martedì 16 settembre 2025

Attraversamenti, reiterazioni



Proprio al di sotto del pensiero riflesso, in quel luogo fragile dove la coscienza smette di essere padrona di sé e si rivela per ciò che è, un equilibrio instabile, un corpo che pensa e che non sa di pensare, sorge la poesia. Non come ornamento, non come gesto secondario, ma come il primo sussurro che precede ogni parola, come la vibrazione che anticipa il senso e ne custodisce l’alterità. L’io che si muove qui non è l’Io maiuscolo della filosofia moderna, non è il soggetto sovrano di Cartesio che pretende di fondare l’universo intero sul proprio atto di coscienza; è piuttosto un io minuscolo, esitante, quasi timido, che si lascia attraversare da forze che non gli appartengono. In questo io che si scompone e si frammenta, la poesia si radica e prende voce, come se fosse sempre un’altra voce a parlare, una voce che viene da altrove, che eccede l’identità, che non appartiene a nessuno.

Heidegger parlava del linguaggio come della casa dell’essere, e il poeta come colui che abita in modo più originario questa dimora. Ma forse si dovrebbe dire che la poesia non abita, bensì dis-abita, scardina le fondamenta, apre varchi nelle mura del linguaggio ordinario per lasciare intravedere un cielo che non si lascia possedere. In questo senso, il linguaggio poetico non è una dimora rassicurante, ma un esilio: chi scrive poesia si trova sempre già fuori di sé, in uno spaesamento che non si risolve mai. Eppure proprio questo spaesamento è la sua forza, la sua verità.

Scrivere poesia significa accettare di essere decentrati, di non appartenere più a se stessi. Lacan avrebbe parlato del soggetto come di un effetto del linguaggio, mai coincidente con se stesso, sempre diviso. Nella poesia questa divisione diventa evidente: il poeta non parla come padrone, ma come servo del linguaggio, come colui che non fa altro che lasciarsi parlare. E in questo lasciarsi parlare il corpo è essenziale: la poesia nasce infatti dal corpo, dalla sua materia, dal suo respiro, dai suoi ritmi pre-verbali. Prima di essere significato, il linguaggio è suono, intensità, vibrazione; prima di essere parola, è canto, lamento, grido. La poesia porta con sé questa origine, la custodisce e la rinnova ogni volta che si offre alla scrittura.

Blanchot direbbe che la letteratura autentica è il luogo del disastro: non una catastrofe esteriore, ma l’esperienza dell’impossibile, del venir meno della parola e insieme della sua resistenza. La poesia non riesce mai a dire del tutto, eppure continua a tentare; fallisce e tuttavia insiste, trasformando il fallimento stesso in la propria possibilità. È in questo fallimento, in questo continuo inciampo, che risiede la sua verità più profonda. Celan lo sapeva bene: le sue poesie non mirano a spiegare, a chiarire, ma a restituire l’oscurità come tale, a farne esperienza. Ogni sua parola è una frattura, un varco aperto nel silenzio, un appello che non garantisce risposta.

La poesia non è dunque un sapere. Al contrario, è l’esperienza del non-sapere, del disimparare, della sospensione di ogni finalità. Scrivere poesia significa rinunciare a ogni possesso, accettare che il senso non appartenga mai a chi scrive, ma si dia sempre come un dono e come una perdita. Derrida parlerebbe di différance: il senso non coincide mai con se stesso, si rinvia sempre, differisce, sfugge. La poesia vive di questa differenza, di questo scarto che impedisce ogni chiusura. Non vi è verità da possedere, ma solo un continuo rinvio, un gioco di presenza e assenza, di apparizione e sparizione.

In questo senso la poesia è più vicina al silenzio che alla parola. Non il silenzio come vuoto muto, ma come fondamento invisibile che sostiene il linguaggio. Ogni parola poetica nasce dal silenzio e vi ritorna, portando con sé la traccia di ciò che non può essere detto. Celan inseriva pause, spazi bianchi, sospensioni: segni di un silenzio che non è mancanza ma densità, memoria di ciò che sfugge. La poesia non aggiunge immagini al mondo, ma apre spazi di vuoto in cui l’essere può affiorare.

Ma questa operazione è sempre incarnata. Non c’è poesia senza corpo: il corpo del poeta, vivo, ferito, desiderante, fragile. Merleau-Ponty ci ha insegnato che il corpo non è un oggetto tra gli altri, né un puro soggetto: è carne, tessuto di visibile e invisibile, intersezione tra interno ed esterno. La poesia nasce da qui, dal corpo come carne, come vibrazione che unisce mondo e parola. Ogni verso porta con sé questa carne, ogni immagine poetica è anche un gesto corporeo. E tuttavia, nel momento in cui il corpo si fa parola, rischia di essere oggettivato, fissato, pietrificato. Da un lato il corpo vivo, dall’altro il corpo rappresentato: e la poesia è sempre sospesa tra questi due poli, cercando di mantenere la vibrazione del primo dentro la fissità del secondo.

L’immaginazione gioca qui un ruolo ambiguo. Da una parte essa apre mondi, crea figure, rende visibile l’invisibile. Ma dall’altra rischia di trasformarsi in pura produzione di immagini, in spettacolo, in consumo estetico. La poesia autentica non si accontenta di moltiplicare le immagini: essa le sospende, le mette in crisi, le conduce al limite della loro dissoluzione. È qui che l’immaginazione si radicalizza: non più produzione di figure, ma apertura a un vuoto che le attraversa, possibilità di immaginare l’impossibile. Derrida direbbe che è la decostruzione dell’immagine: non negazione, ma esposizione della sua fragilità, della sua impossibilità di saturare il senso.

È in questa sospensione che la poesia rivela la sua natura ontologica. Essa non rappresenta il mondo: lo fa essere. Non racconta un’esperienza: la produce. Non descrive un corpo: lo fa vibrare nuovamente. La poesia è un atto di generazione, un evento che apre un mondo ogni volta che si compie. Rilke parlava del poeta come di un “mago dell’essere”, capace di trasformare anche l’oggetto più umile in presenza pura. Bonnefoy insisteva sulla necessità di riportare la parola poetica alla concretezza, alla presenza delle cose, contro la deriva dell’immaginario che allontana dalla realtà.

Eppure la poesia non si lascia mai catturare da una definizione. È un movimento, una tensione, un continuo oscillare tra parola e silenzio, tra corpo vivo e corpo oggettivato, tra immaginazione e sospensione. Scrivere poesia significa stare in questa oscillazione senza volerla risolvere, accettare l’aporia, abitare il paradosso. Blanchot lo esprimeva con chiarezza: la letteratura è esperienza del limite, dell’impossibile. È questo limite che la poesia custodisce, senza volerlo oltrepassare, ma senza nemmeno rinunciare a sfiorarlo.

