolgermi nel suo abbraccio.
Il secondo sonno mi accolse con un respiro più profondo e calmo. Era come tuffarsi in un fiume placido e silenzioso, senza ostacoli o correnti impetuose. Mi lasciai andare a quel flusso tranquillo, perdendomi nel buio senza tempo fino a quando i primi raggi dell’alba iniziarono a filtrare dalla finestra.
Il canto insistente del gallo segnò il passaggio definitivo dalla notte al giorno. L’aria del mattino era fresca e pungente, carica di promesse e di nuovi inizi. Aprii le finestre e il mondo entrò con tutto il suo fragore leggero: il profumo del pane appena cotto, il fruscio dei passi sul ghiaccio, le voci timide di chi si preparava a un’altra giornata.
Non c’era traccia di inquietudine o fatica. Avevo vissuto la notte nella sua interezza, nei suoi due respiri. E sapevo, nel profondo, che quel modo antico di abitare il tempo era qualcosa che nessun progresso avrebbe mai potuto cancellare del tutto.