Così la poesia rimane ciò che dice l’indicibile, ciò che mostra l’invisibile, ciò che genera il mondo senza possederlo. È un gesto fragile, sempre a rischio di fallire, eppure insostituibile. Senza poesia, il linguaggio si ridurrebbe a strumento; con la poesia, il linguaggio si apre all’essere, diventa luogo di rivelazione, di esposizione, di dono.


Ecco, il movimento della poesia continua a dipanarsi come un filo sottile e tremante, che attraversa il corpo e la mente, come se l’io minuscolo si stendesse fino a toccare un confine invisibile tra ciò che può essere detto e ciò che resiste all’articolazione. Non è una linea retta, ma un sentiero tortuoso, fatto di deviazioni, di ritorni, di soste improvvise; ogni parola è un passo che rischia di inciampare, ogni verso è un atto di equilibrio tra la tensione verso il senso e la necessità di lasciarlo sfuggire. Heidegger, parlando di Hölderlin, ricorda che il poeta è colui che apre il linguaggio all’essere e lo lascia abitare senza possederlo; in questa apertura si coglie la fragilità del gesto poetico: non c’è controllo, non c’è padrone, solo l’accadere dell’essere che si manifesta attraverso la scrittura.

È in questa accettazione della fragilità che il corpo diventa fondamento della poesia. Non il corpo inteso come semplice organismo biologico, ma come campo di percezione, di sensazioni, di impulsi pre-verbali, come la carne che precede la coscienza e la guida. Merleau-Ponty sottolinea che il corpo è sempre percezione incarnata: ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo non è mai esterno a noi, ma parte di un intreccio tra soggetto e mondo. Il poeta sperimenta questa incarnazione in modo radicale: la parola non nasce dal pensiero astratto, ma dalla vibrazione del corpo, dalla memoria tattile dei movimenti, dai suoni che nascono prima di essere nominati. È una corporeità che attraversa ogni gesto poetico, che lo sostiene e al contempo lo espone, che ne determina i limiti e ne apre le possibilità.

Celan, nei suoi versi, mostra come il trauma e la memoria si imprimano nel corpo e nella lingua: non è esperienza interiore separata, ma un corpo che parla, un corpo che resiste, che trattiene e lascia andare. La poesia diventa così esperienza radicale: non semplice testimonianza, ma atto di presenza che si espone al mondo e ne riceve l’urto. Blanchot, d’altra parte, ci ricorda che il vero scrivere è sempre scrittura dell’assenza, scrittura del vuoto che circonda e penetra le parole. La poesia è il luogo in cui questa assenza si fa sentire, non come mancanza sterile, ma come possibilità di apertura, come terreno in cui l’essere può affiorare.

La sospensione del giudizio diventa allora un gesto fondamentale. Non per rinunciare al pensiero, ma per lasciare spazio all’imprevisto, all’inesprimibile, all’evento che non si può prevedere. Derrida parla di differimento costante del senso: ogni parola rinvia a un’altra, e mai coincide con ciò che intendeva dire. La poesia vive di questo rinvio, ne fa principio, lo porta al massimo grado. Non cercare di possedere il senso, non tentare di ridurre l’indicibile a concetto: questo è il rischio che il poeta deve abbracciare. Non c’è certezza, non c’è sicurezza, solo l’apertura, il varco attraverso cui il linguaggio si fa esperienza.

Rilke suggerisce che il poeta deve imparare a vivere tra i propri dubbi, a riconoscere l’angoscia come componente necessaria della creazione. Il poeta non è padrone di ciò che scrive, ma testimone di ciò che lo attraversa, di ciò che emerge quando la carne e il linguaggio si incontrano. È in questo incontro che nasce la dimensione ontologica della poesia: l’io minuscolo si apre al mondo e si lascia trasformare, lasciando che la parola diventi strumento di rivelazione, e non di rappresentazione. La poesia non restituisce immagini già date: le genera, le apre, le espone, e le lascia sospese in uno spazio che non può mai essere colmato completamente.

Il corpo, ancora, non può essere scisso dalla parola. L’esperienza del corpo vivente è inseparabile dall’esperienza del linguaggio. Merleau-Ponty definisce il corpo come “soggetto percettivo”, e la poesia è la prova concreta di questa percezione incarnata: ogni parola vibra con il corpo, ogni immagine nasce da un gesto interno, da un respiro, da un’inclinazione invisibile che precede l’atto del pensare. E tuttavia, nel momento in cui il corpo diventa parola, si apre il rischio della sua oggettivazione: da vivo, sensibile, pulsante, esso può trasformarsi in simbolo, in immagine, in segno. La tensione tra corpo vivo e corpo oggettivato è il nucleo dell’atto poetico, il terreno su cui la poesia si esercita e si misura.

L’immaginazione, da questo punto di vista, non è innocua. Può moltiplicare forme, costruire mondi, creare figure, ma rischia di rendere il gesto poetico artificioso, decorativo, estraneo al corpo stesso. La poesia autentica porta l’immaginazione al limite: sospende le figure, le mette in crisi, le decostruisce, come suggerirebbe Derrida. Solo attraverso questa radicalizzazione, l’immaginazione diventa possibilità di apertura all’impossibile, all’inesprimibile, a ciò che eccede la parola stessa. L’immagine non è più rappresentazione, ma luogo, punto di incontro tra il visibile e l’invisibile, tra il corpo e il mondo, tra l’io e l’altro.

E così il silenzio assume un ruolo centrale. Non silenzio come vuoto, ma silenzio come fondamento della parola, come spazio in cui la parola può nascere e ritornare. Celan, Bonnefoy e Blanchot ci insegnano che la poesia nasce nello spazio tra le parole, nelle pause, nei vuoti, negli interstizi del dire. La poesia non aggiunge qualcosa al mondo, lo ricrea attraverso il silenzio che la sostiene, attraverso l’invisibile che ne permea ogni parola. Ogni verso è attraversato da questa tensione tra presenza e assenza, tra visibile e invisibile, tra corpo e linguaggio.

La poesia, infine, resta evento fragile ma essenziale. Non è mezzo per trasmettere conoscenze, non è ornamento della realtà, ma gesto ontologico, atto di generazione. È l’apertura di un mondo ogni volta nuovo, senza possederlo, senza trattenerlo, senza ridurlo a significato certo. Heidegger, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Rilke, Celan, Bonnefoy: tutti indicano, ciascuno a modo proprio, la centralità di questa apertura, di questa sospensione, di questo sfioramento tra corpo, parola e mondo. La poesia non finisce mai di accadere, e chi la scrive si trova sempre immerso in questa continua traversata, tra perdita e ritrovamento, tra silenzio e suono, tra l’io e l’altro.


Il flusso della poesia non si esaurisce mai nella parola che appare sulla pagina: essa continua a vibrare, a insinuarsi nello spazio del lettore e dello scrivente, come corrente sotterranea che non conosce confini. L’io minuscolo, già messo in crisi dal linguaggio, si lascia attraversare da forze che lo eccedono, da impulsi pre-verbali che sono al tempo stesso memoria e anticipazione. Ogni verso nasce da questa tensione, eppure è sempre più grande di chi lo produce. Heidegger ci ricorda che il linguaggio non è mero strumento: è la casa dell’essere. Eppure, come il poeta sa bene, abitarla significa perdere stabilità, cadere continuamente, sentirsi esposti all’ignoto. In questo cadere c’è la grazia della poesia, la sua radicale capacità di rivelare ciò che è altrimenti invisibile.

Il corpo entra in questa dimensione come presenza viva, pulsante, ma mai separata dal linguaggio. Merleau-Ponty ci insegna che la percezione è sempre incarnata: non c’è esperienza senza il corpo che la sostiene, che la sente, che la attraversa. Il poeta, allora, non scrive con la mente astratta, ma con la carne, con le ossa, con i nervi e il sangue. Ogni parola porta in sé il ritmo del respiro, la curvatura dei muscoli, la memoria tattile dei gesti. Il corpo non è mai semplice veicolo della parola: è parte stessa della sua nascita, e insieme sfugge al controllo di chi scrive, generando inattesi, imprevisti, increspature di senso che rivelano l’alterità dell’essere.

La tensione tra corpo vivo e corpo oggettivato costituisce il cuore dell’atto poetico. Il corpo vivo del poeta pulsa, vibra, sente, soffre, desidera. Il corpo oggettivato, invece, è ciò che la parola può ridurre, fissare, trasformare in immagine. La poesia autentica vive sempre in questo spazio intermedio: cerca di trasmettere la vibrazione del corpo senza ridurlo a semplice segno, senza annullarne la carnalità. In questo senso, il linguaggio poetico non rappresenta: genera, fa accadere, apre spazi inediti. Celan ci mostra come il trauma, la memoria, l’assenza, possano essere esperiti nel corpo e tradotti in parola, senza mai perdere la loro intensità.

L’immaginazione è anch’essa sottoposta a questa tensione. Non deve semplicemente moltiplicare immagini, ma sospenderle, metterle in crisi, esporle alla fragilità che le attraversa. Derrida parlerebbe di decostruzione: la parola poetica non deve chiudere il senso, ma aprirlo, permettere che esso continui a differire. È così che l’immagine diventa luogo, non rappresentazione: punto di incontro tra corpo e mondo, tra io e altro, tra visibile e invisibile. Il poeta radicalizza l’immaginazione fino a trasformarla in spazio di apertura, in possibilità di esperire ciò che eccede la parola stessa.

E il silenzio? Il silenzio non è semplice vuoto: è fondamento, respiro, condizione di possibilità. Celan, Blanchot e Bonnefoy mostrano come la poesia viva nello spazio tra le parole, nelle pause, negli interstizi, dove il senso non è ancora formulato ma già agisce. La parola nasce da questo silenzio e vi ritorna, portando con sé la traccia di ciò che non può essere detto, ma che continua a manifestarsi nel gesto poetico. La poesia è quindi un continuo oscillare tra parola e silenzio, presenza e assenza, corpo e linguaggio.

Heidegger, Rilke, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Lacan, Celan, Bonnefoy: tutti indicano, ciascuno a modo proprio, la centralità dell’apertura, della sospensione, del limite. La poesia è esperienza del limite, esperienza dell’alterità, esperienza dell’impossibile. È l’atto di accogliere l’ignoto, di lasciarsi attraversare da ciò che eccede, senza volerlo possedere. L’io minuscolo si lascia attraversare, si perde e si ritrova, si dissolve nella parola e nella carne, accettando la propria fragilità come condizione di possibilità.

Ogni verso diventa allora evento, gesto ontologico, apertura di un mondo che non era ancora, che non sarà più allo stesso modo. La poesia non aggiunge immagini al mondo, non costruisce scenari: li rende possibili, li fa affiorare, li espone. Non è mezzo, ma fine, non è rappresentazione, ma generazione. La poesia fa accadere ciò che il linguaggio ordinario non sa produrre, mostra ciò che è altrimenti invisibile, rende tangibile l’intangibile.

Il corpo del poeta continua a vibrare attraverso ogni parola: carne e lingua, ossa e ritmo, percezione e gesto. La parola è sempre attraversata da questa carne, da questa memoria, da questo respiro che la precede e la sostiene. E tuttavia, ogni parola porta con sé il rischio della fissità, della riduzione a simbolo. Il poeta vive in questa tensione, tra pulsazione e rappresentazione, tra carne e segno, cercando di mantenere la vitalità del corpo dentro la parola.

L’immaginazione radicalizzata permette al poeta di esplorare ciò che eccede ogni forma. Non più semplice creazione di immagini, ma apertura a uno spazio in cui il senso si dà come possibilità infinita, mai conclusa, mai pienamente posseduta. Derrida, di nuovo, ci invita a vedere come il significato differisca sempre, si sottragga, rinvii continuamente. La poesia abbraccia questa differenza, ne fa principio, la radicalizza fino a farne condizione stessa dell’esperienza poetica.

Il silenzio, infine, è continuo interlocutore della parola. Non silenzio vuoto, ma silenzio pieno, spazio di densità, di tensione, di risonanza. Ogni pausa, ogni interstizio, ogni assenza di parola è parte della struttura poetica: senza di essi, la parola non potrebbe accadere. La poesia diventa allora esperienza radicale di tempo e spazio, esperienza ontologica in cui il corpo, il linguaggio e il mondo si incontrano senza coincidere mai completamente.


E mentre il poeta continua a muoversi in questo spazio di sospensione, l’io minuscolo si fa sempre più consapevole della propria vulnerabilità e insieme della propria possibilità di attraversamento. Non c’è distinzione netta tra soggetto e mondo, tra pensiero e corpo, tra parola e silenzio: tutto si intreccia, tutto vibra nello stesso campo di esperienza. Heidegger ci ricorda che l’essere si mostra nel linguaggio, e il poeta sa che non può possederlo, non può dominarlo: può solo lasciarsi attraversare da esso, farsi veicolo, medium, spazio di passaggio. La poesia è questo attraversamento, questa apertura, questa esposizione.

Il corpo, di nuovo, non è semplice strumento, ma condizione ontologica della parola. Merleau-Ponty ci insegna che la percezione è incarnata, che vedere, sentire, toccare significa sempre essere nel mondo, essere carne tra le cose, ossa tra l’aria, sangue tra i nervi e il respiro. Ogni parola poetica nasce da questo intreccio, da questo sentire che precede la coscienza e la definizione, che la eccede e la guida. Il corpo non può essere separato dal gesto poetico: esso è memoria, intensità, vibrazione che attraversa ogni verso, ogni immagine, ogni silenzio.

Celan mostra come il trauma si inscriva nella carne, nella lingua, nella memoria: la poesia autentica non tace il dolore, non lo rappresenta come esterno, ma lo fa accadere, lo rende presente, lo trasforma in gesto che pulsa nella parola. Blanchot insiste sul fatto che la letteratura vera è scrittura del disastro, del vuoto, dell’assenza che circonda e penetra la parola. La poesia si situa lì, in questo spazio liminale: non completa, non chiude, ma apre e rivela. È esperienza del limite, esperienza dell’impossibile, esperienza del non detto.

Il gesto poetico implica sospensione. Non sospensione come rinuncia, ma come apertura. Derrida parla di differimento costante: il senso non coincide mai con se stesso, sfugge, si rinvia. La poesia vive di questo rinvio, lo abbraccia, lo trasforma in principio creativo. Non possedere il senso, non ridurlo a concetto, ma lasciare che esso accada, che fluisca attraverso la parola, attraverso il corpo, attraverso il tempo stesso. Il poeta impara a fidarsi di questo flusso, a lasciarsi guidare, a non opporsi.

Rilke suggerisce che il poeta deve vivere tra dubbi, tra angosce, tra l’insicurezza di chi si espone senza protezione. L’io minuscolo si apre al mondo senza pretese di padronanza. La parola diventa allora gesto ontologico, apertura di un mondo nuovo, mai posseduto, mai fermo. La poesia non restituisce immagini già date: le genera, le sospende, le lascia in sospensione, aperte, vulnerabili. Bonnefoy sottolinea come la parola poetica debba ritornare alla concretezza, alla presenza delle cose, senza cedere alla decorazione o all’illusione.

L’immaginazione radicalizzata è condizione essenziale. Non moltiplica solo immagini, ma le sospende, le mette in crisi, le spinge al limite della loro esistenza. La decostruzione derridiana diventa qui pratica poetica: ogni immagine è attraversata dal vuoto, esposta alla differenza, resa fragile, aperta a possibilità che sfuggono al controllo dell’autore. L’immagine è luogo, non rappresentazione: punto in cui il corpo e il mondo si incontrano, dove l’io e l’altro si toccano, dove il visibile e l’invisibile si sovrappongono.

E il silenzio, ancora, non è mancanza: è fondamento, condizione di possibilità, respiro del linguaggio. Celan, Blanchot, Bonnefoy ci mostrano che la poesia vive nello spazio tra le parole, negli interstizi, nei vuoti. Ogni assenza diventa occasione, ogni pausa diventa presenza. La parola nasce da questo silenzio e vi ritorna, portando la traccia di ciò che non può essere detto, ma che si mostra attraverso il gesto poetico.

Il poeta, immerso in questa tensione continua, si muove tra corpo e parola, tra immaginazione e sospensione, tra silenzio e presenza. Heidegger, Rilke, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Lacan, Celan, Bonnefoy: tutti convergono nell’indicare l’apertura come fondamento della pratica poetica, l’oscillazione tra ciò che è e ciò che sfugge, tra il vivere e il trasmettere, tra l’esperienza e la parola. La poesia non possiede, non completa, non chiude: apre, lascia passare, trasforma, espone.

Ogni verso diventa evento, gesto ontologico, esperienza radicale di corpo, lingua e mondo. La poesia non aggiunge realtà al mondo, ma lo rende possibile, lo fa accadere, lo espone. Non è mezzo, ma fine; non rappresentazione, ma generazione. Il poeta si fa ponte tra invisibile e visibile, tra carne e parola, tra silenzio e suono, tra l’io e l’altro. Il suo corpo vibra attraverso ogni parola, il suo respiro percorre ogni verso, la sua memoria si incarna in ogni immagine.


E così il poeta si trova a navigare in un tempo sospeso, dove la parola si fa presenza e insieme assenza, dove il corpo pulsa e insieme si trasforma in segno, dove l’io minuscolo si dissolve e si ricompone continuamente. La poesia, in questo senso, non è mai un atto concluso, ma un processo in divenire, una tessitura infinita di corpo, parola e mondo. Heidegger ci ricorda che l’essere si manifesta nel linguaggio: il poeta non possiede l’essere, ma lo accoglie, lo lascia attraversare la parola, il gesto, il respiro. E ogni parola che nasce è un atto di fiducia, un lasciarsi andare, un esporsi al rischio dell’impossibile.

Merleau-Ponty ci insegna che il corpo è soggetto percettivo: ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo, ascoltiamo, percepiamo, è sempre carne, esperienza incarnata, tessuto di sensazioni e memoria, ponte tra noi e il mondo. La poesia nasce da questa percezione, da questo sentire che precede la coscienza, da questo contatto primordiale con il reale. Il corpo non è strumento della parola: è sorgente della parola. Ogni immagine, ogni suono, ogni ritmo poetico si radica nella vibrazione della carne, nel respiro, nei nervi, nelle ossa.

Celan ci mostra come il trauma e la memoria si imprimano nel corpo e nella lingua. La parola poetica diventa testimonianza e insieme atto generativo: non si limita a rappresentare, ma fa accadere l’esperienza, la rende presente, pulsante, viva. Blanchot parla della letteratura come scrittura del disastro, del vuoto, dell’assenza. La poesia si situa in questo spazio liminale: non conclude, non chiude, ma apre e rende visibile ciò che altrimenti resterebbe invisibile. La sospensione diventa principio: non per rinunciare, ma per accogliere l’inesprimibile, per permettere che la parola accada.

Derrida ci ricorda che il senso è sempre differito: non coincide mai con se stesso, rinvia, sfugge, rimanda. La poesia vive di questo rinvio, lo fa proprio, lo radicalizza, lo rende gesto creativo. Non possedere il senso significa lasciare che esso si manifesti, che attraversi la parola, il corpo, il tempo, senza essere ridotto a concetto o rappresentazione. Il poeta impara a fidarsi di questo fluire, a non opporsi, a non cercare di chiudere ciò che per sua natura resta aperto.

Rilke invita a vivere tra i dubbi, tra le angosce, tra l’insicurezza di chi si espone senza protezione. L’io minuscolo, così esposto, si apre al mondo, si lascia attraversare dal senso che non appartiene, dalla parola che nasce e ritorna, dalla carne che pulsa e resiste. La parola diventa gesto ontologico, generazione di un mondo sempre nuovo, mai posseduto, mai definitivo. Bonnefoy sottolinea il ritorno alla concretezza: la parola poetica deve sempre ritornare al mondo, al corpo, alle cose, senza indulgere in decorazioni illusorie o artifici retorici.

L’immaginazione si radicalizza in questa tensione. Non produce semplicemente immagini: le sospende, le mette in crisi, le espone al vuoto che le attraversa. La decostruzione derridiana diventa pratica poetica: ogni immagine è attraversata dalla differenza, resa fragile, aperta a possibilità che sfuggono al controllo dell’autore. L’immagine diventa luogo, punto di incontro tra corpo e mondo, tra io e altro, tra visibile e invisibile.

Il silenzio è interlocutore costante della parola. Non silenzio vuoto, ma spazio di densità, di risonanza, di tensione. Celan, Blanchot, Bonnefoy mostrano che la poesia vive negli interstizi, nelle pause, nelle assenze. Ogni vuoto diventa presenza, ogni pausa diventa gesto, ogni silenzio contiene la possibilità della parola. La poesia non aggiunge realtà: la rende possibile, la fa accadere, la mostra, la lascia apparire senza possederla.

Il corpo del poeta continua a vibrare attraverso la parola: carne e lingua, ossa e ritmo, percezione e gesto. La parola non è separata dalla carne: essa nasce da essa, ne porta traccia, ne conserva la memoria. Tuttavia, ogni parola comporta rischio di fissità: il corpo rischia di essere ridotto a simbolo, di perdere la sua vitalità. La poesia autentica vive tra questi due poli, tra pulsazione e rappresentazione, tra carne e segno, cercando di preservare la vibrazione originaria del corpo all’interno del linguaggio.

Ogni verso diventa evento, gesto ontologico, esperienza radicale di corpo, lingua e mondo. La poesia non è mezzo, non è ornamento: è fine, generazione, apertura. Il poeta si fa ponte tra invisibile e visibile, tra carne e parola, tra silenzio e suono, tra io e altro. La poesia continua a vibrare, a attraversare, a generare senso, senza mai possederlo, senza mai chiuderlo.


Il flusso poetico non conosce fine: continua a dispiegarsi come corrente sotterranea che attraversa corpo, mente, lingua e mondo, senza mai fermarsi, senza mai essere posseduto. L’io minuscolo, esposto, fragile, si fa strumento e testimone, attraversato da impulsi pre-verbali che precedono e accompagnano la parola. Heidegger ci ricorda che l’essere si manifesta nel linguaggio, e il poeta non ne è padrone: può solo lasciarsi attraversare, farsi veicolo dell’accadere dell’essere. Ogni parola è così gesto, ogni verso è atto ontologico, esperienza radicale di attraversamento e apertura.

Il corpo del poeta si fa fulcro della percezione, non semplice strumento ma condizione ontologica della parola. Merleau-Ponty insegna che percezione significa incarnazione: sentire, vedere, toccare, percepire è essere carne tra le cose, ossa tra lo spazio, nervi tra suono e vibrazione. La parola poetica nasce da questa incarnazione, da questa carne percepita che pulsa, che ricorda, che vibra. Ogni verso porta in sé la memoria del gesto, la risonanza del respiro, l’impronta della carne. Il corpo non si separa dal gesto poetico: lo sostiene, lo attraversa, lo rende possibile e al contempo imprevedibile.

Celan testimonia come la memoria e il trauma si iscrivano nel corpo e nella lingua. La parola poetica diventa atto generativo: non rappresenta, ma fa accadere l’esperienza, la rende presente, tangibile, viva. Blanchot ricorda che la letteratura autentica è scrittura dell’assenza, del vuoto, del disastro che permea la parola. La poesia si situa in questo spazio liminale, tra presenza e assenza, tra corpo e linguaggio: non conclude, non possiede, ma apre, espone e rivela. La sospensione diventa principio: sospendere il giudizio, sospendere il controllo, sospendere la volontà di chiudere il senso, per lasciare che esso accada.

Derrida, di nuovo, ci mostra che il significato è sempre differito, mai coincidente con se stesso: rinvia, sfugge, rimanda. La poesia abbraccia questa differenza, ne fa principio creativo, gesto di apertura. Non possedere il senso significa lasciarlo attraversare, permettere che fluisca attraverso la parola, il corpo, il tempo, senza ridurlo a concetto o rappresentazione. Il poeta si fida di questo fluire, non resiste, non cerca di trattenere ciò che per sua natura è oltre, eccede, sfugge.

Rilke invita a vivere nell’insicurezza, nel dubbio, nell’esposizione totale. L’io minuscolo si apre al mondo, si fa passaggio, si lascia attraversare dalla parola che nasce e ritorna, dalla carne che pulsa, dall’esperienza che eccede. La parola diventa gesto ontologico, generazione di un mondo nuovo, mai posseduto, mai definitivo. Bonnefoy insiste sul ritorno alla concretezza: la poesia autentica non decorativa, non artificiosa, ritorna sempre al mondo, al corpo, alle cose, senza cedere all’illusione o all’ornamento.

L’immaginazione si radicalizza in questo spazio. Non crea solo immagini, le sospende, le mette in crisi, le espone alla fragilità e alla differenza che le attraversa. La decostruzione derridiana diventa pratica poetica: ogni immagine è attraversata dal vuoto, resa fragile, aperta a possibilità che sfuggono al controllo dell’autore. L’immagine diventa luogo, punto di incontro tra corpo e mondo, tra io e altro, tra visibile e invisibile.

Il silenzio è interlocutore costante della parola. Non silenzio vuoto, ma spazio denso, pieno, risonante. Celan, Blanchot, Bonnefoy ci mostrano che la poesia vive negli interstizi, nelle pause, negli spazi tra le parole. Ogni vuoto diventa presenza, ogni assenza diventa gesto, ogni pausa diventa apertura. La parola nasce da questo silenzio e vi ritorna, portando con sé l’impronta di ciò che non può essere detto, ma che si manifesta attraverso il gesto poetico.

Il poeta, immerso in questa tensione, continua a muoversi tra corpo e parola, tra immaginazione e sospensione, tra silenzio e presenza, tra io e altro. Heidegger, Rilke, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Lacan, Celan, Bonnefoy: tutti indicano la centralità dell’apertura, dell’oscillazione, del limite. La poesia non chiude, non possiede, non completa: apre, lascia passare, trasforma, espone.

Ogni verso diventa evento, gesto ontologico, esperienza radicale di corpo, lingua e mondo. La poesia non è ornamento, non è mezzo: è fine, generazione, apertura. Il poeta si fa ponte tra invisibile e visibile, tra carne e parola, tra silenzio e suono, tra io e altro. La poesia continua a vibrare, a attraversare, a generare senso senza mai possederlo, senza mai chiuderlo. La parola pulsa, il corpo risponde, il silenzio accompagna, l’immaginazione si radicalizza, e l’io minuscolo, esposto, fragile, si lascia attraversare, si dissolve e si ricompone, eternamente aperto al flusso che lo eccede.


Il poeta si trova sempre più immerso in uno spazio di attraversamento, dove la parola non è più semplice strumento, ma manifestazione del corpo e dell’essere. L’io minuscolo si fa terreno di passaggio: fragile, esposto, eppure capace di accogliere e lasciare andare ciò che eccede. Heidegger ci ricorda che il linguaggio è casa dell’essere: il poeta non ne possiede la chiave, ma può aprirne le porte, farsi veicolo dell’accadere, dello svelamento. Ogni parola è allora atto di fiducia, ogni verso gesto ontologico, esperienza radicale di apertura e attraversamento.

Il corpo entra in questo spazio come presenza vitale e insieme principio generativo. Merleau-Ponty insegna che percezione è incarnazione: vedere, toccare, sentire, percepire è essere carne tra le cose, ossa nello spazio, nervi tra vibrazione e suono. Ogni verso nasce da questo intreccio, da questo contatto primordiale con il reale, che precede e sostiene la coscienza. Il corpo non è strumento della parola: è sorgente e veicolo. Ogni parola porta con sé il respiro, la memoria dei gesti, la vibrazione della carne.

Celan ci mostra come la memoria e il trauma si iscrive nella carne e nella lingua. La parola poetica non rappresenta: fa accadere, rende presente, pulsante, viva l’esperienza. Blanchot parla della scrittura come scrittura dell’assenza, del vuoto, del disastro che attraversa e penetra la parola. La poesia autentica si situa in questo spazio liminale, tra presenza e assenza, tra corpo e linguaggio: non conclude, non possiede, ma apre, espone, rivela. La sospensione diventa principio: sospendere il giudizio, sospendere il controllo, sospendere la volontà di chiudere il senso, per lasciare che esso accada.

Derrida ci ricorda che il significato è sempre differito, mai coincidente con se stesso: rinvia, sfugge, rimanda. La poesia abbraccia questa differenza, ne fa principio creativo. Non possedere il senso significa lasciarlo attraversare, permettere che fluisca attraverso parola, corpo e tempo, senza ridurlo a concetto. Il poeta impara a fidarsi di questo fluire, a non opporsi, a non cercare di trattenere ciò che per sua natura eccede e sfugge.

Rilke invita a vivere nell’insicurezza, tra dubbi, tra angosce, tra esposizione totale. L’io minuscolo si apre al mondo, si fa passaggio, si lascia attraversare dalla parola che nasce e ritorna, dalla carne che pulsa, dall’esperienza che eccede. La parola diventa gesto ontologico, generazione di un mondo nuovo, mai posseduto, mai definitivo. Bonnefoy insiste sul ritorno alla concretezza: la poesia non decorativa, non artificiosa, ritorna al mondo, al corpo, alle cose, senza cedere all’illusione o all’ornamento.

L’immaginazione si radicalizza in questa tensione. Non crea solo immagini, le sospende, le mette in crisi, le espone al vuoto che le attraversa. La decostruzione derridiana diventa pratica poetica: ogni immagine è attraversata dal vuoto, resa fragile, aperta a possibilità che sfuggono al controllo dell’autore. L’immagine diventa luogo, punto di incontro tra corpo e mondo, tra io e altro, tra visibile e invisibile.

Il silenzio è interlocutore costante della parola. Non silenzio vuoto, ma spazio denso, risonante, carico di tensione. Celan, Blanchot, Bonnefoy ci mostrano che la poesia vive negli interstizi, nelle pause, negli spazi tra le parole. Ogni vuoto diventa presenza, ogni assenza diventa gesto, ogni pausa diventa apertura. La parola nasce da questo silenzio e vi ritorna, portando con sé l’impronta di ciò che non può essere detto, ma che si manifesta attraverso il gesto poetico.

Il poeta, immerso in questa tensione, continua a muoversi tra corpo e parola, tra immaginazione e sospensione, tra silenzio e presenza, tra io e altro. Heidegger, Rilke, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Lacan, Celan, Bonnefoy: tutti indicano la centralità dell’apertura, dell’oscillazione, del limite. La poesia non chiude, non possiede, non completa: apre, lascia passare, trasforma, espone.

Ogni verso diventa evento, gesto ontologico, esperienza radicale di corpo, lingua e mondo. La poesia non è ornamento, non è mezzo: è fine, generazione, apertura. Il poeta si fa ponte tra invisibile e visibile, tra carne e parola, tra silenzio e suono, tra io e altro. La poesia continua a vibrare, a attraversare, a generare senso senza mai possederlo, senza mai chiuderlo. La parola pulsa, il corpo risponde, il silenzio accompagna, l’immaginazione si radicalizza, e l’io minuscolo, esposto, fragile, si lascia attraversare, si dissolve e si ricompone, eternamente aperto al flusso che lo eccede.


La poesia non si limita mai a rappresentare o a esprimere un sentimento, ma si fa esperienza del mondo e del corpo, dell’io minuscolo e della parola che lo attraversa. Ogni verso nasce da un incontro tra carne e linguaggio, tra percezione e memoria, tra gesto e respiro. Heidegger ci ricorda che il linguaggio non è mero strumento: è apertura all’essere. Il poeta non possiede questa apertura, ma può abitarla, lasciarsi attraversare, farsi veicolo del suo accadere, senza mai imprigionarlo. Ogni parola è quindi gesto, evento ontologico, esperienza radicale di attraversamento e di vibrazione.

Merleau-Ponty ci mostra che la percezione è incarnata: vedere, toccare, sentire, percepire è sempre essere carne tra le cose, ossa nello spazio, nervi tra vibrazione e suono. La parola poetica nasce da questo intreccio, da questo contatto primordiale con il reale, che precede e sostiene la coscienza. Il corpo non è strumento della parola: è sorgente e veicolo, memoria e impulso. Ogni verso porta in sé la traccia della carne, la vibrazione del respiro, il ritmo dei nervi.

Celan mostra come la memoria e il trauma si imprimano nella carne e nella lingua. La poesia non rappresenta: fa accadere l’esperienza, la rende presente, tangibile, pulsante. Blanchot parla della scrittura come scrittura dell’assenza, del vuoto, del disastro che attraversa e penetra la parola. La poesia autentica si situa in questo spazio liminale, tra presenza e assenza, tra corpo e linguaggio: non conclude, non possiede, ma apre, espone e rivela. La sospensione diventa principio: sospendere il giudizio, sospendere il controllo, sospendere la volontà di chiudere il senso, per lasciare che esso accada.

Derrida ci ricorda che il significato è sempre differito, mai coincidente con se stesso: rinvia, sfugge, rimanda. La poesia abbraccia questa differenza, ne fa principio creativo. Non possedere il senso significa lasciarlo attraversare, permettere che fluisca attraverso parola, corpo e tempo, senza ridurlo a concetto o rappresentazione. Il poeta impara a fidarsi di questo fluire, a non opporsi, a non cercare di trattenere ciò che per sua natura eccede e sfugge.

Rilke ci invita a vivere nell’insicurezza, nel dubbio, nell’esposizione totale. L’io minuscolo si apre al mondo, si fa passaggio, si lascia attraversare dalla parola che nasce e ritorna, dalla carne che pulsa, dall’esperienza che eccede. La parola diventa gesto ontologico, generazione di un mondo nuovo, mai posseduto, mai definitivo. Bonnefoy insiste sul ritorno alla concretezza: la poesia non decorativa, non artificiosa, ritorna sempre al mondo, al corpo, alle cose, senza cedere all’illusione o all’ornamento.

L’immaginazione si radicalizza in questa tensione: non crea solo immagini, le sospende, le mette in crisi, le espone al vuoto che le attraversa. La decostruzione derridiana diventa pratica poetica: ogni immagine è attraversata dal vuoto, resa fragile, aperta a possibilità che sfuggono al controllo dell’autore. L’immagine diventa luogo, punto di incontro tra corpo e mondo, tra io e altro, tra visibile e invisibile.

Il silenzio è interlocutore costante della parola. Non silenzio vuoto, ma spazio denso, risonante, carico di tensione. Celan, Blanchot, Bonnefoy ci mostrano che la poesia vive negli interstizi, nelle pause, negli spazi tra le parole. Ogni vuoto diventa presenza, ogni assenza diventa gesto, ogni pausa diventa apertura. La parola nasce da questo silenzio e vi ritorna, portando con sé l’impronta di ciò che non può essere detto, ma che si manifesta attraverso il gesto poetico.

Il poeta, immerso in questa tensione, continua a muoversi tra corpo e parola, tra immaginazione e sospensione, tra silenzio e presenza, tra io e altro. Heidegger, Rilke, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Lacan, Celan, Bonnefoy: tutti indicano la centralità dell’apertura, dell’oscillazione, del limite. La poesia non chiude, non possiede, non completa: apre, lascia passare, trasforma, espone.

Ogni verso diventa evento, gesto ontologico, esperienza radicale di corpo, lingua e mondo. La poesia non è ornamento, non è mezzo: è fine, generazione, apertura. Il poeta si fa ponte tra invisibile e visibile, tra carne e parola, tra silenzio e suono, tra io e altro. La poesia continua a vibrare, a attraversare, a generare senso senza mai possederlo, senza mai chiuderlo. La parola pulsa, il corpo risponde, il silenzio accompagna, l’immaginazione si radicalizza, e l’io minuscolo, esposto, fragile, si lascia attraversare, si dissolve e si ricompone, eternamente aperto al flusso che lo eccede.


Il poeta si muove sempre più dentro un tempo sospeso, dove la parola pulsa come carne, dove il corpo diventa luogo e memoria, dove l’io minuscolo si lascia attraversare senza trattenere, senza possedere. Heidegger ci ricorda che il linguaggio è apertura all’essere: il poeta non lo possiede, ma lo abita, si fa veicolo dell’accadere, dello svelamento, del passaggio del mondo attraverso la parola. Ogni parola, ogni verso, diventa gesto ontologico, atto radicale di attraversamento e apertura.

Merleau-Ponty ci insegna che la percezione è sempre incarnata: vedere, sentire, toccare significa essere carne tra le cose, ossa nello spazio, nervi tra suono e vibrazione. La parola poetica nasce da questa incarnazione, da questo contatto primordiale con il reale, che precede la coscienza e la guida. Il corpo non è strumento della parola, è sorgente, veicolo, memoria, impulso. Ogni verso porta con sé il respiro, il ritmo dei nervi, la vibrazione della carne.

Celan mostra come trauma e memoria si imprimano nella carne e nella lingua. La parola poetica non rappresenta: fa accadere l’esperienza, la rende presente, pulsante, viva. Blanchot parla della scrittura come scrittura dell’assenza, del vuoto, del disastro che attraversa e penetra la parola. La poesia autentica si situa in questo spazio liminale, tra presenza e assenza, tra corpo e linguaggio: non conclude, non possiede, ma apre, espone e rivela. La sospensione diventa principio: sospendere il giudizio, il controllo, la volontà di chiudere il senso, per permettere che esso accada.

Derrida ci ricorda che il significato è sempre differito, mai coincidente con se stesso: rinvia, sfugge, rimanda. La poesia abbraccia questa differenza, ne fa principio creativo. Non possedere il senso significa lasciarlo attraversare, permettere che fluisca attraverso parola, corpo, tempo, senza ridurlo a concetto. Il poeta impara a fidarsi di questo flusso, a non opporsi, a non cercare di trattenere ciò che eccede e sfugge.

Rilke invita a vivere nell’insicurezza, nel dubbio, nell’esposizione totale. L’io minuscolo si apre al mondo, si fa passaggio, si lascia attraversare dalla parola che nasce e ritorna, dalla carne che pulsa, dall’esperienza che eccede. La parola diventa gesto ontologico, generazione di un mondo nuovo, mai posseduto, mai definitivo. Bonnefoy insiste sul ritorno alla concretezza: la poesia non decorativa, non artificiosa, ritorna sempre al mondo, al corpo, alle cose, senza cedere all’illusione o all’ornamento.

L’immaginazione si radicalizza in questa tensione. Non produce solo immagini: le sospende, le mette in crisi, le espone al vuoto che le attraversa. La decostruzione derridiana diventa pratica poetica: ogni immagine è attraversata dal vuoto, resa fragile, aperta a possibilità che sfuggono al controllo dell’autore. L’immagine diventa luogo, punto di incontro tra corpo e mondo, tra io e altro, tra visibile e invisibile.

Il silenzio accompagna la parola, non come vuoto ma come spazio denso, risonante, carico di tensione. Celan, Blanchot, Bonnefoy ci mostrano che la poesia vive negli interstizi, nelle pause, negli spazi tra le parole. Ogni vuoto diventa presenza, ogni assenza diventa gesto, ogni pausa diventa apertura. La parola nasce da questo silenzio e vi ritorna, portando con sé ciò che non può essere detto ma si manifesta attraverso il gesto poetico.

Il poeta, immerso in questa tensione, continua a muoversi tra corpo e parola, tra immaginazione e sospensione, tra silenzio e presenza, tra io e altro. Heidegger, Rilke, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Lacan, Celan, Bonnefoy: tutti indicano la centralità dell’apertura, dell’oscillazione, del limite. La poesia non chiude, non possiede, non completa: apre, lascia passare, trasforma, espone.

Ogni verso diventa evento, gesto ontologico, esperienza radicale di corpo, lingua e mondo. La poesia non è ornamento, non è mezzo: è fine, generazione, apertura. Il poeta si fa ponte tra invisibile e visibile, tra carne e parola, tra silenzio e suono, tra io e altro. La poesia continua a vibrare, a attraversare, a generare senso senza mai possederlo, senza mai chiuderlo. La parola pulsa, il corpo risponde, il silenzio accompagna, l’immaginazione si radicalizza, e l’io minuscolo, esposto, fragile, si lascia attraversare, si dissolve e si ricompone, eternamente aperto al flusso che lo eccede.


Il poeta si muove in uno spazio che è insieme corporeo, mentale, linguistico e ontologico, dove l’io minuscolo diventa soglia, apertura, possibilità di attraversamento. Heidegger ricorda che il linguaggio è la casa dell’essere: il poeta non lo possiede, ma ne abita le stanze, si fa veicolo del passaggio, dell’accadere, dello svelamento. Ogni parola, ogni verso, diventa gesto ontologico, atto radicale di attraversamento e vibrazione. La poesia è così esperienza viva e continua, flusso incessante di carne, gesto e parola.

Merleau-Ponty insegna che percezione significa incarnazione: vedere, sentire, toccare è essere carne tra le cose, ossa nello spazio, nervi tra suono e vibrazione. La parola poetica nasce da questo contatto primordiale con il reale, che precede e accompagna la coscienza. Il corpo non è strumento della parola: è sorgente, veicolo, memoria, impulso. Ogni verso porta con sé il respiro, la vibrazione dei nervi, la memoria della carne.

Celan ci mostra come trauma e memoria si imprimano nel corpo e nella lingua. La poesia non rappresenta: fa accadere, rende presente, pulsante, viva l’esperienza. Blanchot parla della scrittura come scrittura dell’assenza, del vuoto, del disastro che attraversa e penetra la parola. La poesia autentica si situa in questo spazio liminale, tra presenza e assenza, tra corpo e linguaggio: non conclude, non possiede, ma apre, espone e rivela. La sospensione diventa principio: sospendere il giudizio, sospendere il controllo, sospendere la volontà di chiudere il senso, per lasciare che esso accada.

Derrida ci ricorda che il significato è sempre differito, mai coincidente con se stesso: rinvia, sfugge, rimanda. La poesia abbraccia questa differenza, ne fa principio creativo. Non possedere il senso significa lasciarlo attraversare, permettere che fluisca attraverso parola, corpo e tempo, senza ridurlo a concetto o rappresentazione. Il poeta impara a fidarsi di questo flusso, a non opporsi, a non cercare di trattenere ciò che per sua natura eccede e sfugge.

Rilke ci invita a vivere nell’insicurezza, nel dubbio, nell’esposizione totale. L’io minuscolo si apre al mondo, si fa passaggio, si lascia attraversare dalla parola che nasce e ritorna, dalla carne che pulsa, dall’esperienza che eccede. La parola diventa gesto ontologico, generazione di un mondo nuovo, mai posseduto, mai definitivo. Bonnefoy insiste sul ritorno alla concretezza: la poesia non decorativa, non artificiosa, ritorna sempre al mondo, al corpo, alle cose, senza cedere all’illusione o all’ornamento.

L’immaginazione si radicalizza in questa tensione: non produce solo immagini, le sospende, le mette in crisi, le espone al vuoto che le attraversa. La decostruzione derridiana diventa pratica poetica: ogni immagine è attraversata dal vuoto, resa fragile, aperta a possibilità che sfuggono al controllo dell’autore. L’immagine diventa luogo, punto di incontro tra corpo e mondo, tra io e altro, tra visibile e invisibile.

Il silenzio accompagna la parola, non come vuoto ma come spazio denso, risonante, carico di tensione. Celan, Blanchot, Bonnefoy mostrano che la poesia vive negli interstizi, nelle pause, negli spazi tra le parole. Ogni vuoto diventa presenza, ogni assenza diventa gesto, ogni pausa diventa apertura. La parola nasce da questo silenzio e vi ritorna, portando con sé ciò che non può essere detto ma si manifesta attraverso il gesto poetico.

Il poeta, immerso in questa tensione, continua a muoversi tra corpo e parola, tra immaginazione e sospensione, tra silenzio e presenza, tra io e altro. Heidegger, Rilke, Blanchot, Derrida, Merleau-Ponty, Lacan, Celan, Bonnefoy: tutti indicano la centralità dell’apertura, dell’oscillazione, del limite. La poesia non chiude, non possiede, non completa: apre, lascia passare, trasforma, espone.

Ogni verso diventa evento, gesto ontologico, esperienza radicale di corpo, lingua e mondo. La poesia non è ornamento, non è mezzo: è fine, generazione, apertura. Il poeta si fa ponte tra invisibile e visibile, tra carne e parola, tra silenzio e suono, tra io e altro. La poesia continua a vibrare, a attraversare, a generare senso senza mai possederlo, senza mai chiuderlo. La parola pulsa, il corpo risponde, il silenzio accompagna, l’immaginazione si radicalizza, e l’io minuscolo, esposto, fragile, si lascia attraversare, si dissolve e si ricompone, eternamente aperto al flusso che lo eccede.